Mi sembrava che la gente cantasse
Di Davide Bregola

Tempo fa mi sono incamminato come un pellegrino alla ricerca di scrittori stranieri che pur avendo una lingua diversa dall’italiano decidono per i più svariati motivi di scrivere in italiano. Perché, mi sono chiesto, una lingua che tutti in Italia considerano quel tanto, seppur “lingua dell’erudizione”, viene rispettata e valorizzata da scrittori la cui lingua madre non è la lingua di Dante? Per rispondere ho parlato con alcuni narratori stranieri (allofoni? italofoni?), e il rusultato è Da qui verso casa, un libro di interviste, appunto.
Ma qual è stato il percorso che li ha portati a parlare e a scrivere in italiano? Per Younis Tawfik, di origine irachena, voler leggere La divina commedia in lingua originale è stata una spinta forte nella volontà di apprendimento. Dice: “Quando si dice darsena, si è di fronte ad una parola, daar as-sina’a, che è araba e vuol dire casa dell’industria, laboratorio. Ora si dice magari, ieri mia madre mi ha fatto il cous cous, quindi si evince che le contaminazioni arabe, albanesi, eccetera sono inevitabili. Nascerà un nuovo lessico, nuove costruzioni grammaticali che magari sono sbagliate in italiano. Ricordiamo che l’italiano volgare nei confronti del latino era tutto sbagliato, ma poi è diventato la regola predominante.
Io ad esempio uso la parola disperduto, unione tra due parole, ossia disperso e perduto. Mi piace il suono, onomatopeicamente funziona meglio…per me è bello dare idee più forti ed emozionanti per il vocabolo”.
Per Helga Schneider, tedesca, imparare l’italiano voleva dire dimenticare la madre SS. Per lei è stata una salvezza: “Mi sono rivolta alla lingua italiana con una passione incredibile poi, essendo di sangue slavo, la nonna boema, il nonno mezzo ucraino, genitori viennesi…insomma, ho un grande talento per le lingue. Negli anni ’70 il Resto del Carlino mi aveva affidato una rubrica in italiano e quelli della redazione mi apprezzavano molto. Lo stesso Roberto Calasso dell’Adelphi ha detto che difficilmente ha incontrato un autore che si è calato così bene nelle pieghe di un’altra lingua come me. Io scrivo in italiano i miei libri, eppure agli incontri alcuni lettori mi chiedono perché non c’è il nome del traduttore. Hanno scritto che sono un talento naturale, e forse è vero. Sono un’autodidatta che ha imparato la lingua leggendo gli Oscar Mondadori e una collana rilegata di classici della Fabbri che ho ancora. Leggevo comprendendo una frase sì e una no, poi nella quotidianità parlavo. Nei negozi, con le persone; facendo così s’impara molto facilmente a scrivere e parlare una lingua diversa da quella d’origine.
Credo che giapponesi, cinesi e arabi probabilmente potrebbero avere più difficoltà nell’imparare l’italiano”.
Tahar Lamri, algerino, dice: “Per me il francese, che so bene, ha contribuito ad aiutarmi nello scrivere italiano. Grammaticalmente e linguisticamente mi è servito molto il patrimonio linguistico che ho accumulato nel tempo. Quando scrivo penso in italiano, solo italiano.
La scrittura è venuta fuori casualmente”.
Helena Janeczek di Monaco, dice: “mi sono trasferita in Italia,nel 1983, mi sono iscritta all’università, ho cominciato a usare l’italiano scritto per lavoro, alla fine – molto ma molto fuori corso - ho fatto la tesi in italiano (incubo). Nel frattempo ho continuato a scrivere poesie in tedesco e nel 1989 sono riuscita a pubblicare la raccolta Ins Freie (Verso l’aperto), con la Suhrkamp di Francoforte. Passano gli anni, e mentre per la necessità di scrivere continuo a coltivare l’orticello poetico tedesco, la mia vita si svolge sempre più in italiano, l’italiano diventa la lingua che parlo con più facilità e ricchezza d’espressione, la lingua in cui comunico con gli altri ed è così che comincio a scrivere qualche pezzo in prosa, semplicemente per condividerlo con gli amici. E’ da uno di questi pezzi che nasce Lezioni di Tenebra: dalle prime due pagine di cui mi accorgo che potrebbero essere l’inizio di una cosa più lunga, più grande, di un libro intero. Allora mi chiarisco le idee e vado avanti. E mentre ci lavoro, sento che sto trovando uno stile e un modo di raccontare che mi appartiene, cosa che, nonostante il contenuto del libro, mi dà energia.”
L’altro algerino, Smari A. Malek: “L’italiano mi ha impressionato! Non avevo alcuna idea di cosa fosse l’italiano. Sentivo parole spagnole e pensavo fossero italiane. Non capivo i discorsi, le frasi, allora la mia attenzione andava alla musicalità, agli accenti. Mi sembrava che la gente cantasse.”
Julio Monteiro Martins, brasiliano, dice che l’italiano per lui è stato prima di tutto la lingua dell’amore. Venuto in Italia perché innamorato di una ragazza italiana conosciuta in Portogallo, ha bruciato le tappe ascoltando giorno e notte la radio italiana per appropriarsi nel più breve tempo possibile della nostra lingua e parlare con la ragazza in questione.
Jarmila Ockayova, slovacca, alla domanda sulla lingua risponde: “E’ semplice: per almeno undici mesi all’anno vivo in Italia. Scrivo in italiano per lo stesso motivo per cui non mi porto dalla Slovacchia bombole di ossigeno per respirare. Sono convinta che la lingua ci accompagni sempre, ci avvolga come un grembo comune, come l’aria: la introiettiamo nella quotidianità, la respiriamo nell’atmosfera, negli stati d’animo, nell’approccio con il mondo, nel rapporto con gli altri. E come l’ossigeno entra nei polmoni, la lingua entra negli anfratti affettivi, psicologici, metaforici. E’ lo strumento di comunicazione ma anche l’agente che costruisce o smonta la nostra pienezza esistenziale e quindi fa scoccare la scintilla creativa. Sì, io credo che nel decidere di scrivere in una lingua diversa da quella del paese in cui si vive, uno scrittore si autocondanna a una specie di isolamento interiore, rischia di restare ancorato a qualcosa che non ha, che non c’è. E fuori invece rischia di essere un disadattato; come se decidesse di andare al Polo Nord in costume da bagno.
Poi ovviamente la mia scrittura risente fortemente della mia formazione in Slovacchia, della lingua d’origine e di tutto il retaggio culturale che una lingua contiene. E credo che anche questo sia un’occasione: mescolare due culture, due immaginari, rivisitare la cultura di provenienza attraverso la cultura acquisita e viceversa, decodificare la nuova cultura con il codice di lettura acquisito nel paese d'origine. Mettere i due paesi uno di fronte all’altro, come due specchi che si riflettono l’un l’altro in una bella lezione di reciprocità. E noi sappiamo che in due specchi messi di fronte le immagini si fanno via via più piccole, come nel gioco di scatole cinesi, fino a diventare assolutamente essenziali. Ed è questa la meta principale della mia scrittura: andare in cerca di ciò che è essenziale, libero da ogni particolarismo, comune a tutti, profondamente umano.”


Bibliografia:

AA.VV, Da qui verso casa, Roma, Edizioni Interculturali 2002
A.Bernardelli-R.Pellerey, Il parlato e lo scritto, Milano, Bompiani 1999
G.Pallotti, La seconda lingua, Milano, Bompiani 1998


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