Alessandra Farinelli Toselli

Alla ricerca di Lucrezia Borgia,
Duchessa di Ferrara,
nei documenti della Biblioteca Ariostea

 

 

Nella Ferrara d’oggi quasi non esistono documenti attraverso i quali poter sentire la viva voce di una donna, che, nella nostra città, condusse la metà della sua vita terrena. La Biblioteca Civica, istituita alla metà del XVIII secolo, conserva documenti provenienti da acquisizioni ed acquisti, che costituiscono il suo fondo antico fortemente connotato. Tuttavia, anche se non sentiamo Lucrezia parlare in prima persona, possiamo trovarla cercando all’interno di quanto personaggi della Ferrara del primo Cinquecento hanno voluto tramandare di lei. Immagine ufficiale, scritti dedicatori ed encomiastici di uomini di corte e di cultura ci rendono comunque almeno una parte del suo essere donna e duchessa. Al contempo, seguendo questa traccia, si ricrea spontaneamente il clima di una città del Rinascimento, vivace e attenta agli stimoli della nuova cultura.

Un buon numero di volumi, manoscritti e a stampa, trattano del matrimonio. Fu un avvenimento osservato, per non dire spiato, da tutta l’Europa di questo inizio secolo per le implicazioni di ordine politico che rendeva manifeste: potenza di scacchiere politico-militare, Ferrara si legava saldamente con un patto matrimoniale al pontefice, che non aveva esitato neppure in passato ad usare la figlia per i giochi di quelle alleanze, il cui cambiamento aveva implicato le successive vedovanze di Lucrezia.

A prescindere dagli indubbi vantaggi economici ottenuti dagli Este, rimanevano nell’aria alcune domande: la corte dei veleni poteva aver partorito una mina deflagrante in seno al ducato estense? Poteva Lucrezia essere una avvelenatrice? La fama che la precedeva era quella di essere a dir poco spregiudicata, poteva costituire lo scandalo per la famiglia? Poteva costituire una garanzia contro le mire di Cesare Borgia, oppure essere la spia del papa e del Valentino, per sottrarre Ferrara agli Estensi e farne un dominio dei Borgia?

Diffidenza si nascondeva dietro i festeggiamenti veramente regali, che i cronisti più o meno informati riferiscono in forma più o meno ampia.

La cronaca a cui sempre ci si riferisce per le giornate di tripudio è la Silva cronicarum di Bernardino Zambotti. Da questa ricaviamo il resoconto puntuale di quanto venne preparato scenograficamente con gli effimeri della festa, per coinvolgere il popolo alla cerimonia, e di quanto venne rappresentato per impressionare più che per compiacere gli ospiti illustri convenuti: sfilano davanti alla giovane sposa i personaggi più rappresentativi della corte, gli oratori che erano il lustro del tempo di Ercole. Pellegrino Prisciani preparava il suo epitalamio, per il quale si erano chiesti a Roma i dati dei fasti borgiani da celebrare insieme a quelli estensi: il lungo discorso di ricevimento era soprattutto la lode della Casa d’Este, alla quale l’anziano oratore aggiunge la lode del matrimonio come unione "conveniente" fra Alfonso e Lucrezia Borgia, le lodi del pontefice Alessandro VI padre della sposa, prese queste da un suo precedente poema, del quale però ignoriamo la sorte.

Ludovico Ariosto preparava in versi l’epitalamio, con bei moti di invenzione e di cadenze.

Annota la Bellonci: "Sono tutti componimenti freddi, e se l’Ariosto si anima, canta le lodi di Ferrara, si compiace delle opere civili, che fanno bella ricca e sana la città la quale, ora che si adorna di Lucrezia, trionfa, lasciando deserta e spoglia quella Roma già così orgogliosa".

Epitalami secondo lo stile classico compongono Celio Calcagnini, Tito ed Ercole Strozzi, Nicolò Mario Panizzato.

La cultura classica che permea la Ferrara rinascimentale e la predilezione per il teatro di Ercole portano in scena le rappresentazioni delle commedie plautine, tanto gradite alla corte, e le commedie nuove composte e recitate per l’evento. Fra queste la Cassaria di Ludovico Ariosto.

Bernardino Zambotti nella sua cronaca ci riferisce che Lucrezia dal baldacchino ducale, allestito nella sala grande del Palazzo della Ragione, guardava la vasta sala e il palcoscenico con occhi "vaghi e allegri".

Nicolò Bendedei, segretario ducale, si affretta a scrivere al papa Alessandro VI una breve nota su come si sono svolti gli sponsali a Ferrara, che sembra sincera pur nello stile cancelleresco: il matrimonio fu celebrato nel modo migliore, gradevole per gli sposi, durante il quale furono fatte conversazioni e dette orazioni nel modo più opportuno, ovunque furono rese manifestazioni di letizia, "Nemo est qui non exultet. non iubilet. non cantet Domino", e si augura che "… ijs et hic longam felicemque, et apud se vitam tribunt sempiternam."

Sembra quindi che fin dai primi giorni Lucrezia catturi l’animo dei ferraresi e non solo per essere la giovane sposa del futuro duca. Lo stesso Zambotti, la ritrae al suo arrivo in città : "La dicta Illma Madama Lucretia Borgia spoxa sie de etade circha anni 25, de mediocre statura, gracile in aspecto, de facia al quanto longa: il naso profilato e bello, li capilli aranci, li ochi bianchi, la boca al quanto grande, con li denti candidissimi, la gola schiticha e biancha, ornata con decente rubore."

Le cronache ci dicono che, parte integrante delle accoglienze, per Lucrezia ci fu anche la visita ai conventi, quasi una presentazione ufficiale alle monache. La domenica delle Palme assistette alla cerimonia della monacazione di una figlia di Sigismondo d’Este, Ginevra, che entrava nell’antico e venerato convento di Sant’Antonio in Polesine. Il mercoledì santo vennero visitati da Lucrezia accompagnata dal suocero, il convento domenicano di Santa Caterina da Siena, fatto erigere fra il 1499 e il 1501 da Ercole per ospitare Suor Lucia da Narni, per il cui trasferimento da Viterbo e il successivo delle otto consorelle si prodigò la stessa Lucrezia promessa sposa, e quello francescano delle clarisse del Corpus Domini, fondato da Eleonora d’Aragona per le fanciulle delle famiglie nobili. In questo monastero troverà rifugio Lucrezia nei momenti drammatici che ancora l’attendevano, nel quale potrà perpetuare gli stili di vita contemplativa nei quali, giovinetta, venne allevata a Roma. Qui troverà la consolazione della forte amicizia nata con suor Laura Boiardo, cugina di Matteo Maria Boiardo di Scandiano, poeta fra i maggiori della corte estense.

Mentre negli annali del Merenda leggiamo che Alfonso d’Este "pigliò la seconda [moglie] che fu Lucrezia Borgia spagnuola", frase nella quale si può ravvisare una sfumatura negativa sottolineandone l’estraneità, l’Ariosto, nel suo poema, dice della semplicità di Lucrezia, che catturò i contemporanei ("Tra questo loco e quel de la colonna / che fu sculpita in Borgia, com’è detto, / formata in alabastro una gran donna / era di tanto e sì sublime aspetto, / che sotto puro velo, in nera gonna, / senza oro e gemme, in un vestire schietto, / tra le più adorne non parea men bella, / che sia tra l’altre la ciprigna stella"). La stessa immagine scolpita sulla placca d’argento del sarcofago di San Maurelio, nel tempio di San Giorgio, ce la mostra piena di dignità senza sfarzo, come donna sposa e madre prima che come duchessa. Bonaventura Pistofilo, segretario di Alfonso, nella sua biografia del Duca riserva il capitolo quinto alla seconda moglie, Lucrezia appunto, della quale ci riferisce: "Fu essa Lucrezia di venusto e mansueto aspetto, prudente, diligentissime maniere negli atti, et nel parlare di molta gratia et allegrezza, et al suo sposo et signore obsequentissima et come all’hora in Ferrara, venendo a marito questa singularissima Signora che fu l’anno M.D.I. Le gentildonne, et cittadine usavano habiti, ne’ quali mostravano le carni nude del petto, et delle spalle, così essa eccellentissima signora introdusse il portare, et uso di gorgiera, che velavano tutte quelle parte delle spalle sino sotto alli capelli, et non solo nel vestire, ma anche ne’ costumi et Religione dette questa Principessa ottimi essempi alla Cittade, et sudditi …".

Alla notizia della nuova gravidanza, la prima estense piena di promesse, ben presto subentrò quella del parto di una bimba nata morta, "per il che fu per morire Lei pur Deo gratias prevalse per opera di Maestro Ludovico da Cerij fisico per virtù di un salasso che gli fece dare contro la volontà del Vescovo di Venosa medico mandato da Papa Alessandro".

Il medico che seguirà, fin dalla prima, le gravidanze sempre difficili di Lucrezia fu Ludovico Bonaccioli, che le dedica il suo trattato di ostetricia, pubblicato poco dopo il 1502.

Questo è il momento in cui la scienza, nel suo complesso, si avvia a intraprendere la strada della modernità, ponendo in discussione le categorie e le tradizioni del passato: continuano le ristampe delle opere di Avicenna e Galeno, ma sempre più spesso sono corredate dalle discussiones; Luca Pacioli, partendo dalla interpretazione di Euclide, pone i fondamenti della ragioneria ed economia aziendale moderna; Nicolò Copernico capovolge il centro dell’universo; la scoperta del Nuovo Mondo porta a contatto l’occidente con situazioni naturali, etniche, culturali e ovviamente economiche, i cui effetti si trasformeranno da curiosità da mostrare a realtà di un mondo allargato. La convivenza fra antico e moderno compare in modo più macroscopico osservando quanto ancora l’astrologia e la cabala vengano prodotte e ristampate.

Certo, per tutto dovette esserci attenzione nella Ferrara dell’inizio del Cinquecento, la maggior parte delle novità veicolate dalla corte e dallo Studio pubblico, dove insegnavano dottori fra i più richiesti e rappresentativi del tempo. Il mecenatismo estense, seppure fortemente selettivo, attirava artisti di maggior nome, musicisti e cantori, per i quali le varie corti scendevano a gara per accaparrarsi i servigi, e tanti poeti che proprio in questo periodo passavano dall’uso pressoché esclusivo del latino ad un volgare aulico e latineggiante di pari dignità.

La scuola di Guarino Veronese, alla fine del XV secolo, era fra le più rinomate in Italia per l’apprendimento del greco e del latino, improntato ai principi di Plutarco espressi nel "Come educare i figli" divulgato in occidente grazie alla traduzione in latino fattane da Guarino Veronese, che esercitano la loro influenza per almeno tre secoli. E di Guarino veronese fu allievo anche Aldo Manuzio, che alla sua scuola imparò il greco. Esule da Venezia, l’editore trova ospitalità presso la corte: nel 1505 dedica a Lucrezia l’edizione degli Asolani del Bembo, e quella dei Carmi di Tito Vespasiano e Ercole Strozzi, nella quale Lucrezia è detta "divina".

Nella epistola di quest’ultima, pubblicata nel 1513, Aldo Manuzio afferma di dedicare l’opera a Lucrezia, sia perché contiene carmi a lei dedicati, sia in memoria del comune desiderio di istituire una nuova Accademia letteraria nel periodo in cui Aldo fu in Ferrara fra il 1506 e il 1511. Veicolo della conoscenza fra la duchessa di Ferrara e il celebre editore - testimoniata addirittura dall’aver nominato Lucrezia Borgia come commissario delle sue volontà nel testamento redatto nel 1509 -, furono probabilmente Ercole Strozzi e Pietro Bembo. Ma attorno a quel cenacolo che fu l’Accademia Aldina a Venezia (1503), il cui fine era di far uscire dai torchi opere classiche latine e greche perfette, ruotavano tutti i maggiori spiriti del tempo, quali Giovanni Pico della Mirandola, Alberto Pio da Carpi, entrambi principi letterati che a loro spese dotarono la stamperia di nuovi caratteri, Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Antonio Tebaldeo, lo stesso Ercole Strozzi, "il sole degli umanisti italiani", come lo definì il Bembo.

Ludovico Ariosto dipinge questo circolo letterario, che formò la corte di Lucrezia, nel canto XXXVIII dell’ Orlando Furioso: nella finzione poetica compaiono Antonio Tebaldeo e Ercole Strozzi "un Lino ed uno Orfeo", "il dotto Celio Calcagnini", Marco Cavallo, Nicolò da Correggio "un signor di Correggio di costei / con alto stil par che cantando scriva, / e Timoteo, l’onor de’ Bendedei". L’Ariosto, come Antonio Tebaldeo, compose, all’interno della sua produzione "cortigiana", madrigali e strambotti, alcuni dei quali musicati dal Tromboncino.

Da varie cronache sappiamo quanto a Lucrezia piacesse la musica e quanta abilità avesse nella danza. Durante le feste per le nozze agli spettacoli teatrali erano inframezzati canti e balli, musiche di intrattenimento. Fra i musicisti il principe fu il Tromboncino, che molto piacque alla principessa, tanto che fece di tutto per poterlo avere nella propria corte: da un documento contabile sappiamo che nel 1507 (ma già dal 1502) il Tromboncino era stipendiato dalla duchessa per ben 36 scudi. Questo è un documento che riveste un certo interesse, ci fornisce alcuni dati relativi alla spesa per le elemosine ai monasteri cittadini (Corpus Domini, San Gabriele, Sant’Agostino, San Rocco), a Giovanni Mazocco "cartolaio" stampatore per legature di un libro e a mastro Tomaso da Carpi pittore, oltre ovviamente ad altri pagamenti, documento che reca la firma autografa di Lucrezia ("Lucretia es[tense] manu propria").

Questi sono gli anni in cui, nel suo privato, Lucrezia conferma sempre più la sua adesione al terzo ordine francescano, che si esprime nella fondazione del convento di San Bernardino nel 1510 per la nipote Camilla Borgia figlia del Valentino, per il quale chiede al pontefice una riforma improntata alla rigida osservanza della regola, secondo i moduli della più perfetta povertà damianitica. La concessione, indirizzata a Lucrezia Borgia Duchessa di Ferrara, della regola per le clarisse verrà col breve del papa Leone X nel 1516. Il fatto tuttavia che non chiedesse per questo monastero anche l’applicazione della rigida clausura, denota che a questa data già era notevole la simpatia per il mondo agostiniano. Fra il 1512 e il 1513 è certa la presenza al fianco della duchessa di due padri spirituali entrambi agostiniani, Andrea Baura e nel 1513 Antonio Meli da Crema. Il Meli, giunto a Ferrara per le prediche quaresimali, dovette riuscire particolarmente incisivo a Lucrezia che lo volle suo confessore. Il frate le dedica, dal convento di Sant’Andrea, il 10 aprile di quello stesso anno, un testo di vita ascetica dal titolo Libro di vita Contemplativa.

Questo, per espressa volontà di Lucrezia, fu scritto in italiano, perché fosse rivolto non solo alle religiose ma anche alle laiche : nella dedica il frate pone in evidenza che la duchessa "la qual dal fasto e vanità del mondo ritratta e dal casto divin amore accesa, … s’ingegna istruir il felice choro delle prephate sue donzelle, non solo quelle che hanno proposito di perpetua verginità e religione, ma ancho quelle ch’hanno proposito di transir allo stato matrimoniale". Di poco anteriore (1511) è il codice del Meli contenente la Regola Agostiniana, volgarizzata "per più chiara informazione de la semplicità del sexo fragile".

Come affermano i cronisti la duchessa si fece amare dal popolo per la sua benevolenza e carità: le suppliche rivolte al duca passavano dalle sue mani e in tutti i modi le caldeggiava perché avessero buon fine, protesse gli ebrei che venivano dalla Spagna, assistette alla fondazione del Monte di Pietà (1508), provvide in mille modi a soccorrere i sudditi nel succedersi di carestie e pestilenze. Il Sardi la chiamò "Donna bellissima, gentile et ornata d’ogni virtù" e Aldo Manuzio nella sua prefazione "il vostro principale desiderio è quello d’essere approvata da Dio, e d’esser utile non soltanto al tempo presente, ma anche all’avvenire" .

Fu, quello in cui visse, un periodo fatto anche di dissidi intestini che avrebbero potuto sfociare in guerra civile o colpi di mano, come la congiura del 1506, di guerre nelle quali si metteva in gioco la sopravvivenza dello Stato, come quella contro le mire di Venezia.

Praticamente Ferrara fu in guerra quasi ininterrottamente dal 1508, a conclusione della lega di Cambrai, fino al 1512, passando attraverso il cambiamento del gioco delle alleanze della primavera del 1510, quando papa Giulio II capovolse gli accordi e per il rifiuto del suo feudatario a seguirlo nei suoi disegni lo colpì con la scomunica, la decadenza dal ducato di Ferrara (e quindi con la cancellazione degli accordi matrimoniali stipulati con Lucrezia Borgia) e la privazione del gonfalonierato della Chiesa. La città venne fortificata rapidamente e resa la migliore delle piazzaforti della cristianità. Al congiungersi in città delle truppe francesi rimaste alleate di Alfonso, Lucrezia in loro onore prepara le sue famose feste da ballo e gli altrettanto noti banchetti. Lucrezia stessa mette a disposizione il suo patrimonio personale per lenire le difficoltà economiche abbattutesi sulla Casa e sullo Stato. Dopo la battaglia di Ravenna del giorno di Pasqua del 1512 e la vittoria delle truppe estensi e francesi, la guerra si allontana dall’orizzonte di Ferrara e regredisce anche la situazione politica con il pontefice Giulio II che concede il perdono ad Alfonso.

Lucrezia dovette assumere il ruolo di reggente dello stato in assenza di Alfonso I, come era stata educata a essere alla corte paterna. La sua presenza al governo non ha lasciato che scarse tracce fra i documenti della Biblioteca Ariostea. Tuttavia, i periodi di assenza di Alfonso per i viaggi e i pellegrinaggi, oltre ai conflitti armati ai quali partecipò, furono frequenti e registrati dalle cronache.

Un primo documento si riferisce alla "bravata" della Rocca di Boiardo messa in atto da Giulio d’Este a danno dell’autorità del fratello Ippolito (1505), che non nascondeva nemmeno troppo i risentimenti per l’esclusione dai giochi di potere dei fratelli minori e i propositi di vendetta nei confronti di Alfonso e Ippolito alleati, che sfoceranno nel 1506 nella congiura contro il duca. Lucrezia si prodigò con diplomatica saggezza tanto, che ottenne che, alla nascita del figlio Ercole, Giulio potesse ritornare. È del 16 agosto 1505 lettera scritta da Alfonso a Lucrezia da Belriguardo, con la quale perdona in parte l'offesa ricevuta dal fratello e lo confina a Brescello: incarica Lucrezia di far scrivere l’ordine dal suo segretario Nicolò Bendedei. Purtroppo però i fatti dei mesi successivi e gli accordi fra congiurati di quelli precedenti, provocarono lo scoppio di quella tragedia familiare che è la congiura contro un fratello: Don Giulio e Don Ferrante associati al Boschetti e al Roberti, vennero scoperti processati e condannati alla pena capitale: mentre Boschetti e Roberti subirono il patibolo, come è stato raffigurato nella miniatura del Libro dei giustiziati, Don Giulio e Don Ferrante ebbero la commutazione della pena nel carcere a vita.

Altra testimonianza ci viene dalla trascrizione, sempre preziosa, di Giuseppe Antenore Scalabrini di una grida emanata nel 1518 da Lucrezia che vietava il taglio indiscriminato degli alberi nei dintorni di Ferrara.

Dopo la parentesi drammatica per la città all’epoca della coalizione formata da papa Giulio II con l’imperatore Massimiliano e la Serenissima di Venezia contro Alfonso d’Este, il nuovo pontefice Leone X confermò a Lucrezia tutti i patti che al momento delle sue nozze erano stati ratificati dal Concistoro, ivi compresi i possessi di Cento e Pieve: alla cerimonia del trionfo per la elevazione al soglio del pontefice partecipò certamente Alfonso come feudatario e dignitario pontificio non ci viene riferita nessuna notizia sulla eventuale presenza a Roma di Lucrezia.

Le cronache conservate, attente quasi esclusivamente all’operato del duca, sono avare di notizie relative alla presenza di Lucrezia. In pratica, queste, dopo aver trattato delle nozze e dato rapida registrazione delle nascite dei figli, danno la notizia conclusiva della sua morte e alla sepoltura nella tomba estense al Corpus Domini: il 24 giugno 1519 Lucrezia muore di parto.

Con ben poche variazioni l’una dall’altra, le cronache riferiscono in modo assolutamente telegrafico la notizia della fine dell’esistenza terrena di una donna, che fu certamente molto discussa, ma che ebbe un ruolo nella città e per essa di innegabile importanza: "Duchessa morta 1519. Morì Madama Lucretia Borgia Duchessa di Ferrara, et alli 22 luglio fu portata a seppellire nel Monasterio del Corpo di Cristo" accompagnata dal cordoglio del duca e del popolo.

Nell’ "Annuale di Madama Lucretia Borgia moglie del Duca Alfonso primo, figlia di Papa Alessandro sesto, sepolta in questo monasterio" del Corpus Domini, venivano offerti "Doppieri rossi n 10 di libbre 4 l’uno, Candele comuni libbre 4, Candelotti rossi di 3 once l’uno n. 4, Pane bianco tiere n. 125, Vino mastelli 5, Pesce libbre 200, Oglio libbre 80", come lascito stabilito nel testamento a futura memoria e offerta per le messe in suffragio.

 

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