Da Mediterranea *
Di Alberto Masala

 

Gesturi

questo sole stracolmo sprofondava pulsando in immagine selvaggia di granito antico senza ombre e d’erba devastata dal fuoco

siamo di fuoco quando
brama l’incendio il cuore interno


da invisibile furia nato barbaro e vento punico e come spinto in me fino al respiro per respirare eternamente oltre cautela

siamo di vento quando
ci occupiamo della verità


dove mi correva la mente e scivolava trascinando una voce incessante e quanta e che impetuosa correva interna immagine di fiume

siamo di fiume quando
ci trascorre la vista e l’esistenza


e si dimentica quella lontananza quell’indugio sull’opposto rilievo del monte nominato (ormai perso e dimenticato)
e come il mare osserva la propria acqua che si distende

possiamo essere d’acqua
quando arrivi per bere


così dettagli sconosciuti e fotogrammi si compongono in un vistoso dipinto ritagliando i colori dei tramonti ed incendiando il fiato dei cavalli a grandi branchi in movimento comparsi al galoppo in questa muta terra dove tra poco l’arido verde d’altopiano converte in nero approfondito

ormai fa notte e guardo senza percezione

e solo lì mi accorgo
che è casa mia

siamo di notte

.....................


Cagliari

Discendo dalla nave in un archeologico mattino di sole di settembre di fronte al cieco arrampicarsi saldamente di Castello in questo impassibile geografico ideale.
Siamo arrivati e da qui finalmente osserviamo lontano.

Cagliari, ora noi siamo mattina insieme, a quella stessa distanza dal sole dove le voci si staccano cercando altre forze, altre ragioni per assorbire altra vita in un forsennato ed indolente battersi a morte anche nei passi abituali stanchi di cosa troveranno dopo.

Partiamo deportando queste salde visioni perché conviene seguire l’andatura andando nei luoghi inaccessibili dove l’intelligenza è ben nascosta.
Torniamo avendo dimostrato l’inganno di una nebbia piena di gente dove nemmeno agli animali permettono di correre.

Dimmi come ingoiare questa lingua di partenze.
Il s’agit de l’exile, l’odiosa ingiuria che diventa coraggio di non subire mortificazioni per poche Italian lire maledette.

Attenta, Cagliari... attenta...

non credere a quest’uomo quando cammina pronunciando parole da europeo
è così che alimenta un avvoltoio
non credere a quest’uomo quando cammina attraversando campi di guerra
è così che alimenta un avvoltoio
non credere a quest’uomo quando cammina descrivendo la storia... acuta... dolorosa... eccetera...
è così che alimenta un avvoltoio

non credere a quest’uomo quando cammina dalle nostre parti ariano armato di dei bianchi

è così che alimenta un avvoltoio
non credere a quest’uomo che innalza case inabitabili da cui esce raramente
  
è così che alimenta un avvoltoio
non credere a quest’uomo che ha trapiantato ai nostri padri polmoni di miniera
è così che alimenta un avvoltoio
non credere a quest’uomo che ti ha costretto alla lingua e alla parola di un padrone
è così che alimenta un avvoltoio
 

pero cuando se atreven a olvidar che vacillando da generazioni facendo dondolare conoscenza e corpo noi sappiamo ballare queste danze che cominciano sempre progettando forti simboli di pietra duratura in strade immaginarie costruite in un tempo illuminato che sono dove a volte ansimando ci rechiamo e dove solo il ritmo ci trattiene e da dove sempre ritorniamo a restituirci la nostra sorte traboccanti di sogni descritti in ogni vento

che il vento ha stabilito di voler allontanare

è per diversità che si resiste
ma non ci sono appigli di realtà

solo di volontà

nasciamo in minoranza
ma si possiede amore

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Istanbul

questa volta la città mi riceve risvegliando lontani ricordi di febbre visionaria smaltita su una sordida branda e un pavimento dove la polvere si accumulava rigata da scarafaggi brulicanti e dai passaggi di un angelo svizzero che puntuale mi dava acqua fatta bollire ed il bactrim che mio padre prudente mi aveva messo in tasca salutandomi prima di partire.

“Istanbúl... Istanbúl... Istanbúl...”

quasi vent’anni dopo il grido si ripete con uguale esaltazione nella felicità dei viaggiatori per l’avvenuta liberazione dell’arrivo.

Con solennità una cornice espande i suoi deformi arruffamenti come barocchi riccioli dorati intorno alla nuca semicalva che lampeggia spettrale irradiando lentamente le assorte riflessioni che il portiere annerito dal tempo rovescia nello specchio che mi accoglie sospettoso all’ingresso antico dell’albergo.

“Non sono tanti gli stranieri che arrivano a Beyoglu... e qui di solito trovano occupato...” mi dice con orgoglio anticolonialista mentre mi assegna la stanza migliore all’ultimo piano nominandomi turista regolare con signora e parafulmine delle perquisizioni poliziesche.

Colonne emergono consunte ad ogni barlume di un instabile neon che illumina le scale di legno cigolanti al passaggio delle prostitute.

Ragazze pulite. Così si mantengono agli studi. Un giro discreto solo per turchi in visita d’affari alla città, che dalla mia finestra si stende nel colore del mare o del cielo, dove si sgretola e si consuma molto rapidamente in grigio impolverando quella prospettiva che sempre rivedo differente come un polverizzarsi della vita.

Di notte la vista si forma sulle bische illuminate e la luna si aggancia alle terrazze sui tetti dove i bambini preparano i giacigli per dormire.

“Caffè italiano per tutte!” ripeto ogni mattina scendendo trionfalmente quelle scale con una enorme moka rossa in un festoso brindisi che apre ritualmente il giorno.

Poi tutti dal vecchio kurdo: peperoni piccanti, uova e pane fresco.
L’immagine s’impiglia in un contegno e la conversazione nelle logiche deteriorate dall’uso.

“tu italiano...”
“no... io sono sardo e tu kurdo. Apparteniamo alla stessa dignità di gente sconfitta ed umiliata”

Parliamo dell’onore e dell’appartenenza che si trasporta solo di persona. Un soldato sarebbe appagato dai simboli, ma noi, gente di pace... siamo sempre traditi… anche quando si vince.

L’indaco di un settembre che tramonta si mescola alla folla insolente di fame nell’inebriante inferno dei vicoli, agli arabeschi del sole nell’oscurità azzurrina di un bagno, al fumo nei caffè, ai logori broccati nei locali...

“che cosa scrivi? sei un poeta? tutti vengono qui... hashish?... una danza eccitante?... cambio?... oppio?... che cosa cerchi?...”

Non trovo mai silenzio... pausa.... sosta...

.......


Vieni qui

A contemplare il passaggio dei secoli sulla costa

le massicce distese di interminabili scogliere di roccia levigata o scritta in geroglifici di pietra e sabbia bianca e I’acqua limpida anche sotto e in fondo palme lontane e sottili come dita di una mano di sabbia che indica orizzonti fino al mare


Vieni qui

dove anche le voci hanno radici e prendono colore

le voci religiose delle donne anziane avvolte in un oscuro canto sacro e divinante che incombe di grandezza frantumata che da sempre appartiene a quella casa che ho da sempre abitato e abbandonato


Vieni qui
ritornando d’estate

e ritrovando irrequietezza di monotonia che suona come musica di mosche

vorrebbe urlare pietre quel silenzio


vieni e guarda disperdere la notte

guarda questo infinito che attraversa l’aria rendendo impersonale anche il tuo corpo come tempo di nebbia


e la boscaglia e le montagne con sopra la foresta e mirto e corbezzolo, e le aride terre di colline basse spinose e spaccate d’estate, dolci da pascolare in primavera, oltre le quali vigneti curati ed oliveti, ed eucaliptus, e caldo di elicriso e sabbia rossa soffocante nel vento che la porta dal deserto, e asfodeli e ginestre lungo il fiume o piuttosto un rigagnolo svogliato che nella sua incurabile insonnia filtra come un serpente fra le pietre per morire ogni giorno di più fino alla prossima pioggia che ci riporterà l’odore forte della terra.

ma sempre si ritorna in questa terra
e qui si persiste nel cammino


E i rigorosi resoconti dell’origine dovranno in eterno ricordare ogni carestia e sbarre e la catena romana, spagnola, italiana, araba, americana...

Nel mio mediterraneo non ci sono vincitori

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Note

(…)
E la scrittura? Poesia? Prosa poetica? semplicemente, come l’immagine, linguaggio di confine, appunti di viaggio, interno/esterno, attraversando luoghi del Mediterraneo e lasciandomi a mia volta attraversare da loro. Niente di esaustivo né di descrittivo, se non di alcune condizioni individuali che diventano universali quando ci si pone in ascolto. Durante il viaggio capita sempre d’incontrare qualcosa che si possa ricordare e riconoscere, ma solo chi sarà preparato ad attendere il racconto potrà dopo continuare a rifletterne visioni.

Ecco dunque il manuale che mi ha condotto:


Sono nato in un paese senza tempo.
Partendo ho portato con me il nome, la lingua, la memoria e i simboli della terra.

il nome

l’ho visto deformarsi e scomparire nelle pronunce per ascoltarlo rinascere nel fantastico canto cristallino di voci ‘altre’ (Màssala, Masàla, Masalha, Masalà, Mashalà, Mash Allah...).
Così ho capito che solo abbandonando il proprio nome alla pronuncia di ogni voce e restando immobile nell’ascolto delle sue trasformazioni ci si può prosciugare l’evidenza e far emergere l’essenza. Per diventare l’altro.

la lingua

ho ascoltato ogni lingua come se fosse mia. Ho atteso sempre di vederla impugnare nelle modulazioni della voce e volgere come un’ingenua arma senza punta contro il dolore della sua violazione, dove incombe una patria o dove si subisce il piano santo di chi decide scienza cultura e sapere nazionale.
Così ho visto che ogni lingua ha un nemico che ne esplora i nascondigli, e che la mia, sovrappopolata da una moltitudine di abitatori, si deve cercare dove alcuni uomini senza rassegnazione la nascondono all’interno, ben lontano dall'acqua, temendo che possa trascinarla. Con essa so parlare ad ogni lingua.

la memoria

dappertutto ho trovato i miei antenati nei metaforici racconti degli anziani fertili di sogno e di leggende che ho sempre riascoltato uguali. Sono loro che ci hanno insegnato a fissare lo sguardo per vedere i contorni segreti delle cose come bestie che nella notte avvistano la preda.
Così ho capito che la memoria non è letteratura, ma materia verbale in cui si affonda e che noi, riportandone i precisi innesti originari, ne diffondiamo la risonanza primitiva.

i simboli della terra

in ogni terra ho ritrovato i miei segni e ne ho letto i presagi.
Così ho imparato a diffidare degli dei immortali, incapaci di combattere la mancanza d'acqua, a dubitare di ogni religione, se non insegna almeno a leggere le viscere, a difendere il mio carico sacro dalla mano di ogni celebrante. E a portarlo da solo.

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Dappertutto ho visto gente che non ha più fierezza di zanne, mentre le nuove mitologie che affiorano con rapidità chiedono di starcene seduti davanti allo spettacolo di un presente irresistibile, che dirama messaggi inattendibili generando e alimentando conformismo.
Normalmente qui mi fermo a sentire in funzione il mio furente motore d’esistenza e anche oggi decifro il punto di vista deviante di quello che sembra un problema e che invece è imprudente coraggio di ‘affamati’ che fa volare via gli avvenimenti da omesse pagine di storia per frammentarli nei racconti di ogni disperazione.
E sempre troppo tardi sopraggiunge la vergogna per questa circostanza intesa come logica e normale.

Per questo continuo ancora ad utopico amare l'universo barricato di selvaggia determinazione.

Alberto Masala


*
I testi di Alberto Masala sono tratti da Mediterranea, Edizioni Il Maestrale

 

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