Non può esistere futuro senza memoria,
è quindi importante recuperarla soprattutto per le nuove generazioni,
quelle chiamate appunto a costruire il futuro. Ci sono pagine della nostra
storia che abbiamo rimosso, come il periodo dell’espansione coloniale.
Come viene studiato a scuola il colonialismo italiano? Come lo raccontano
i libri di storia? Per coglierne la complessità non può
più servire un modello storiografico cronologico-lineare, evoluzionista
ed etnocentrico, ma occorre partire da punti di vista diversi, utilizzare
anche fonti alternative come romanzi, film, perché nell’ottica
delle civiltà e delle mentalità i prodotti artistici e i
saperi quotidiani diventano fondamentali per capire il passato e il presente.
...............................
IL LONTANO PRESENTE: L'ESPERIENZA COLONIALE IN ITALIA
Introduzione
Il futuro non esiste senza memoria. Una volta ho
conosciuto una donna, si chiamava Susan Sontag. Era andata in Vietnam
ed era tornata. La incontrai per caso, un giorno, a New York e mi disse:
“Sai perché i vietcong hanno vinto la guerra? Sai perché
la guerriglia è riuscita a sconfiggere gli Stati Uniti d’America,
la più grande potenza economica e militare del mondo? Perché
i vietnamiti hanno memoria. Perché per ogni situazione del presente,
loro hanno da richiamare un ricordo del passato dal quale attingere esperienza
e saggezza (...)”. Per questa ragione, secondo lei, erano riusciti
a vincere. Il male peggiore del nostro tempo, invece, è la fuga
in avanti. Quest’ansia di sviluppo, di crescita senza fine, che
ci condanna a scoppiare come la rana che si è fatta più
grossa del bue. (...)
Per i capricci della storia e del destino, vivo e lavoro in Italia da
abbastanza anni per essermene innamorato e per aver capito quanto sia
smemorato questo Paese. (...) Questo è il Paese dove ogni scheletro
si sistema nell’armadio, in cui tutto viene rimosso, in cui tutto
cade nel pozzo dell’indifferenza. (...)
Questa affermazione di Jean-Marie Straub permette d’introdurre le
considerazioni che ci hanno spinto a preparare il presente Quaderno, la
consapevolezza di questa perdita della memoria e l’importanza della
stessa soprattutto per le nuove generazioni, quelle chiamate a costruire
il futuro.
Oggi – sostiene Marc Augé, l’antropologo francese approdato
dalle ricerche sul campo in Africa all’antropologia dei mondi contemporanei
– regna l’ideologia del presente e questo blocca lo sforzo
di pensare il presente come storia, un’ideologia che tende a rendere
obsolete le lezioni del passato ma anche il desiderio d’immaginare
il futuro. Predomina il linguaggio spaziale su quello temporale perché
il presente è il regno delle immagini, soprattutto televisive.
Viviamo in un mondo saturo di messaggi e d’immagini. I media e la
televisione impongono una visione del mondo e così l’immaginario
rischia di uniformarsi. L’organizzazione della vita è centrata
sul presente e il presente vede gli spazi della politica, della religione,
della cultura colonizzati dal vuoto del chiacchiericcio televisivo, assoggettati
alle logiche inflessibili del mercato. Il modello ottocentesco della colonizzazione
non è finito con il Novecento, si perpetua nei meccanismi che dominano
la globalizzazione.
Viviamo in un mondo in cui il fossato che divide ricchi e poveri non cessa
di accrescersi, ma la disuguaglianza dei saperi è ancora più
grande e aumenta il fossato tra la somma delle conoscenze che si accumulano
nei laboratori ben equipaggiati e lo stato d’ignoranza in cui versa
la maggior parte della popolazione mondiale, nei paesi poveri come in
quelli industriali. Scompaiono i saperi tradizionali ma i nuovi saperi
non sono accessibili a tutti.
In questa situazione come preparare un futuro che sia il futuro di tutti?
Abbiamo bisogno di un nuovo sguardo critico per individuare i meccanismi
di potere, per capire qual è la posta in gioco, dobbiamo reimparare
a percepire il tempo e a riappropriarci della storia, a comprendere il
presente senza abbandonarci ad esso.
È necessario rendersi conto che lo choc inflitto dall’Occidente
all’immaginario degli altri ha avuto conseguenze anche sul nostro
immaginario. La colonizzazione e l’occidentalizzazione – secondo
Augé – hanno provocato una sorta di big bang ideologico le
cui conseguenze ricadono oggi in un apparente disordine sul mondo mondializzato.
Parole come globalizzazione e immigrazione le troviamo quasi quotidianamente
sulle pagine dei giornali, ma quanti sono in grado di spiegare il legame
fra le due? Questo legame traspare nelle pagine dei libri di testo? Con
la “scoperta del nuovo mondo” inizia una migrazione di europei
alla conquista di vaste aree del pianeta che si trovarono così
ad essere colonizzate. Gli europei riuscirono in tempi brevi a sconvolgere
le realtà politiche, economiche, sociali di antiche civiltà.
I popoli colonizzati furono privati della loro identità e della
libertà di decidere del proprio futuro, si videro imporre i valori
economici, politici, sociali e religiosi del colonizzatore, videro negate
la propria storia e cultura, ritenute inferiori di fronte alla superiore
civiltà europea che il colonizzatore aveva il dovere d’imporre
al colonizzato.
Per il senso comune l’epoca del colonialismo è lontana, qualcosa
che esiste nei libri di storia, che non sembra avere alcun legame con
il presente, un presente segnato da migrazioni internazionali che in Europa
hanno avuto come meta proprio le antiche capitali imperiali. Per lo storico
burkinabé Ki Zerbo l’incontro tra Europa e Africa è
stato un incontro mancato, non fu infatti una relazione tra pari, ma tra
chi si credeva superiore e chi veniva considerato un essere inferiore
da civilizzare.3 L’era del colonialismo e dell’imperialismo
ha prodotto delle relazioni deformate fra culture diverse instaurando
rapporti di dominio e di sopraffazione, innescando processi d’inferiorizzazione
degli uni per affermare la superiorità degli altri.
Ma questa – come sostiene Iain Chambers – non è la
storia che la modernità occidentale è abituata a raccontare
a sé stessa. Schiavitù e razzismo sono considerati aberrazioni,
incidenti storici che non scalfiscono il cuore della modernità
contrassegnata dal progresso, dalla democrazia e dalla cultura illuminista.
Diamo per scontato che gli atteggiamenti intolleranti e razzisti siano
semplicemente deviazioni ed eccezioni di una cultura sostanzialmente buona
e liberale.
Non è un caso se in Europa, negli ultimi anni, si nota un ritorno
della “questione coloniale”: in Francia nel 2006 la Cité
nationale de l’histoire de l’immigration organizza un incontro
internazionale su “Histoire et immigration: la question coloniale”;
a Torino si tiene il convegno “Italiani brava gente”, a Milano
“L’Italia e l’Etiopia, 1935-1941, a settant’anni
dall’impero fascista”; nel 2007 esce Retours sur la question
coloniale un numero monografico della rivista letteraria “Cultures
Sud-Notre Librairie”; nello stesso anno in Belgio il Ceges (Centre
d’étude et de documentation guerre et sociétés
contemporaines) organizza un convegno dal titolo “Congo. Enjeux
d’histoire, enjeux de mémoire”; l’International
Slavery Museum apre i battenti a Liverpool con l’obiettivo di prendere
coscienza dell’eredità dello schiavismo; il Museum in Docklands
londinese inaugura la mostra permanente “London, Sugar & Slavery”
in occasione del bicentenario dell’abolizione del commercio degli
schiavi; sempre nel 2007 all’università di Metz si tiene
un convegno “L’Europa face à son passé colonial”
che vede riuniti storici di vari paesi europei compresi gli italiani Rochat
e Labanca.
Altri eventi, che si sono succeduti in Europa, stanno a dimostrare che
il passato coloniale non è stato ancora “digerito”
e che ci sono ancora ferite aperte. In Francia il dibattito si è
riacceso a partire dalla legge del febbraio 2005, che mirava a riconoscere
il “ruolo positivo della colonizzazione” soprattutto nei libri
di testo scolastici e che, in seguito anche alle reazioni d’insegnanti
e storici, è stata poi ritirata. Il dibattito che ne è scaturito
ha mostrato la difficoltà di capire le formidabili trasformazioni
postcoloniali che hanno portato alla creazione della società francese
attuale, una società pluriculturale, attraversata da flussi intensi
di uomini e d’idee, che vede nella scuola studenti di origini diverse
i cui genitori hanno vissuto sotto un regime coloniale prima di emigrare
in Francia.
La crisi non appartiene solo alla Francia, colpisce anche altre metropoli
imperiali. In Gran Bretagna nel 2005 l’apparizione di Britain’s
Gulag. The Brutal End of Empire in Kenya di Caroline Elkins e di History
of the Hanged: Britain’s Dirty War in Kenya and the End of the Empire
di David Anderson ha provocato un dibattito pubblico piuttosto acceso
che ha portato il “Guardian” a titolare un articolo La nostra
Guantanamo e “The Economist” a stabilire un parallelismo tra
i metodi britannici in Kenya e la politica estera dell’amministrazione
Bush.
La Germania preoccupata di assumersi la memoria del nazionalsocialismo
e dell’Olocausto, tutta presa dalla riunificazione del paese, sembrava
aver dimenticato le due brutali guerre coloniali condotte in Namibia e
in Tanzania. Le autorità avevano sempre evitato di porgere scuse
ufficiali, solo nel 2004 Heide Wieczorek-Zeul, ministro della Cooperazione
allo sviluppo, in visita nella capitale namibiana chiedeva ufficialmente
scusa con parole anche commosse, suscitando però in patria forti
preoccupazioni che questo gesto finisse per costare miliardi ai contribuenti.
Si temeva infatti da parte namibiana una richiesta d’indennizzo,
che nella realtà non ci fu.7 Secondo diversi ricercatori questo
ritorno della questione coloniale non è fortuito ma chiama in causa
la rimozione, l’occultamento di questa pagina della storia, che
ha permesso di credere che il processo di decolonizzazione fosse terminato
e che riguardasse soprattutto le colonie.
Anche per questo torna ad essere di attualità il pensiero di Frantz
Fanon cui nel settembre 2007 a Roma è stato dedicato il convegno
“Fanon e la condizione postcoloniale”. In quell’occasione
Iain Chambers ha affermato che la modernità rifiuta di “riconoscere
la centralità dell’esperienza coloniale per la costituzione
economica, storica, culturale, razziale e ‘democratica’ della
nazione: quella dell’Algeria per la Francia, ovviamente, ma anche
quella dell’impero coloniale britannico per l’Inghilterra
odierna o dell’Eritrea, della Libia e della Somalia per la formazione
dell’Italia attuale, o quella del mondo degli schiavi e del genocidio
dei nativi americani per la costituzione degli Stati Uniti”.
Il fenomeno migratorio attuale non è un’emergenza –
sostiene Chambers – è invece una delle caratteristiche principali
della modernità. Il migrante di oggi s’inserisce in un processo
in atto da cinque secoli, fa parte di una realtà strutturale spesso
ignorata, rimossa o negata. L’affermazione di Fanon “la morte
del colonialismo è insieme la morte del colonizzato e del colonizzatore”
provoca alcune domande: il mondo che ha formato il colonialismo è
veramente morto? I rapporti di potere che hanno plasmato il pianeta in
modo unilaterale, sono veramente scomparsi?
Come si studia questa storia a scuola, come la raccontano i libri di testo?
L’insegnamento della storia sembra essere segnato ancora pesantemente
dall’eurocentrismo: del resto del mondo si parla solo quando entra
in contatto con l’Europa. Si continua a raccontare una storia che
è stata costruita nell’Ottocento, quando si perseguiva l’affermazione
degli stati nazionali europei, in quest’ottica i rapporti tra l’Occidente
e le altre culture venivano relegati ai margini. Certo oggi i manuali
stanno cercando di correggere questa tendenza, ma si tratta sempre di
soluzioni contingenti e non organiche.
Per capire la complessità del presente e del passato non può
più servire un modello storiografico che propone un racconto della
storia cronologico-lineare, evoluzionista ed etnocentrico. Un’altra
storia è possibile, recita il titolo di un testo di Giorgio Dal
Fiume,9 una storia che parta da punti di vista diversi, utilizzi anche
fonti diverse come romanzi, film, perché nell’ottica delle
civiltà e delle mentalità i prodotti artistici e i saperi
quotidiani diventano fondamentali per capire il passato e il presente.
Occorre costruire senso storico insegnando a cogliere le tracce che rivelano
il passato, a percepire il passato in sé stessi e nelle proprie
vite, per comprendere il proprio futuro.
La storia non è dominio dell’oggettività, ricorda
Dal Fiume, ma luogo dove la memoria viene interpretata e ricostruita,
secondo le percezioni del presente. Partendo dal presente quindi, si riconosce
e si ricostruisce il passato.
L’antropologo Marco Aime recensendo il testo di Dal Fiume scrive:
“Oggi assistiamo sempre più a una sorta di etnicizzazione
della storia e dei conflitti. (...) Si evocano scontri di civiltà
o di culture, utilizzando questi concetti allo stesso modo in cui si utilizzava
quello di razza nel secolo scorso. Oggi assistiamo sempre di più
al diffondersi di fondamentalismi culturali che finiscono per condurre
a un razzismo senza razza. Il tutto per mascherare tensioni e conflitti
di tipo economico e politico. (...) In nome della superiorità dell’Occidente
(...) oggi si esportano sviluppo, democrazia e altri ‘gadget’
culturali. (...) Se non riusciamo a uscire da questo paradigma etnocentrista
e a formulare un nuovo racconto della storia, finiremo per diventare sempre
più fondamentalisti e ciechi, diretti verso un imbarbarimento progressivo”.
Il testo che presentiamo vuol essere un contributo
a chi si propone di studiare questo periodo storico così poco conosciuto,
ma anche a coloro che volessero informarsi su questa pagina della nostra
storia. Nella prima parte vengono presentati brani di romanzi o di racconti
che narrano storie ambientate nell’epoca dell’espansione coloniale
italiana. Oggi in Italia disponiamo di opere letterarie scritte da autori
provenienti dalle ex colonie italiane o da autori nati in Italia ma di
origine africana per cui ci è sembrato interessante far interagire
il loro punto di vista con il punto di vista di autori autoctoni. La scelta
di partire da testi letterari è dovuta anche alla convinzione che
spesso un’opera letteraria può rivelare quello che un’analisi
oggettiva non riesce a comunicare. Poiché la letteratura tocca
la sfera affettiva e l’immaginazione, offre la possibilità
d’influire sull’atteggiamento delle persone nei riguardi di
altre culture in modo più efficace del puro e semplice apprendimento
cognitivo.
Nella seconda parte si è cercato di ricostruire le principali vicende
del colonialismo dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra
e di vedere come la storiografia lo ha affrontato tra resistenze e voglia
di rimozione. Per aiutare la collocazione spazio-temporale e per restituire
spessore umano ai protagonisti di questa storia vengono forniti una carta
geografica dei possedimenti italiani in Africa e una tavola cronologica
che ne mostra la durata.
Dato il ruolo del cinema nel raccontare la storia del Novecento, un capitolo
presenta una rassegna di film dedicati al tema coloniale, analizzando
i messaggi che venivano affidati a questo strumento di comunicazione di
massa.
Nella terza parte, infine, abbiamo cercato di analizzare il modo in cui
il colonialismo è affrontato nella scuola. Per prima cosa abbiamo
esaminato come il tema viene trattato nei libri di testo di storia del
Novecento. Abbiamo poi condotto una breve indagine su studenti di scuola
secondaria di I e di II grado, per mettere in luce sia le conoscenze che
essi possiedono sul colonialismo italiano, sia l’immagine e il giudizio
che ne hanno ricavato. Infine abbiamo provato a proporre come sia possibile
e opportuno realizzare nella scuola un percorso di studio su questo periodo,
in modo da sviluppare negli studenti competenze sia storiche sia di educazione
alla cittadinanza democratica.
Il volume si conclude con una serie d’indicazioni bibliografiche
e sitografiche per chi volesse approfondire l’argomento.
|