Periodo ipotetico *
di Mia Lecomte

 

 

Puoi guardarmi ora
aspetto il tuo sguardo
in questa mattina d'estate
il caffé nella tazza
la tazza nel resto del quadro
la spazzola, qualche briciola
e lo sfondo intenso più sotto
a morire dove manca il colore.
Ho la bocca, vedi, sorpresa dal gioco
una mano disgiunta a mostrarti
per quale rito la carne
è capace di farsi preghiera
le gambe piegate di lato
nell'incavo una vena azzurrina
l'altra mano lontana
nel sogno rimasto a sognare.
Aperta soltanto ai tuoi occhi
in realtà una figura di spalle
distratta a seguire l'impronta
lasciata per farmi trovare.


I

Posso guardarti ora
aspetti il mio sguardo
d'estate più presto è mattina
la luce posata sul retro
con foglie disposte a asciugare
è fuori dal quadro per poco
un gradino consunto.
Hai la fronte, vedo, fitta di veglie
il pugno è un cappio di cuoio
sul bosco ondulato del cuore
fino al folto dell'inguine
l'altro pugno si è sciolto
in un gesto abituale,
tutte dita che prendono.
Teso soltanto ai miei occhi
e invece un profilo parziale
attento a tenere il tuo posto
sentinella per farti scoprire.

II


Puoi annusarmi ora
dietro il collo e l'orecchio
nella facile conca
sotto il braccio levato
con cui tengo i capelli
una ciocca è sfuggita
tra le scapole appena
si apre piano una crepa
che spartisce il mio corpo
in due sponde gemelle
giusto solo un accenno
preso a falce alle reni e poi
il tratto profondo in cui corre
tutto intorno il mio spazio
una sfera di odori
che tu segui vicino accompagni
all'altro capo del fiato
riconosci presto densa di me.

II


Posso annusarti ora
la tua nuca è una brace
di presenze selvatiche
aria corta e rovente
poco a poco sprofonda
sottopelle in vertigini
poco a poco riemerge
la ritrovo soffiata
contropelo al respiro:
qui è tabacco pressato,
qui cacao amaro a morsi,
qui il bucato e il suo filo
stesi in mezzo a due oceani.
Bruci piano una festa
esaltata di odori
la tua festa scomposta
alla fine dei tropici.
Con il naso, a occhi chiusi
io rinnovo la cenere.


III


Puoi toccarmi ora
riplasmare a piacere
questa docile forma
imbevuta di attesa
insinuarvi le punte
ricomporla col palmo
e le labbra socchiuse
che io ritrovi la tua lingua
dentro a tutti i miei toni
mescolata indecente alla voce
che non sai perdonare
la mia voce da sola
a stracciare il tuo nome
senza osare parole,
il tuo nome che non è ancora tuo
lo diviene ogni volta che tocchi
e io non riesco che a scegliere,
con la pelle alla pelle,
di riuscirti a chiamare.


III


Posso toccarti ora
allacciata ai tuoi giorni
ricondurti insistente
a una spessa stagione
in cui perdi per sempre il tuo dove
tutto in briciole dolci e più amare
che io sto a ricucire leggera
dondolando più in basso del cuore
quatta quatta al tepore del pane
stretto lì a lievitare.
Tengo tutto di te, tutto quanto -
gli occhi neri, il tuo accento, quella ruga -
con le dita, tra i denti, e anche altrove:
tra le sbarre di una foto appannata,
nel vagito dei figli mancati,
per le pieghe della vita che avremmo,
in cui gode ogni nostro mai stato,
quel che cerco ostinata anche adesso
che sei solo con me, per un poco.


IV

Puoi prendermi ora
arrivare con forza a placare
il dolore proprio in mezzo
all'assenza di te dentro me,
ritrovarmi tutta all'interno -
riconosci, a rovescio, il mio nome?-
e lasciare, prevalere, lasciare
che sia sempre il tuo ordine complice
a dirigermi nel disegno imprudente
sotto sopra di perdono
e possesso con cui
mi offri senza tregua al tuo onore
così piccola per te così grande
oscurata molte volte dall'ombra
che oramai ha coperto il confine
numeroso di pioggia
a cortina da orizzonte a orizzonte.


IV


Posso prenderti ora
farti entrare al di là di me stessa
nella carne che non è la mia carne
dove albergano insieme le donne
del tuo desiderio incostante
fianco a fianco riunite a introdurti
nel bisogno espropriato di me.
Voglio averti trasversale nel tempo
ripercorsa tra passato e futuro,
a distesa per rivalse distese
condivisa, dalla madre alla morte.
E saperti - solamente saperti -
sempre dentro questa corte gelosa
che reclama con pudore un tuo segno
tutto quello che è parte di te
a mondarsi in un latte più bianco
dell'infanzia di cui resta il rimpianto.

V


Possiamo tacere ora insieme
almeno fintanto che segue
quest'ultima processione
a scemare nel petto, che tace,
possiamo tacere insieme, tanto
almeno finché dura
quest'ultimo passo
di voti sgranati
alla cera del ventre, che tace,
possiamo tacere insieme
ancora scanditi dal ritmo
segnati dal tempo segnato,
tacere quotidiani e devoti
battuti in pause più lunghe
che vibrano a perdere
nel cavo dei corpi svuotati,
restare insieme e tacere
il sangue che suona lontano
il resto a portata di mano, che tace.


* Da Autobiografie non vissute, Piero Manni, S.Cesario di Lecce 2004.
Prefazione di Predrag Matvejevic



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