Tahar Lamri. Voci in pellegrinaggio e trasmissioni
essenziali: il teatro dell’oralità
La
questione fondamentale che deve essere posta all’atto di scrivere,
specie quando si tratta di mettere su carta trasmissioni essenziali
è: il linguaggio serve, in fondo, a esprimere ciò che
pensiamo oppure a nascondersi. I proverbi, le metafore o anche le parabole
nella letteratura orale servono a questo. Infatti non a caso il “pellegrinaggio
della voce” comincia con “Sono un sacco di parole che quando
parla tace sempre una verità”.
Italo
Calvino in una intervista con il quotidiano francese Le Monde, alcuni
anni fa, disse: “L’inesattezza, il vago, l’approssimazione,
ecco ciò che mi disturba nella parola. E’ per questo motivo
che scrivo: per dare a questa cosa approssimativa una forma, un ordine,
una ragione”. Ecco, la tradizione orale cerca sempre di dare una
forma precisa alle parole. In certe regioni dell’Africa non si
deve mai parlare il mattino prima di aver sciacquato la bocca e quando
un bambino si ammala si dice che si è ammalato per le parole
cattive pronunciate dai suoi genitori. La letteratura orale, non essendo
scritta, deve, per definizione, essere il più possibile aderente
al significato di ciò che enuncia, nel senso che l’oralità
deve sempre tenere conto dell’interlocutore e quindi nel passaggio
verso la scrittura, poiché l’interlocutore non è
presente fisicamente, si deve assolutamente tener conto dell’orchestrazione
del verbo, della musicalità.
Prima
di parlare del mio lavoro al confine fra teatro e narrazione orale,
vorrei tentare un “ritratto” della mia scrittura in lingua
italiana, precisandone i contorni e mettere in luce le scelte che la
governano.
La
scrittura non rappresenta per me un mero nomadismo, in cerca di pascoli
letterari, ma rappresenta un pellegrinaggio circolare, dove non è
assente lo smarrimento, il saccheggio, la meraviglia, il mito, e, forse,
il ritorno verso di sé, o in altri termini più precisi
l’eterna perdita della mia propria identità, coltivando
in segreto, come i marrani nella Spagna della Riconquista, l’identità
primordiale, in un luogo al di là dell’errare. Forse si
tratta di una ricerca dell’”anima plurima” con le
sue implicazioni pagane. Scrivere in una lingua straniera è un
atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera
dissacra e libera.
Ma
si può coltivare l’illusione dell’identità
primordiale in una lingua già straniera? In una lingua che mi
rinvia ancora il mio balbettio in essa, talmente è poco il tempo
trascorso fra i tentativi di imparare a parlarla, anche approssimativamente,
per uscire dal mio Macondo post-diluviano, di oggetti senza nome e la
pretesa di utilizzare questa stessa lingua per descrivere i miei sentimenti
profondi, con parole coricate, allineate su diverse righe, ma in uno
stato di continua veglia, che parlano all’immaginazione altrui.
A volte anche rapinando a pieni mani nei ruvidi dialetti delle pianure.
Non vi sembra una bella pretesa?
Vivo
in Romagna, dal 1987, cioè da quando sono in Italia. In questa
zona, specie fra gli anziani, la formula di saluto più affettuosa
è “Che ti venga un accidente!”.
Mi ricordo, l’anno scorso, in occasione del Festival AzioniInClementi
a Malo, stavo fuori della villa Clementi, in attesa di partecipare ad
un incontro sulla letteratura dell’immigrazione, vicino a me c’erano
due persone, autoctone, che leggevano il programma della giornata, una
ha chiesto all’altra spiegazioni su un punto del programma e l’altra
ha risposto “Ze una roba di cultura!”. Queste sono le cose
che mi affascinano e mi spingono a scrivere. Vorrei spingere la mia
esperienza migratoria fino ad abbracciare i dialetti e da lì
partire per costruire la lingua italiana assieme agli scrittori italiani.
Una lingua nuova che mi permetta, finalmente spoglio dalla mia cultura
d’origine e dalle culture che mi hanno investito lungo tutti questi
anni di peregrinazioni (Libia, Egitto, Francia, Svizzera, Polonia, Inghilterra,
India), di compiere finalmente il “Viaggio” - con la “V”
maiscula -della visibilità assieme ad altri scrittori italiani,
ma al di là della letteratura italiana classica, poiché
i miei studi scolastici non sono nutriti dai “Promessi sposi”
o dalle poesie del Pascoli, il tutto teso verso una riconciliazione
primordiale.
In
questo contesto i dialetti hanno una potenza di cui è priva la
lingua italiana, standard, diffusa dalla radio e dalla televisione.
Un po’, a mio avviso, artefatta. Basta pensare Eduardo De Filippo
“tradotto” in italiano: non può funzionare, perderebbe
tutta le complessità di cui sono cariche i suoi testi. Il dialetto
non “cosifica”: esprime. E, a volte, espressioni altamente
offensive in italiano, diventano, come per magia, divertenti nel dialetto.
Poi mi piace questa idea che nella Pianura padana, i dialetti diano
l’esatto contrario della maschera dell’efficienza e della
finta modernità.
Un
altro luogo altamente simbolico per me, poiché presente in tutte
le culture del mondo è il cortile. Il cortile significa una vita
in comune, tanti bambini e tante donne. Uomini dall’andatura incerta.
Luogo di risa e di pianti. In tutti i paesi del mondo. l’immagine
che conservo del film cinese “Lanterne rosse”: è
quella dei lumi che si accendono nel cortile. Il cortile è il
luogo di tutte le battaglie. In Africa è il luogo dove vengono
cresciuti i bambini. La casa aperta su un patio. Non la casa chiusa
dove i bambini crescono davanti a una scatola di vetro e di plastica.
Quando c’era il cortile la gente non aveva paura di mandare i
bambini a giocare fuori.
La cultura del cortile presuppone poche domande, non si indaga: si sa.
I meccanismi tradizionali poi si incaricano di proteggere la vita intima
delle persone. Così quando sparisce il cortile, anche se si fanno
delle leggi per proteggere la privacy, le persone non si sentono più
protette.
In
questo teatro della narrazione orale, quindi, cerco di far passare clandestinamente
delle parole “povere” in una lingua che vuol essere segnata
dall’opulenza, in un italiano che si settentrionalizza sempre
di più, perdendo il contatto con la terra, con le natìe
colline toscane. Più che condizionamenti, quando scrivo, le parole
cominciano a saltare nella mia testa, a volte in diverse lingue, compiendo
delle traduzioni “indipendenti dalla mia volontà”
e a volte con associazioni di idee estranee all’italiano, lingua
nella quale scrivo. Così mi capita di ricordarmi di una parola
del mio dialetto algerino, che non pronuncio da 25 anni, tanto è
la distanza fra me e il mio paese d’origine. Questa parola non
la riscopro inerte, ma carica di significati assolutamente nuovi. Le
parole non sono innocenti e le parole italiane potrebbero sfuggirmi
di mano e condizionarmi, ma queste stesse parole non significano nulla
per la mia infanzia, culla dei condizionamenti e dei sensi di colpa,
allora cerco di farmi amiche queste parole, o in altri termini, le parole
in genere per farle convivere con le parole straniere – rispetto
alla lingua italiana s’intende – che porto in me. Comunque
sono operazioni complesse che sfuggono alla descrizione e all’analisi.
Alberto
Masala
Quando si parla di Sardegna non si dovrebbe parlare di cultura popolare.
Perché parlare di cultura popolare quando ci sono in Sardegna
quasi 300 metriche per fare poesia? Si tratta semplicemente di cultura
e poi, all’interno della cultura, ci sono le diverse stratificazioni.
Se si parla di cultura popolare si riapre la ferita, ci si riconsegna
a quella condizione in cui siamo i ‘buoni selvaggi’ che
sulle coste devono far divertire i turisti. No. Noi abbiamo fatto cultura,
ci è stata impedita, poi i dominatori hanno detto che facevamo
folclore, cultura popolare, questa è la realtà. Una realtà
che vale per noi come per tutte le Culture “non-dominanti”.
Oggi io utilizzo le metriche, gli strumenti della tradizione orale,
li utilizzo normalmente, ma non li sento come cose di recupero perché
sono le mie: non sto recuperando, bensì utilizzando, le cose
che ho appreso nella mia cultura. Naturalmente giacché mi definisco
<contemporaneo con radici> le contamino, le mescolo, non mi limito
a quelle. Ma è una grande prova, una grande sfida quella di riuscire
ad entrare nelle gabbie metriche tradizionali e vedere l’esecuzione
del canto. Quindi, ripeto, si tratta non di cultura popolare, ma di
cultura tout-court, con tutte le sue sfumature: ci sono gli esecutori
più o meno sublimi nell’interpretazione del canto, ci sono
gli improvvisatori (e sono viventi!). Tutto quello di cui voi con vero
interesse parlavate finora io l’ho vissuto e lo vivo ancora. Dicevate
dei rituali dei matrimoni: noi veniamo da una società pastorale,
pagana, animista, con una dea femmina non un dio maschio. Di tutto ciò
bisogna tener conto. Quindi, quando raccontavate degli Arberesh, mi
dicevo (ma non con sufficienza): be’, anche noi lo facciamo, ah,
anche questo fanno loro, ebbene anche noi lo facciamo, e lo facciamo
ancora, e non perché ci sono gli antropologi, lo facciamo perché
si deve fare, e lo faccio io che ho una laurea, parlo numerose lingue,
mi rapporto con la cultura contemporanea, ho vissuto con la beat generation
e non mi considero assolutamente né un pastorello né un
buon selvaggio che dovrebbe divertire i turisti in quella terra che
non si chiama Costa Smeralda e che ‘loro’ hanno battezzato
così perché il nome non gli piaceva. Tutti i nomi delle
terre cambiati, c’è stata una espropriazione e una umiliazione
assoluta, totale, uno spianamento… ma noi ancora esistiamo, siamo
ancora lì, siamo <tosti> , resistenti…: ci chiamano
<banditi>… ci perquisiscono entrando e uscendo dai villaggi…
ci chiedono ‘dove vai?’ ‘chi devi incontrare?’
‘perché lei è vestito così (avevo dei pantaloni
da pastore)?’ Ecco, non è cultura popolare, è cultura…
e all’interno ci sono tutte le forme, più o meno popolari.
Chiudo leggendo l’introduzione ad una mio vecchio lavoro. Sembra
scritta apposta per questa situazione: Io sono sardo ed ancora conservo
il ricordo di quando mia nonna mi portava dopo cena in piazza a sentir
cantare i poeti. Con la sedia sulla testa ci si incamminava per la via
principale del villaggio, in un corteo che man mano si infoltiva, sempre
di più, come formiche, tutti con la sedia sulla testa. I poeti
cantavano e il pubblico giudicava. Nei giorni successivi la gente ricantava
quelle poesie, ma poiché era impossibile ricordarle esattamente,
venivano trasformate, rifatte in una nuova composizione, frantumata
in mille frammenti. Per averle intere avresti dovuto radunare l’intero
villaggio in un canto collettivo. Per una o due settimane mia nonna
mi parlava solo in rima, ecco dove ho capito che un popolo senza lingua
né identità non può vivere perché non fa
poesia.
Chiudo dicendo che da qui andremo a Nizza, dove c’è un
convegno internazionale su uno dei più grandi studiosi al mondo
dell’oralità, Serge Pey, che ha composto una tesi di tremila
pagine sull’oralità nel mondo, il più completo testo
di analisi e interpretazione sull’argomento. lo sto aspettando
perché lo tradurrò in italiano. A Nizza si terrà
quindi l’”International du ritme”: si discuterà
e si farà… oralità.
Antonio Are
Ciò che un po’ mi rende perplesso – ma non più
di tanto, poiché è una cosa di cui mi sono accorto da
tantissimo tempo – è che tutti quelli che qua hanno parlato
di oralità più o meno hanno parlato della Sardegna; magari
se avessi parlato prima io, avrei parlato della cultura orale degli
altri (mi riferisco a Tahar e ad altri interventi). Spesso dimentichiamo
che il Mediterraneo è stato per millenni la culla della cultura
conosciuta, e che le varie regioni del bacino Mediterraneo spesso hanno
le stesse tradizioni, anche se in apparenza non sembrerebbe. Ora si
tende a non tener conto di questo e tutta la cultura orale, la tradizione
sembra rinchiusa in compartimenti stagni, sembra che non ci sia, non
ci debba essere, non ci sia mai stata comunicazione fra una cultura
e l’altra, fra una regione e l’altra, fra questa parte del
mare e quell’altra parte del mare. Per fortuna non è così.
Per fortuna tutti riconosciamo che a suo tempo gli Egizi hanno fatto
cultura nel Mediterraneo, come l’hanno fatta i Greci, i Persiani,
i Romani, come tutti quelli che in qualche modo hanno dominato culturalmente
e non solo il Mediterraneo (e mi riferisco ad un Mediterraneo allargato,
non soltanto alla Sardegna o alla Sicilia o al Maghreb, a quei Paesi
che si affacciano direttamente sul mare, bensì anche a zone più
interne). E per fortuna la cultura dei libri e della televisione, la
cultura recente, anche se invadente, non è riuscita ancora a
sradicare completamente quelli che erano i fondamenti della nostra vera
cultura comune.
La Sardegna, quindi: una volta ho chiesto a Roberto Leydi, un etnomusicologo:
“Come mai tutti parlano delle varie culture, dei vari canti del
continente, e non si parla dei canti sardi, non c’è stata
una ricerca?” Lui mi ha risposto: “Mentre altrove molti
canti, molte tradizioni sono scomparsi moltissimi anni fa, in Sardegna
le tradizioni sono ancora vivissime, per cui nessun etnomusicologo si
sente in dovere di andare a far ricerca in Sardegna”. Quindi,
come diceva Alberto prima, ciò che per me è normale, per
altri è straordinario; io le vivo tutti i giorni certe cose...
le feste, i matrimoni, i funerali, le serenate: ogni evento è
buono per cantarci sopra e questo, badiamo bene, non è superficiale,
scaturisce da dentro, dall’esigenza culturale, che per fortuna
abbiamo, di un popolo.
Perché, dunque, si parla di qualcosa che è scomparso in
alcuni luoghi, e si tramanda ancora in altri? Intorno agli anni ‘50/’60
gli etnomusicologi hanno fissato la tradizione, l’identità.
Ma la tradizione è un concetto recentissimo, che ha dato spazio
ad argomenti che alla fine diventavano conservativi: quando la tradizione
era orale, quando non esistevano i magnetofoni, le audiocassette, le
videocassette, i dvd, la tradizione era viva, scorreva e prendeva di
volta in volta tutta la storia della gente che attraversava. E si trasformava,
si arricchiva delle esperienze tipiche di quel momento storico, di quella
generazione, di quella popolazione ‘nuova’ che arrivava
e portava qualche elemento di innovazione. C’era sempre qualcosa
che si trasformava, oppure era la creatività di uno che in qualche
modo trasformava quella che poi venne chiamata tradizione. La tradizione
per i Sardi, per i vecchi specialmente, non esiste, è un concetto
estraneo: la tradizione è la cultura. Non esiste neppure il termine,
nella lingua sarda: esiste su connotu, ciò che abbiamo conosciuto,
che è qualcosa che si trasporta dentro di sé e che ognuno
comunica come l’ha capito, come intende comunicarlo, a seconda
dei valori che attribuisce a questo comunicare. In un momento come questo
in cui (e se ne ha conferma parlando con gli insegnanti) sembra che
i giovani abbiano perso il contatto con la propria interiorità,
è importante ricordare che la tradizione orale ha/aveva veramente
a che fare con l’interiorità perché ognuno riusciva
veramente a trasmettere se stesso senza vergognarsi, ognuno parlava
e cantava facendo quello che riusciva a fare, dando quello che riusciva
a dare. In Sardegna si dice “bella e feas, b’intrant a ballare”
(sia belle sia brutte possono entrare a far parte della danza): questo
avveniva quando la cultura non era spettacolo, - non come oggi, con
un palcoscenico su cui solo pochi si esibiscono di fronte un pubblico
che assiste - quando era tutto un popolo a ballare e cantare, che così
faceva cultura perché tutti avevano diritto ad esprimersi. La
tradizione ha fermato tutta questa evoluzione perché si è
andati alla ricerca di modi codificati di esecuzione, limitando la libera
espressione: c’è che mi dice “questo pezzo tuo nonno
lo canta in un modo, tu perché lo fai così?” E io
rispondo ”forse perché io mi sono formato anche attraverso
gli studi, ho sviluppato la mia creatività. Tuttavia quando canto
con mio nonno so cantare come lui, e anche mio nonno sa cantare come
canto io”. È diverso il caso di chi si accosta ad una cultura
solo mediante i libri: non c’è nulla di male, ma si perdono
tanti elementi ed in qualche modo si vanifica l’apprendimento
e la comprensione di ciò che si studia.
Io canto “a tenore”. Il canto in Sardegna non è scisso
assolutamente dalla poesia: chi canta in Sardegna fa poesia, chi fa
poesia canta. Lo dimostrano alcune espressioni tipiche: “se sei
poeta canta”; “ti hanno composto una poesia” (hanno
scritto una canzone su di te, per canzonarti, per prenderti in giro).
Io ho imparato a cantare da piccolo, ascoltando i canti nei vari raduni
che offriva la mia comunità (feste campestri, sagre…).
Si svolgevano pure delle gare estemporanee, si cantavano quartine o
ottave, sulla spinta di incitamenti reciproci, per un movimento spontaneo
che può essere avvicinato a quello degli atomi che formano una
molecola. Spesso si trattava di improvvisazioni a tema, di diatribe
e sfide (a volte satiriche) dall’uno all’altro. Poi dalla
iniziale “presa in giro” si passava a qualcosa di più
impegnativo, allo scontro vero e proprio tra i poeti. Si trattava di
gare estemporanee, libere; la cultura dei cantastorie era legata anche
all’abitudine di andare nelle varie feste chiedendo l’elemosina
in cambio delle loro esibizioni. Nel 1896 un poeta ha cominciato ad
indire gare a premio, con giuria; il premio, che veniva dato al cantore
più bravo, fu inizialmente rappresentato da un panno, un pezzo
di stoffa e poi da una somma in denaro. I poeti estemporanei erano riconosciuti
da tutto il popolo; essi praticavano la cosiddetta poesia non colta,
non meditata, popolare, mentre i poeti colti venivano chiamati poeti
“a tavolino” e la loro poesia era più meditata; tuttavia
anche questi ultimi non leggevano la loro poesia, la cantavano (anche
se con il testo in mano). Il canto “a tenore” è un
canto che ha quattro voci soliste e prevede una serie di movimenti,
di prese di posizione e di rimbalzi da parte di ciascuno, per cui ognuno
nel gruppo può essere di volta in volta solista, pur essendo,
la poesia, cantata sempre dalla voce solista vera e propria, che ha
il compito arduo e importante di comunicare e quindi di reggere il testo,
sul quale si può anche improvvisare. Su mutu (il moto) è
un canto veloce, immediato, che colpisce (una dichiarazione d’amore,
un canto di dileggio, caratterizzati dalla rapidità); esso viene
spesso improvvisato. Si tratta di versi ottonari, molto veloci e più
immediati rispetto agli endecasillabi. Si ha una struttura iniziale
a due, tre, quattro o cinque versi, a seconda di ciò che si vuol
dire.
Alberto
Masala
Può essere avvicinato all’haiku giapponese: l’ambientazione,
lo sviluppo con aggiunta di senso a ogni “tornata”, l’illuminazione
finale; si può ricomporre liberamente, ma deve sempre coincidere.
Lo schema è il seguente: un habitat, uno sviluppo di esistenza
e una raccolta di esistenza. La differenza è che noi continuamente
facciamo scorrere le parole all'interno cambiando sempre senso e quindi
estendendo il senso stesso in maniera dinamica. Esempio:
A
VOLTE L’ACQUA SCORRE
E TRASPORTA TUTTO
MA DEVI DIRE QUALCOSA
QUANDO CANTI POESIA
(è
un invito a non fare poesia vuota, a non cantare tanto per cantare,
a dire qualcosa). Su questo schema ogni volta il cantore modificherà
qualcosa, aggiungerà un pezzo di senso in più.
Sintesi
del lavoro svolto dalla classe 4 R del Liceo Classico “L. Ariosto”,
indirizzo di Scienze Sociali, presentato dagli alunni Mauro Biasiolo
e Elisa Borghi
E.
Borghi
Iil
taglio del nostro intervento si collega alle discipline caratterizzanti
il nostro indirizzo di studio, prevalentemente l’Antropologia
Culturale. Per trattare di oralità prendiamo spunto dall’intervento
di Kossi Komla Emri nel corso del primo Convegno di Ferrara sugli scrittori
migranti: Il rapporto tra la radice dell’oralita e l’uomo:
l’uomo nasce con l’inclinazione al parlare. Si può
pensare l’uomo senza scrittura ma non senza oralità.
Abbiamo scelto di parlare di oralità come viene praticata presso
le comunità Arbereshe per motivi antropologici: presso quelle
comunità la prevalenza della cultura e della lingua orale è
determinata dal carattere nomade delle popolazioni. Lo spunto per questo
intervento ci è stato offerto dalla lettura dei romanzi di Carmine
Abate, uno scrittore della comunità Arberesh di Scarfizzi, Calabria
(attualmente residente in Trentino dopo diversi anni trascorsi in Germania
– quindi portatore di tre lingue e rispettive culture), su cui
è stato svolto un lavoro comune da parte di cinque classi, tra
cui la nostra, del nostro Liceo, in vista dell’incontro con lo
scrittore a maggio prossimo.Con la collaborazione di una docente italo-arberesh
residente a Ferrara, abbiamo registrato alcuni testi in lingua arberesh,
legati a feste tipiche di quelle comunità.
M.
Biasiolo
Ssi
tratta di canti, quasi sempre improvvisati e di libera interpretazione;
sono canti rituali tuttora eseguiti presso comunità che mantengono
vive le loro tradizioni.
Il primo si riferisce al matrimonio: Cade la pioggia
Bie
shi e bie bor,
Çirivini vu kuror
me t’bilëzin mb’dor.
Shtun turres e kanallina
e i rrmbej gjith Rozina.
|
Cade
la pioggia, cade la neve,
Cirivino si é maritato
con la figlioletta in braccio.
Hanno gettato denaro e confetti,
e li ha raccolti tutti Rosina.
|
Viene citata una usanza ancora praticata: gettare denari e confetti
in segno di augurio di abbondanza e fertilità.
Il secondo è una ninnananna:
E
kuçi kuçi m’i bën mëma,
m’e marton ka Murëmëna.
E kuçi kuçi m’i bën tata,
m’e marton ka San Dhunata.
E kuçi kuçi m’i bën cia,
m’e marton ka Picilia.
E jolla, jolla se s’ë kund,
kam t’e martomi nd’katund.
Kam t’i jami një bular,
se kjo vashez nëng ka guall.
Kam t’i jami nj’gallandom,
se kjo vashë e meriton.
Kam t’i jami na një trim,
se ë kjo vashez malli im.
(Çifti )
|
Ninna
nanna le fa mamma,
la mariteremo a Mormanno.
Ninna nanna le fa il papà,
la mariteremo a San Donato.
Ninna nanna le fa la zia,
la mariteremo a Pizziglia.
Ma no, no, che non va bene,
dobbiamo maritarla qui in paese.
Le daremo in sposo un cavaliere,
perché questa bimba non ha uguali.
Le daremo in sposo un galantuomo,
perché questa bimba se lo merita.
Le daremo in sposo un giovane di valore,
perché questa bimba é il mio amore.
(Civita) |
Appare
chiaro il riferimento al desiderio di maritare la fanciulla.
I testi che abbiamo letto e commentato (un piccolissimo stralcio) possono
essere ritenuti chiavi di lettura di una cultura.