Tavola rotonda

"Oralità e scrittura"

interventi di Tahar Lamri, Antonio Are, Alberto Masala, alunni del Liceo "L.Ariosto" di Ferrara coordinati da Gian Paolo Borghi

Tahar Lamri. Voci in pellegrinaggio e trasmissioni essenziali: il teatro dell’oralità

La questione fondamentale che deve essere posta all’atto di scrivere, specie quando si tratta di mettere su carta trasmissioni essenziali è: il linguaggio serve, in fondo, a esprimere ciò che pensiamo oppure a nascondersi. I proverbi, le metafore o anche le parabole nella letteratura orale servono a questo. Infatti non a caso il “pellegrinaggio della voce” comincia con “Sono un sacco di parole che quando parla tace sempre una verità”.

Italo Calvino in una intervista con il quotidiano francese Le Monde, alcuni anni fa, disse: “L’inesattezza, il vago, l’approssimazione, ecco ciò che mi disturba nella parola. E’ per questo motivo che scrivo: per dare a questa cosa approssimativa una forma, un ordine, una ragione”. Ecco, la tradizione orale cerca sempre di dare una forma precisa alle parole. In certe regioni dell’Africa non si deve mai parlare il mattino prima di aver sciacquato la bocca e quando un bambino si ammala si dice che si è ammalato per le parole cattive pronunciate dai suoi genitori. La letteratura orale, non essendo scritta, deve, per definizione, essere il più possibile aderente al significato di ciò che enuncia, nel senso che l’oralità deve sempre tenere conto dell’interlocutore e quindi nel passaggio verso la scrittura, poiché l’interlocutore non è presente fisicamente, si deve assolutamente tener conto dell’orchestrazione del verbo, della musicalità.

Prima di parlare del mio lavoro al confine fra teatro e narrazione orale, vorrei tentare un “ritratto” della mia scrittura in lingua italiana, precisandone i contorni e mettere in luce le scelte che la governano.

La scrittura non rappresenta per me un mero nomadismo, in cerca di pascoli letterari, ma rappresenta un pellegrinaggio circolare, dove non è assente lo smarrimento, il saccheggio, la meraviglia, il mito, e, forse, il ritorno verso di sé, o in altri termini più precisi l’eterna perdita della mia propria identità, coltivando in segreto, come i marrani nella Spagna della Riconquista, l’identità primordiale, in un luogo al di là dell’errare. Forse si tratta di una ricerca dell’”anima plurima” con le sue implicazioni pagane. Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera.

Ma si può coltivare l’illusione dell’identità primordiale in una lingua già straniera? In una lingua che mi rinvia ancora il mio balbettio in essa, talmente è poco il tempo trascorso fra i tentativi di imparare a parlarla, anche approssimativamente, per uscire dal mio Macondo post-diluviano, di oggetti senza nome e la pretesa di utilizzare questa stessa lingua per descrivere i miei sentimenti profondi, con parole coricate, allineate su diverse righe, ma in uno stato di continua veglia, che parlano all’immaginazione altrui. A volte anche rapinando a pieni mani nei ruvidi dialetti delle pianure. Non vi sembra una bella pretesa?

Vivo in Romagna, dal 1987, cioè da quando sono in Italia. In questa zona, specie fra gli anziani, la formula di saluto più affettuosa è “Che ti venga un accidente!”.
Mi ricordo, l’anno scorso, in occasione del Festival AzioniInClementi a Malo, stavo fuori della villa Clementi, in attesa di partecipare ad un incontro sulla letteratura dell’immigrazione, vicino a me c’erano due persone, autoctone, che leggevano il programma della giornata, una ha chiesto all’altra spiegazioni su un punto del programma e l’altra ha risposto “Ze una roba di cultura!”. Queste sono le cose che mi affascinano e mi spingono a scrivere. Vorrei spingere la mia esperienza migratoria fino ad abbracciare i dialetti e da lì partire per costruire la lingua italiana assieme agli scrittori italiani. Una lingua nuova che mi permetta, finalmente spoglio dalla mia cultura d’origine e dalle culture che mi hanno investito lungo tutti questi anni di peregrinazioni (Libia, Egitto, Francia, Svizzera, Polonia, Inghilterra, India), di compiere finalmente il “Viaggio” - con la “V” maiscula -della visibilità assieme ad altri scrittori italiani, ma al di là della letteratura italiana classica, poiché i miei studi scolastici non sono nutriti dai “Promessi sposi” o dalle poesie del Pascoli, il tutto teso verso una riconciliazione primordiale.

In questo contesto i dialetti hanno una potenza di cui è priva la lingua italiana, standard, diffusa dalla radio e dalla televisione. Un po’, a mio avviso, artefatta. Basta pensare Eduardo De Filippo “tradotto” in italiano: non può funzionare, perderebbe tutta le complessità di cui sono cariche i suoi testi. Il dialetto non “cosifica”: esprime. E, a volte, espressioni altamente offensive in italiano, diventano, come per magia, divertenti nel dialetto. Poi mi piace questa idea che nella Pianura padana, i dialetti diano l’esatto contrario della maschera dell’efficienza e della finta modernità.

Un altro luogo altamente simbolico per me, poiché presente in tutte le culture del mondo è il cortile. Il cortile significa una vita in comune, tanti bambini e tante donne. Uomini dall’andatura incerta. Luogo di risa e di pianti. In tutti i paesi del mondo. l’immagine che conservo del film cinese “Lanterne rosse”: è quella dei lumi che si accendono nel cortile. Il cortile è il luogo di tutte le battaglie. In Africa è il luogo dove vengono cresciuti i bambini. La casa aperta su un patio. Non la casa chiusa dove i bambini crescono davanti a una scatola di vetro e di plastica. Quando c’era il cortile la gente non aveva paura di mandare i bambini a giocare fuori.
La cultura del cortile presuppone poche domande, non si indaga: si sa. I meccanismi tradizionali poi si incaricano di proteggere la vita intima delle persone. Così quando sparisce il cortile, anche se si fanno delle leggi per proteggere la privacy, le persone non si sentono più protette.

In questo teatro della narrazione orale, quindi, cerco di far passare clandestinamente delle parole “povere” in una lingua che vuol essere segnata dall’opulenza, in un italiano che si settentrionalizza sempre di più, perdendo il contatto con la terra, con le natìe colline toscane. Più che condizionamenti, quando scrivo, le parole cominciano a saltare nella mia testa, a volte in diverse lingue, compiendo delle traduzioni “indipendenti dalla mia volontà” e a volte con associazioni di idee estranee all’italiano, lingua nella quale scrivo. Così mi capita di ricordarmi di una parola del mio dialetto algerino, che non pronuncio da 25 anni, tanto è la distanza fra me e il mio paese d’origine. Questa parola non la riscopro inerte, ma carica di significati assolutamente nuovi. Le parole non sono innocenti e le parole italiane potrebbero sfuggirmi di mano e condizionarmi, ma queste stesse parole non significano nulla per la mia infanzia, culla dei condizionamenti e dei sensi di colpa, allora cerco di farmi amiche queste parole, o in altri termini, le parole in genere per farle convivere con le parole straniere – rispetto alla lingua italiana s’intende – che porto in me. Comunque sono operazioni complesse che sfuggono alla descrizione e all’analisi.

Alberto Masala


Quando si parla di Sardegna non si dovrebbe parlare di cultura popolare. Perché parlare di cultura popolare quando ci sono in Sardegna quasi 300 metriche per fare poesia? Si tratta semplicemente di cultura e poi, all’interno della cultura, ci sono le diverse stratificazioni. Se si parla di cultura popolare si riapre la ferita, ci si riconsegna a quella condizione in cui siamo i ‘buoni selvaggi’ che sulle coste devono far divertire i turisti. No. Noi abbiamo fatto cultura, ci è stata impedita, poi i dominatori hanno detto che facevamo folclore, cultura popolare, questa è la realtà. Una realtà che vale per noi come per tutte le Culture “non-dominanti”. Oggi io utilizzo le metriche, gli strumenti della tradizione orale, li utilizzo normalmente, ma non li sento come cose di recupero perché sono le mie: non sto recuperando, bensì utilizzando, le cose che ho appreso nella mia cultura. Naturalmente giacché mi definisco <contemporaneo con radici> le contamino, le mescolo, non mi limito a quelle. Ma è una grande prova, una grande sfida quella di riuscire ad entrare nelle gabbie metriche tradizionali e vedere l’esecuzione del canto. Quindi, ripeto, si tratta non di cultura popolare, ma di cultura tout-court, con tutte le sue sfumature: ci sono gli esecutori più o meno sublimi nell’interpretazione del canto, ci sono gli improvvisatori (e sono viventi!). Tutto quello di cui voi con vero interesse parlavate finora io l’ho vissuto e lo vivo ancora. Dicevate dei rituali dei matrimoni: noi veniamo da una società pastorale, pagana, animista, con una dea femmina non un dio maschio. Di tutto ciò bisogna tener conto. Quindi, quando raccontavate degli Arberesh, mi dicevo (ma non con sufficienza): be’, anche noi lo facciamo, ah, anche questo fanno loro, ebbene anche noi lo facciamo, e lo facciamo ancora, e non perché ci sono gli antropologi, lo facciamo perché si deve fare, e lo faccio io che ho una laurea, parlo numerose lingue, mi rapporto con la cultura contemporanea, ho vissuto con la beat generation e non mi considero assolutamente né un pastorello né un buon selvaggio che dovrebbe divertire i turisti in quella terra che non si chiama Costa Smeralda e che ‘loro’ hanno battezzato così perché il nome non gli piaceva. Tutti i nomi delle terre cambiati, c’è stata una espropriazione e una umiliazione assoluta, totale, uno spianamento… ma noi ancora esistiamo, siamo ancora lì, siamo <tosti> , resistenti…: ci chiamano <banditi>… ci perquisiscono entrando e uscendo dai villaggi… ci chiedono ‘dove vai?’ ‘chi devi incontrare?’ ‘perché lei è vestito così (avevo dei pantaloni da pastore)?’ Ecco, non è cultura popolare, è cultura… e all’interno ci sono tutte le forme, più o meno popolari. Chiudo leggendo l’introduzione ad una mio vecchio lavoro. Sembra scritta apposta per questa situazione: Io sono sardo ed ancora conservo il ricordo di quando mia nonna mi portava dopo cena in piazza a sentir cantare i poeti. Con la sedia sulla testa ci si incamminava per la via principale del villaggio, in un corteo che man mano si infoltiva, sempre di più, come formiche, tutti con la sedia sulla testa. I poeti cantavano e il pubblico giudicava. Nei giorni successivi la gente ricantava quelle poesie, ma poiché era impossibile ricordarle esattamente, venivano trasformate, rifatte in una nuova composizione, frantumata in mille frammenti. Per averle intere avresti dovuto radunare l’intero villaggio in un canto collettivo. Per una o due settimane mia nonna mi parlava solo in rima, ecco dove ho capito che un popolo senza lingua né identità non può vivere perché non fa poesia.
Chiudo dicendo che da qui andremo a Nizza, dove c’è un convegno internazionale su uno dei più grandi studiosi al mondo dell’oralità, Serge Pey, che ha composto una tesi di tremila pagine sull’oralità nel mondo, il più completo testo di analisi e interpretazione sull’argomento. lo sto aspettando perché lo tradurrò in italiano. A Nizza si terrà quindi l’”International du ritme”: si discuterà e si farà… oralità.


Antonio Are


Ciò che un po’ mi rende perplesso – ma non più di tanto, poiché è una cosa di cui mi sono accorto da tantissimo tempo – è che tutti quelli che qua hanno parlato di oralità più o meno hanno parlato della Sardegna; magari se avessi parlato prima io, avrei parlato della cultura orale degli altri (mi riferisco a Tahar e ad altri interventi). Spesso dimentichiamo che il Mediterraneo è stato per millenni la culla della cultura conosciuta, e che le varie regioni del bacino Mediterraneo spesso hanno le stesse tradizioni, anche se in apparenza non sembrerebbe. Ora si tende a non tener conto di questo e tutta la cultura orale, la tradizione sembra rinchiusa in compartimenti stagni, sembra che non ci sia, non ci debba essere, non ci sia mai stata comunicazione fra una cultura e l’altra, fra una regione e l’altra, fra questa parte del mare e quell’altra parte del mare. Per fortuna non è così. Per fortuna tutti riconosciamo che a suo tempo gli Egizi hanno fatto cultura nel Mediterraneo, come l’hanno fatta i Greci, i Persiani, i Romani, come tutti quelli che in qualche modo hanno dominato culturalmente e non solo il Mediterraneo (e mi riferisco ad un Mediterraneo allargato, non soltanto alla Sardegna o alla Sicilia o al Maghreb, a quei Paesi che si affacciano direttamente sul mare, bensì anche a zone più interne). E per fortuna la cultura dei libri e della televisione, la cultura recente, anche se invadente, non è riuscita ancora a sradicare completamente quelli che erano i fondamenti della nostra vera cultura comune.
La Sardegna, quindi: una volta ho chiesto a Roberto Leydi, un etnomusicologo: “Come mai tutti parlano delle varie culture, dei vari canti del continente, e non si parla dei canti sardi, non c’è stata una ricerca?” Lui mi ha risposto: “Mentre altrove molti canti, molte tradizioni sono scomparsi moltissimi anni fa, in Sardegna le tradizioni sono ancora vivissime, per cui nessun etnomusicologo si sente in dovere di andare a far ricerca in Sardegna”. Quindi, come diceva Alberto prima, ciò che per me è normale, per altri è straordinario; io le vivo tutti i giorni certe cose... le feste, i matrimoni, i funerali, le serenate: ogni evento è buono per cantarci sopra e questo, badiamo bene, non è superficiale, scaturisce da dentro, dall’esigenza culturale, che per fortuna abbiamo, di un popolo.
Perché, dunque, si parla di qualcosa che è scomparso in alcuni luoghi, e si tramanda ancora in altri? Intorno agli anni ‘50/’60 gli etnomusicologi hanno fissato la tradizione, l’identità. Ma la tradizione è un concetto recentissimo, che ha dato spazio ad argomenti che alla fine diventavano conservativi: quando la tradizione era orale, quando non esistevano i magnetofoni, le audiocassette, le videocassette, i dvd, la tradizione era viva, scorreva e prendeva di volta in volta tutta la storia della gente che attraversava. E si trasformava, si arricchiva delle esperienze tipiche di quel momento storico, di quella generazione, di quella popolazione ‘nuova’ che arrivava e portava qualche elemento di innovazione. C’era sempre qualcosa che si trasformava, oppure era la creatività di uno che in qualche modo trasformava quella che poi venne chiamata tradizione. La tradizione per i Sardi, per i vecchi specialmente, non esiste, è un concetto estraneo: la tradizione è la cultura. Non esiste neppure il termine, nella lingua sarda: esiste su connotu, ciò che abbiamo conosciuto, che è qualcosa che si trasporta dentro di sé e che ognuno comunica come l’ha capito, come intende comunicarlo, a seconda dei valori che attribuisce a questo comunicare. In un momento come questo in cui (e se ne ha conferma parlando con gli insegnanti) sembra che i giovani abbiano perso il contatto con la propria interiorità, è importante ricordare che la tradizione orale ha/aveva veramente a che fare con l’interiorità perché ognuno riusciva veramente a trasmettere se stesso senza vergognarsi, ognuno parlava e cantava facendo quello che riusciva a fare, dando quello che riusciva a dare. In Sardegna si dice “bella e feas, b’intrant a ballare” (sia belle sia brutte possono entrare a far parte della danza): questo avveniva quando la cultura non era spettacolo, - non come oggi, con un palcoscenico su cui solo pochi si esibiscono di fronte un pubblico che assiste - quando era tutto un popolo a ballare e cantare, che così faceva cultura perché tutti avevano diritto ad esprimersi. La tradizione ha fermato tutta questa evoluzione perché si è andati alla ricerca di modi codificati di esecuzione, limitando la libera espressione: c’è che mi dice “questo pezzo tuo nonno lo canta in un modo, tu perché lo fai così?” E io rispondo ”forse perché io mi sono formato anche attraverso gli studi, ho sviluppato la mia creatività. Tuttavia quando canto con mio nonno so cantare come lui, e anche mio nonno sa cantare come canto io”. È diverso il caso di chi si accosta ad una cultura solo mediante i libri: non c’è nulla di male, ma si perdono tanti elementi ed in qualche modo si vanifica l’apprendimento e la comprensione di ciò che si studia.
Io canto “a tenore”. Il canto in Sardegna non è scisso assolutamente dalla poesia: chi canta in Sardegna fa poesia, chi fa poesia canta. Lo dimostrano alcune espressioni tipiche: “se sei poeta canta”; “ti hanno composto una poesia” (hanno scritto una canzone su di te, per canzonarti, per prenderti in giro). Io ho imparato a cantare da piccolo, ascoltando i canti nei vari raduni che offriva la mia comunità (feste campestri, sagre…). Si svolgevano pure delle gare estemporanee, si cantavano quartine o ottave, sulla spinta di incitamenti reciproci, per un movimento spontaneo che può essere avvicinato a quello degli atomi che formano una molecola. Spesso si trattava di improvvisazioni a tema, di diatribe e sfide (a volte satiriche) dall’uno all’altro. Poi dalla iniziale “presa in giro” si passava a qualcosa di più impegnativo, allo scontro vero e proprio tra i poeti. Si trattava di gare estemporanee, libere; la cultura dei cantastorie era legata anche all’abitudine di andare nelle varie feste chiedendo l’elemosina in cambio delle loro esibizioni. Nel 1896 un poeta ha cominciato ad indire gare a premio, con giuria; il premio, che veniva dato al cantore più bravo, fu inizialmente rappresentato da un panno, un pezzo di stoffa e poi da una somma in denaro. I poeti estemporanei erano riconosciuti da tutto il popolo; essi praticavano la cosiddetta poesia non colta, non meditata, popolare, mentre i poeti colti venivano chiamati poeti “a tavolino” e la loro poesia era più meditata; tuttavia anche questi ultimi non leggevano la loro poesia, la cantavano (anche se con il testo in mano). Il canto “a tenore” è un canto che ha quattro voci soliste e prevede una serie di movimenti, di prese di posizione e di rimbalzi da parte di ciascuno, per cui ognuno nel gruppo può essere di volta in volta solista, pur essendo, la poesia, cantata sempre dalla voce solista vera e propria, che ha il compito arduo e importante di comunicare e quindi di reggere il testo, sul quale si può anche improvvisare. Su mutu (il moto) è un canto veloce, immediato, che colpisce (una dichiarazione d’amore, un canto di dileggio, caratterizzati dalla rapidità); esso viene spesso improvvisato. Si tratta di versi ottonari, molto veloci e più immediati rispetto agli endecasillabi. Si ha una struttura iniziale a due, tre, quattro o cinque versi, a seconda di ciò che si vuol dire.

Alberto Masala


Può essere avvicinato all’haiku giapponese: l’ambientazione, lo sviluppo con aggiunta di senso a ogni “tornata”, l’illuminazione finale; si può ricomporre liberamente, ma deve sempre coincidere. Lo schema è il seguente: un habitat, uno sviluppo di esistenza e una raccolta di esistenza. La differenza è che noi continuamente facciamo scorrere le parole all'interno cambiando sempre senso e quindi estendendo il senso stesso in maniera dinamica. Esempio:

A VOLTE L’ACQUA SCORRE
E TRASPORTA TUTTO
MA DEVI DIRE QUALCOSA
QUANDO CANTI POESIA

(è un invito a non fare poesia vuota, a non cantare tanto per cantare, a dire qualcosa). Su questo schema ogni volta il cantore modificherà qualcosa, aggiungerà un pezzo di senso in più.

Sintesi del lavoro svolto dalla classe 4 R del Liceo Classico “L. Ariosto”, indirizzo di Scienze Sociali, presentato dagli alunni Mauro Biasiolo e Elisa Borghi

E. Borghi

Iil taglio del nostro intervento si collega alle discipline caratterizzanti il nostro indirizzo di studio, prevalentemente l’Antropologia Culturale. Per trattare di oralità prendiamo spunto dall’intervento di Kossi Komla Emri nel corso del primo Convegno di Ferrara sugli scrittori migranti: Il rapporto tra la radice dell’oralita e l’uomo: l’uomo nasce con l’inclinazione al parlare. Si può pensare l’uomo senza scrittura ma non senza oralità.
Abbiamo scelto di parlare di oralità come viene praticata presso le comunità Arbereshe per motivi antropologici: presso quelle comunità la prevalenza della cultura e della lingua orale è determinata dal carattere nomade delle popolazioni. Lo spunto per questo intervento ci è stato offerto dalla lettura dei romanzi di Carmine Abate, uno scrittore della comunità Arberesh di Scarfizzi, Calabria (attualmente residente in Trentino dopo diversi anni trascorsi in Germania – quindi portatore di tre lingue e rispettive culture), su cui è stato svolto un lavoro comune da parte di cinque classi, tra cui la nostra, del nostro Liceo, in vista dell’incontro con lo scrittore a maggio prossimo.Con la collaborazione di una docente italo-arberesh residente a Ferrara, abbiamo registrato alcuni testi in lingua arberesh, legati a feste tipiche di quelle comunità.

M. Biasiolo

Ssi tratta di canti, quasi sempre improvvisati e di libera interpretazione; sono canti rituali tuttora eseguiti presso comunità che mantengono vive le loro tradizioni.
Il primo si riferisce al matrimonio: Cade la pioggia



Bie shi e bie bor,
Çirivini vu kuror
me t’bilëzin mb’dor.
Shtun turres e kanallina
e i rrmbej gjith Rozina.
   (Çifti ) 
Cade la pioggia, cade la neve,
Cirivino si é maritato
con la figlioletta in braccio.
Hanno gettato denaro e confetti,
e li ha raccolti tutti Rosina.
                 (Civita)


Viene citata una usanza ancora praticata: gettare denari e confetti in segno di augurio di abbondanza e fertilità.
Il secondo è una ninnananna:

E kuçi kuçi m’i bën mëma,
m’e marton ka Murëmëna.
E kuçi kuçi m’i bën tata,
m’e marton ka San Dhunata.
E kuçi kuçi m’i bën cia,
m’e marton ka Picilia.
E jolla, jolla se s’ë kund,
kam t’e martomi nd’katund.
Kam t’i jami një bular,
se kjo vashez nëng ka guall.
Kam t’i jami nj’gallandom,
se kjo vashë e meriton.
Kam t’i jami na një trim,
se ë kjo vashez malli im.
(Çifti )
Ninna nanna le fa mamma,
la mariteremo a Mormanno.
Ninna nanna le fa il papà,
la mariteremo a San Donato.
Ninna nanna le fa la zia,
la mariteremo a Pizziglia.
Ma no, no, che non va bene,
dobbiamo maritarla qui in paese.
Le daremo in sposo un cavaliere,
perché questa bimba non ha uguali.
Le daremo in sposo un galantuomo,
perché questa bimba se lo merita.
Le daremo in sposo un giovane di valore,
perché questa bimba é il mio amore.
(Civita)

 

Appare chiaro il riferimento al desiderio di maritare la fanciulla.
I testi che abbiamo letto e commentato (un piccolissimo stralcio) possono essere ritenuti chiavi di lettura di una cultura.



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