Gina Nalini Montanari

I luoghi della devozione
cari a Lucrezia Borgia.

 

 

Inquietante è apparsa alle interrogazioni di ogni epoca la figura di Lucrezia Borgia affascinante e misteriosa. La storia, nel suo quotidiano compito di revisione dl passato, ne ha portato al centro del moderno dibattito culturale la complessa e articolata personalità evidenziando le tante inclinazioni del suo carattere: una componente fondamentale del suo temperamento era costituita dalla fede religiosa. Pur tra le inquietudini e le stranezze del suo vivere, tra le incoerenze e i compromessi che l’epoca stessa del Rinascimento comportava, Lucrezia visse e coltivò la sua fede con sincerità e profondità dettate da una forte esigenza religiosa che avvertiva quasi per natura e verso la quale fu indirizzata dall’educazione ricevuta fin da bambina. Tutto il percorso della sua pur breve esistenza è segnato da pause che la portavano dopo esperienze sconvolgenti a frequenti ritiri nei conventi per "ritrovarsi" o per meditare e chiedere consigli quando il suo ruolo di duchessa lo richiedesse.

Le fonti documentarie ci dicono che Lucrezia trascorse i primi anni della sua infanzia accanto alla madre, la lombarda Vannozza Cattaneo; ma dodicenne appena, fu affidata alla spagnola Adriana Mila Orsini, una parente del padre, il papa Alessandro VI; la nobildonna si prese cura della crescita umana e culturale della fanciulla, le stette accanto nella sua formazione intellettuale e spirituale. Lucrezia crebbe nella casa di Santa Maria in Portico, contigua al Vaticano e vicina al palazzo papale, e non le mancarono le sollecitazioni culturali: il mecenatismo di Alessandro VI apriva la corte principesca ad artisti, poeti, musicisti e maestri di ogni tipo del sapere. Lucrezia, già bilingue (parla italiano e spagnolo), apprende con l’arte del ricamo il latino, la musica, la danza, la piacevolezza del parlare, come si conviene a una fanciulla destinata a diventare una donna di palazzo. Intanto vede attorno a sé la pittura del Pinturicchio, la scultura di Michelangelo, ascolta la poesia di Serafino Aquilano, affina il gusto, scopre l’eleganza, impara ad amare il bello. La sua anima trova il proprio nutrimento tra le mura dei conventi: le suore domenicane del monastero di San Sisto di fronte alle terme di Caracalla, vicino alla via Appia, la avviano ancora bambina alla pia pratica dei ritiri spirituali durante i periodi forti della liturgia cristiana in preparazione alle solennità religiose.

Il silenzio di quel luogo appartato, i canti innalzati dalle suore in una melodia inusitata nel mondo, il profumo inebriante degli incensi rapiscono la sua fede ancora ingenua con la visione di un mondo sicuro nella gioia e nella pace, nel quale nostalgicamente amava ritirarsi come in un rifugio. Nel turbinio vorticoso delle vicende matrimoniali e non, che sconvolsero gli anni della sua prima giovinezza, Lucrezia mai dimenticò queste sensazioni e tra il vibrare delle loro intermittenze sentiva di ricuperare il proprio cuore e forse anche le fragilità della sua esuberante giovinezza. La dimestichezza con la realtà monastica divenne per Lucrezia un’esigenza fondante, una categoria imprescindibile della propria esistenza. Il convento fu allora, e continuò ad essere soprattutto per Lucrezia duchessa estense, il rifugio che dà tregua alle pene del vivere, che porta sicurezza alle inquietudini dello spirito, il luogo dove si cerca il divino e forse lo si vede "nell’oscurità della contemplazione"

Quando ventenne Lucrezia approda a Ferrara sposa ad Alfonso I d’Este, porta con sé una dote smisurata, ma anche la ricchezza di questa sua propensione religiosa devozionale; ne sono testimonianza i libri di spiritualità che teneva presso di sé; tra essi figurano le Lettere della domenicana S. Caterina da Siena, Lo specchio della fede di ispirazione francescana, una Vita di Cristo in lingua spagnola, la Lezenda de santi e altri che insieme formano la bibliotechina privata di 15 volumi descritti nell’inventario degli anni 1502 /19.

Nella città estense Lucrezia trovava una corte sensibile e aperta al fatto religioso e non solo per opportunità politiche: la dinastia estense per tradizione vantava tra i suoi ascendenti beate e santi. Ma per venire a tempi più vicini a quelli di Lucrezia, Borso d’Este, nella costumatezza del suo vivere, scandiva gli impegni del giorno sulla recita del libro d’ore; fu Borso a volere la presenza dei certosini in città e a loro commissionò le pergamene dipinte della celebre Bibbia. Il suo successore Ercole I, suocero di Lucrezia, pur tra le scelte politiche eticamente discutibili volute dalla prassi politica rinascimentale non scevra da compromessi o da violenze, anelava ad un fervore religioso che sentiva spento in quei tempi difficili per la chiesa; così ebbe fede nella forza rinnovatrice del Savonarola, così volle nella città la domenicana suor Lucia Brocadelli da Narni, e la volle a tutti i costi; poiché i viterbesi non volevano cedere la loro santa la fece rapire nascosta su un carro che trasportava ortaggi. Il duca Ercole vedeva in Lucia la santa viva, quale testimone di autentico misticismo. Nelle mani della monaca che si piagavano delle stimmate ogni venerdì, il duca affidava le cure dello stato, depositava il peso del suo cuore in una prospettiva di serenità.

Fu proprio il duca Ercole, standole seduto accanto sulla carretta, ad accompagnare, subito dopo il matrimonio, la giovane nuora in visita alle chiese e ai conventi, per tradizione "più ligi alla corte". Poiché in quei giorni si avvicinano le festività della Pasqua, Lucrezia, come era stata abituata fin da fanciulla, volle ritirarsi in convento per una pausa dopo il frastuono delle feste, dei banchetti, dei concerti seguiti alle sue nozze: nel silenzio del convento avrebbe ripercorso nella fede la via della Croce. Per quei giorni di grande liturgia Lucrezia non scelse il convento delle monache benedettine di S. Antonio in Polesine fondato dalla beata Beatrice II d’Este, né si recò in quello domenicano di Santa Caterina da Siena, recentemente fatto costruire da Ercole per suor Lucia e le altre monache di Viterbo in via Arianuova; eppure quelle religiose erano giunte a Ferrara anche per sua intercessione presso il papa. Lucrezia, ancora promessa sposa, sapeva quanto il futuro suocero potesse essere avaro, ed aveva cercato di compiacerlo per ingraziarselo.

Come già la defunta suocera Eleonora d’Aragona, Lucrezia manifestò la sua predilezione per il convento del Corpus Domini delle sorelle povere di Santa Chiara. Alcuni storici ritengono che Lucrezia, risentita del fatto che il suocero non le concedeva l’appannaggio di 12000 ducati, avesse fatto quella scelta per fargli dispetto. A noi piace pensare, invece, che la scelta sia stata dettata da un atteggiamento di coerenza in linea con la pratica religiosa che Lucrezia aveva fatto propria in quegli anni. In una lettera dell’11 aprile 1502 indirizzata a suo cognato Francesco Gonzaga, marito di Isabella d’Este, si augura che il marchese "voglia fare onore a tanto padre, cioè a S. Francesco, come bon figliolo, così come sono anche io e parte sono de tanti excellenti Frati quanto sono in la sua religione". Dunque Lucrezia aveva abbracciato in pieno la spiritualità francescana ed era diventata sorella laica del terzo ordine francescano, al quale era stata introdotta da Ludovico della Torre, vicario generale dei francescani Osservanti, seguaci di San Bernardino da Siena, il rinnovatore degli ideali del Santo di Assisi: nella sua visione cristocentrica della realtà S, Bernardino predicava il messaggio sempre attuale della carità e della giustizia sociale. La sua presenza nella città estense vive ancora oggi nelle insegna con il monogramma di Cristo JHS inciso sulle facciate a proteggere, senza distinzione, edifici pubblici, palazzi nobiliari, povere case. Dei tanti monogrammi il più suggestivo decora la loggia grande nel cortile di Casa Romei un tempo inserita nel complesso conventuale del Corpus Domini per volontà testamentaria dello stesso Giovanni Romei, proprietario della casa con la bella moglie Polissena d’Este. Proprio in questo convento, dove la venerazione per S. Bernardino fu tenuta viva da Santa Caterina Vegri e dalle sue consorelle, Lucrezia venne ripetutamente a ritemprarsi dopo esperienze di vita che la provavano intimamente. Nonostante il suo matrimonio con Alfonso I fosse stato concertato e stipulato dalle cancellerie della diplomazia politica, i due sposi si piacquero appena si videro nel castello di Bentivoglio dove Alfonso era accorso per conoscere la donna la cui fama tanto l’inquietava. Già nel marzo dello stesso anno 1502 Lucrezia aspettava un figlio tra l’esultanza del papa e della corte estense che attendeva l’erede legittimo; ma quella creatura morirà nel grembo stesso che l’aveva accolta alla vita. Nel pieno dell’estate era scoppiata anche a corte una terribile epidemia che subito colpì Lucrezia debilitata dalla difficile maternità: una febbre persistente la perseguitò fino ai primi di settembre, quando diede alla luce una bambina morta. Ferita nella sua intimità di donna, colpita nel suo ruolo di genitrice per la continuità della discendenza estense, Lucrezia si piegava in quel senso di svuotamento di se stessa e cercava il silenzio consolatore del chiostro per riempire di quiete il vuoto del silenzio. Così si ritirò per quasi tutto il mese di ottobre nel monastero delle Clarisse del Corpus Domini. La comprensione piena di tenerezza, l’affabilità premurosa e anche la festevolezza tipica del modo di vivere delle suore aiutarono Lucrezia a "riprendersi", mentre la sostenne nel suo cammino di fede la meditazione sul Breviario francescano, il famoso "ufiziuolo" o libro d’ore che quotidianamente lesse per tutta la vita. Fondamentale fu il suo incontro con il frate francescano Raffaele Griffi da Varese, invitato a Ferrara nel 1507 per predicare la quaresima di quell’anno. Significativi documenti ci rivelano quale risonanza ebbero le sue parole nell’intimo di Lucrezia e come trasformarono la sua condotta di vita. In quello stesso anno 1507 Lucrezia era raggiunta da un’altra dolorosa notizia di lutto: dopo la morte del padre, del suocero e della figlia nata morta; dopo i fatti criminosi della congiura di don Giulio e Ferrante a danno del marito, arrivava ora la notizia della morte del fratello Cesare, il Valentino, che essa amava con sincero affetto fraterno. Al frate francescano che le recava la notizia letale rispondeva: "Quanto più cerco conformarme con Dio, tanto più me visita di affanni. Rengracio Sua Maestà, sono contenta di quel che li piace". Queste parole svelano il livello di mansuetudine e di accettazione del dolore cui Lucrezia è giunta poiché si è interrogata sul senso da attribuire alle sofferenze, al dolore, alla morte. Agli interrogativi, che in ogni tempo angosciano, la risposta sembra di coglierla in una lettera indirizzata a Isabella nel dicembre 1508; in essa la duchessa si scusa di non averle risposto con sollecitudine, "per trovarse occupata circa la comunione la vigilia di Natale ne le suore del Corpo di Xristo". Solo in una dimensione trascendente di amore Lucrezia trova pienezza di significato e dunque conforto. Ma questa certezza non rimane a livello di intimismo personale e diventa subito forza morale che essa proietta nel suo ruolo di duchessa e di reggente della corte, quando il marito Alfonso è assente, impegnato in viaggi diplomatici o più spesso coinvolto in operazioni militari.

La generosità della sua azione benefica fu rivolta a tutti senza distinzione: i cortigiani la stimarono per il suo mecenatismo; i sudditi la rispettarono per la sollecitudine con cui espletava le loro richieste private: per esempio interveniva in materia di giustizia quando i processi venivano prolungati oltre misura; il popolo tutto l’amava: l’amava intenerito dalla fragilità e insieme dalla forza di quella donna che senza risparmiarsi si donava alle frequenti difficili maternità che mettevano in pericolo la sua vita; certo le donne del popolo dovevano sentirla vicina e simile a loro nel ruolo di madre; tutti poi l’amavano per le numerose elargizioni, specie nelle carestie, nelle pestilenze, nelle guerre quando non esitava a impegnare i suoi gioielli per andare incontro ai bisogni del popolo, per soccorrere i suoi sudditi; sensibile alla condizione femminile interveniva allorché non venivano rispettati i contratti matrimoniali; protesse dai pericoli della strada le fanciulle povere o abbandonate, affidandole alle premure delle suore, verso le quali fu sempre molto caritatevole. Quando nel 1505 una malattia incomprensibile, scrive il cronista Zambotti, infierì sulla popolazione, pregò il duca Alfonso di provvedere lui direttamente alle suore clarisse, che impedite dalla paura del contagio non potevano uscire per la questua. Anche qualche anno più tardi, sempre per suggerimento e richiesta della consorte, il duca Alfonso si prenderà cura delle clarisse in seguito a un evento che ancora una volta veniva a segnare dolorosamente la vita di Lucrezia: Cesare Borgia aveva lasciato alla sua morte una figlioletta di 5 anni appena, di nome Camilla. Lucrezia la prese sotto la sua protezione e la fece educare dalle suore del Corpus Domini e quasi prevedendo la futura vocazione delle nipote, volle che Camilla avesse un monastero tutto suo. Si dava il caso che i monaci della certosa avessero dato inizio alla costruzione di un loro convento in un terreno ricevuto in dono da Ercole I, sul corso della Giovecca all’angolo della via Mortara (oggi occupato dall’ospedale S. Anna). Poiché i lavori non procedevano, Lucrezia indusse il duca a comprare il tutto per 4000 lire dall’abate cistercense e continuare la costruzione del convento che venne poi dedicato a S. Bernardino da Siena cui le clarisse erano devote. Un alzato inciso da Andrea Bolzoni nel 1747, quando il convento era ancora attivo, ne mostra tutta la grandiosità. Camilla Borgia, prima ancora della vestizione, si trasferì con alcune suore nel nuovo monastero, e qui trascorse la sua vita consacrata "piena di sante opere", scrivono i cronisti. Il nuovo monastero delle clarisse di S, Bernardino divenne per Lucrezia un altro luogo dell’anima, dove attingendo alla fede francescana, essa cresceva nella radicalità di quel messaggio; si può ben credere che la povertà damianitica che Lucrezia voleva per le clarisse rispondesse a una sua reale esigenza di spiritualità. In questo contesto diventa emblematica l’espressione dello storico che disse Lucrezia "annodata" ai francescani con quel "cordone de seda berrettina grosso cum quattro gruppi di oro battuto schietti; facti a cordone de S. Francesco". Certo non era il cilicio comunemente inteso come strumento di mortificazione; a dar credito a questa interpretazione fu il marchese Giovanni Gonzaga che, presente ai funerali di Lucrezia, scriveva allo zio Federico in data 29 giugno 1519 "qui si dicono cose grandi della vita sua e che da forse diese anni portava el cilicio". Certo è, tuttavia, che da anni la duchessa conduceva vita più moderata e aveva preteso per sé e per le sue dame di corte abiti più modesti, con qualche gorgiera in più e qualche filo d’oro in meno. Nell’inventario del suo guardaroba due volte si legge che di una baschina (gonna) di "brochato fodrata di tela celestrina" fece fare un pallio per l’altare delle clarisse del Corpus Xristi. La sua adesione alla fede francescana traspariva anche nella quotidianità dei suoi affetti: aveva chiamato col nome di Francesco il suo ultimo figlio maschio nato tre anni prima della sua morte: Lucrezia aveva carissimo il vezzoso Checchino che teneva sempre accanto a sé tutto protetto dentro quelle tunichette di broccato chiuse da una lunga fila di bottoni dorati. La semplicità e la tenerezza di questi atteggiamenti la fanno apparire meno duchessa, ma a noi umanamente più vicina. Il suo ruolo di duchessa tuttavia lo esercitava, e con capacità e fermezza non solo nelle questioni di stato e di vita cittadina, ma anche per regolamentare la vita nell’interno dei monasteri e delle confraternite: è interessante sottolineare il fatto che proprio negli anni in cui nei paesi d’oltralpe si andava precisando il pensiero riformato "la ilustrissima religiosa e divota donna Lucrezia Borghes" componesse "novi capituli e più stricti" più rigidi per la confraternita di S. Cristoforo di Ferrara, per il monastero agostiniano di S. Caterina di Cento e ancora si adoperasse per la creazione del monastero delle agostiniane di S. Monica di Ferrara. L’interesse di Lucrezia per le congregazioni eremitane di S. Agostino è ancora una volta espressione di un sentire interiore, di una disposizione dell’anima che nasce da un cumulo di angosce. Il 1512 era stato un anno terribile per l’Italia, per il ducato estense e per la vita privata di Lucrezia: prima la guerra della Francia per il possesso del ducato di Milano, poi lo scontro armato di papa Giulio II contro il ducato estense, vittorioso, ma con gravi perdite nella sanguinosa battaglia di Ravenna, l’undici aprile, giorno della Pasqua: il duca era tornato alla sua famiglia illeso e salva era anche la città. Lucrezia devotamente compresa della protezione ricevuta, si recava con alcune damigelle a ringraziare il vescovo Maurelio e a invocare il suo favore sul piccolo Ercole; quasi in un rapporto distaccato dalle vanità del mondo, la duchessa offre al Santo preziosissime pelli di zibellino. Nell’umiltà di questo atteggiamento ancora oggi possiamo ammirare Lucrezia affidata all’immortalità dall’orafo Giovanni Antonio Lelj da Foligno che incise l’evento nelle targhe votive per l’Arca di S. Maurelio nel convento di S. Giorgio Maggiore a Ferrara. Ma le pene che l’anno terribile riservava a Lucrezia non erano ancora finite: nell’agosto di quello stesso anno la notizia che era morto il suo piccolo Rodrigo, il duca di Bisceglie, il figlio che era nato dal sincero amore con il diciassettenne Alfonso d’Aragona, il suo secondo marito. La nostalgia per quel figlio che ragioni politiche le avevano impedito di portare con sé nella corte estense, il ricordo del suo secondo marito, amato con giovanile passione, e così atrocemente ucciso dal Valentino, ridestavano incubi angoscianti.

Lucrezia ha ormai trent’anni e benché duramente provata, non perde la speranza, si aggrappa al suo dolore come il Cristo alla Croce e chiede aiuto nella preghiera alla misericordia divina. Il 14 dicembre 1512 scrive al monastero di Santa Croce a Brescia a suor Laura Mignani, amica di Elisabetta Gonzaga, perché continuasse a pregare con le sue consorelle per la salute sua e dello Stato. In quell’anno veniva a Ferrara per le prediche quaresimali il frate Giovanni Meli da Cremona che divenne confessore e guida spirituale della duchessa alla quale apriva la via della mistica agostiniana. Importanti ricerche storiche, che risalgono ormai a più di 50 anni fa, hanno portato in luce un libro stampato a Brescia nel 1527 intitolato "De vita contemplativa, ovvero Scala del paradiso". Nel libro sono contenute le prediche, le riflessioni, le meditazioni che frate Meli aveva scritto per volontà della duchessa: si legge nella prefazione che Lucrezia "dal fasto e vanità del mondo ritratta e del casto divin amore accesa" voleva educare le sue damigelle ai cristiani costumi con un dotto e attraente libro di pietà e di dottrina teologica. Tra le xilografie che corredano il libro una mostra la terra congiunta al Paradiso da una scala di un palazzo signorile, mentre una donna ne ascende i gradini, a simboleggiare la sua elevazione spirituale fino alla visione di Dio.

In questa suggestiva immagine dantesca che rievoca gli spiriti contemplanti mentre salgono una scala d’oro che si perde nell’infinito dei cieli, il libro si può interpretare come una metaforica testimonianza dell’iter spirituale di Lucrezia che finisce i suoi giorni, ponendo nelle mani di Cristo la sua sofferenza fisica: narrano i cronisti che "Madonna Lucrezia Borgia… caduta in una infermità pericolosa con viva fede e replicate preghiere invocando il SS.mo Crocifisso in breve ricuperò la primiera salute". Accompagnata da tutta la sua corte si portò in seguito alla chiesa di S. Luca il 25 febbraio 1518, fece celebrare una messa in rendimento di grazia all’altare del Crocifisso miracoloso, depositò una pingue elemosina in attestato di gratitudine, donò un apparato di velluto guernito d’oro con un bellissimo calice, fece portare quattro angeli dorati che dovevano sostenere quattro doppieri accesi davanti alla immagine di Cristo tutti i venerdì di quaresima per tutto il tempo di sua vita.

Lucrezia, che si era ormai riappropriata di un’intima fede cristiana, ha ritrovato se stessa. Confortata dalle conversazioni con il savonaroliano Benedetto Caiano da Firenze, divenuto sua guida spirituale negli anni 1515-1519, Lucrezia volge serenamente verso l’ultima tappa del suo itinerario terreno: morendo a soli 39 anni per i travagli di un’ultima gravidanza, chiude le labbra con parole di preghiera in cui ringrazia il Creatore per averle concesso la consapevolezza dell’ultima ora ("conosco il fine della mia vita") e insieme il dono di concludere la sua terrena avventura da creatura con Lui riconciliata.

Fu certo la sua una vita ferita, ma vibrante, piena e appassionante.

Torna alla Home Page