Atti del Quarto Convegno Nazionale
Culture e letteratura della migrazione - "Città identità culture"

Ferrara 15 - 16 aprile 2005

 

 

Città, identità, culture
Di Valentina Acava Mmaka

Intervista a più voci sulla quarta edizione del convegno "Culture e letteratura della migrazione". Le risposte di Alessandro Ghebreigziabiher, Tahar Lamri, Helene Paraskeva, Marta Niccolai, Paolo Trabucco

( Pubblicato su Librialice.it il 12 aprile 2005: (http://www.librialice.it/news/primo/conv_migrazione.htm)

 

 

Tahar Lamri

Alessandro Ghebreigziabiher

Helene Paraskeva

Marta Niccolai

 

E’ giunto al quarto anno il Convegno Nazionale di Culture e letteratura della migrazione. L’evento realizzato dal CIES, Vocidalsilenzio; Associazione Cittadini del mondo, in collaborazione con il Comune e la Provincia di Ferrara, come ogni anno segue la traccia di un tema che in questo 2005 è Città identità culture.

La riflessione intesa dagli organizzatori  verte sul ruolo che oggi ha la città come luogo non-luogo dove convivono identità culturali diverse, talvolta senza incontrarsi, senza parlarsi, senza scambiarsi, senza passare attraverso quella metamorfosi che sta alla base di ogni processo di relazione.

La città con la sua pretesa centralità e le sue più o meno marginali periferie, le sue barriere e divisioni, una realtà spaziale protesa tra il desiderio di ascesa e il limite che la sua eterogeneità stessa implica, diventa teatro comune di una umanità varia e complessa. Un teatro dove gli “attori”, sullo sfondo di una scenografia ibrida, sono chiamati a contribuire alla stesura di una sceneggiatura della quotidianità capaci di far tesoro di quella ineluttabile mappa culturale fatta di lingue, tradizioni, emozioni, idee. Premessa questa che guarda alla realizzazione di un progetto etico interculturale che faccia della città un luogo di prospettive differenziate dove si possa compiere l’esperienza vitale del meticciato, non il centro di una sola identità riconoscibile bensì di una pluralità di espressioni ed esperienze identitarie capaci di rappresentare e testimoniare il tempo di cui sono espressione.

  

D.  Ogni anno il Convegno segue le tracce di un tema, questa quarta edizione è incentrata su “Città, Identità, Culture”. Tale scelta  allude ad uno sguardo sull'attuale metamorfosi della realtà urbana sempre più "luogo" di incontro tra culture diverse?

PAOLO TRABUCCO (organizzatore del convegno)

Quello  della città e delle sue interconnessioni sociali e culturali è un tema quanto mai attuale e, per certi versi, perfino abusato. La metropoli appare spesso rappresentata come metafora di una modernità aggressiva e alienante, che induce l’individuo allo spaesamento, all’isolamento, alla perdita di identità. Oggi, la realtà metropolitana, quella che è sotto gli occhi di tutti, si sta  modificando  ulteriormente: non solo le grandi città, ma anche i piccoli centri di provincia dei paesi occidentali si stanno trasformando  in luogo di attrazione di migliaia di individui  di diversa provenienza,  con mondi, memorie,  lontani e  diversi alle spalle. Si creano così le premesse  per inedite  mescolanze di storie, lingue, identità, culture.

Seguendo  le suggestioni  seminate dallo studioso  Iain Chambers, rivisitando le città come nuovi   “paesaggi migratori” si potrebbe pensare a una diversa   idea dello spaesamento:  una sorta di  inedito  spazio aperto nel quale le radici di ciascuno di noi sono messe in discussione; ma anche uno spazio critico nel quale prendere coscienza di come le culture, i linguaggi, le storie individuali e collettive sono qualcosa  in continua elaborazione, da rileggere  nel confronto costante con l’altro e con l’altrove, per fare di ogni identità non un punto di arrivo, ma un punto di partenza

D.  Ferrara città di provincia, in che modo gli immigrati - i migranti hanno contribuito a valorizzare l'identità cittadina?

Quello che mi sento di poter dire in proposito è che Ferrara è una città che per  caratteristiche geografiche e socio-economiche si pone ai margini dei grandi flussi migratori. Tuttavia negli ultimi anni la presenza di immigrati si è fatta anche qui  crescente. Questo nuovo dinamismo sociale, l'apertura della città a suoni e colori diversi,   sembra di tanto in tanto  poter sospingere   la “grande nave di pietra rossa” al di là della sua statuaria  immobilità.  

Sono molti i luoghi della città che stanno mutando aspetto. Chi si recasse ai giardini del centro nelle prime ore del pomeriggio potrebbe pensare di trovarsi in una città albanese o bosniaca, tante sono le donne dell'est europeo che vi si ritrovano,  nei loro momenti di pausa dall'attività di badante, sotto lo sguardo attento del monumento a  Garibaldi. Il grattacielo, l'unico della città, simbolo ormai sgualcito della prosperità del boom economico degli anni Sessanta, si è trasformato in una piccola babele multilingue e multicolore: interessante laboratorio sociale di una nuova forma di convivenza per chi lo sa osservare con ottica lungimirante; pretesto per richiamare la retorica dell'immigrazione solo come problema di ordine pubblico per chi si ostina a chiudere gli occhi e a conservare le frontiere e i confini dentro la propria testa.   

Indubbiamente con l'aumento del numero di donne, uomini e bimbi stranieri  sono cresciute  le esigenze di trovare forme di accoglienza che  rispondessero a bisogni  urgenti (casa, lavoro..), ma che  segnassero  anche la strada per una piena  integrazione  di questi nuovi cittadini, offrendo loro pari diritti e opportunità e positivi modelli di convivenza.

Proprio la presenza d immigrati, tra i più indifesi nei confronti di forme di discriminazione e sfruttamento, ha stimolato la nascita e la crescita di associazioni, alcune delle quali formate da stranieri,  che offrono importanti servizi per quanto riguarda il lavoro, la mediazione scolastica, l'informazione e l'assistenza per gli iter burocratici e amministrativi,  che  creano  momenti di socializzazione e scambio culturale oltre che  stimolare l'intervento delle  istituzioni sui temi del diritto di cittadinanza.

Nella nostra città queste forme di  associazionismo di base, nate e sviluppate per rispondere a delle emergenze sociali, mai del tutto superate,  rappresentano un valore aggiunto di democrazia, svolgendo  una funzione insostituibile nel  mantenere vigile l'attenzione nei confronti di ogni forma di discriminazione e sfruttamento, rappresentando dunque un ulteriore avamposto  a difesa  dei diritti di tutti.

  

D. Dovendo tracciare una mappa della tua identità, quale o quali sono state le città che hanno concorso alla formazione del tuo patrimonio identitario?

 

TAHAR LAMRI

 

La città che mi ha segnato indelebilmente è ovviamente Algeri, la mia città natale, ma nella quale posso dire che ormai ho passato meno tempo lì che altrove. Poi si sono susseguite le città in me – Bengasi, Il Cairo, Tunisi, Casablanca, Parigi, Londra, Bombay… fino al mio approdo a Ravenna, dove vivo stabilmente dal 1987. Una città a mio avviso concorre alla formazione del patrimonio identitario quando possiamo decifrarla, parlarne la lingua architettonica e ambientale e in un certo senso sentirne il profumo e l’odore, o meglio farci investire da questo profumo, da questo odore. Le città natie hanno questa caratteristica. Le altre mi hanno investito rimanendo “altre”.

 

 ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER

 

Credo che, rispondendo solo a questa prima domanda, emerga in maniera significativa quanto il mio cammino sia stato immerso fin dall'inizio in una logica interculturale.   In prima istanza vi sono le città d'origine dei miei genitori. Asmara, in Eritrea, mio padre, e Napoli, mia madre.  Io sono nato a Napoli ma, dopo neanche due anni, ci siamo trasferiti a Roma. Tuttavia i loro racconti su queste due località, così diverse in tradizioni e stili di vita, ma contemporaneamente piene di inaspettate somiglianze in sentimenti ed emozioni, vero indiscutibile ponte tra le razze, si sono depositati nella mia immaginazione di bambino con la semplicità e l'armonia che solo quell'età permette. Indubbiamente, poi, sia Napoli, che soprattutto Roma, hanno nel tempo guadagnato la mia attenzione grazie al confronto di tutti i giorni con la gente, i parenti, gli amici, in quell' incessante gioco degli specchi che è fatto di verbale e non verbale, linguaggi e codici generazionali, posture ed atteggiamenti, prepotentemente attraenti nel periodo adolescenziale

 

HELENE PARASKEVA

 

 Sono nata ad Atene, vivo a Roma e ho studiato a Manchester. Ho avvertito le assonanze culturali  della “culla della civiltà”,  della “patria del Diritto” e della “terra della rivoluzione industriale” e mi sembra di conoscere, in qualche modo, le loro dimensioni reali. Ma è la periferia che mi rappresenta veramente, parlo della periferia urbana come luogo esistenziale.  

 

D.    Nella tua esperienza è la città ad averti scelto o sei tu ad averla scelta? In che misura la città determina o ha determinato la tua percezione della realtà nel quotidiano?

 

TAHAR LAMRI

 

Mi considero profondamente metropolitano e non potrei vivere in campagna, ma in questo non ho mai scelto io, ma sono lasciato scegliere dalle città in cui ho vissuto e ho camminato. Ma non saprei dire come la città ha determinato la mia percezione del quotidiano, perché tutto si è svolto naturalmente. Non ho mai avuto l’esperienza del “barbaro” Droctulft del racconto di Borges, che voleva conquistare la città e finì per esserne conquistato, in quanto non mi sono mai posto in questi termini.

 

 ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER

 

La mia esperienza immagino sia peculiare, in quanto a Roma, intorno alla fine degli anni settanta e primi anni ottanta, l'immigrazione in Italia era un fenomeno ancora giovane e non era così consueto incontrare un afro-italiano. Ricordo benissimo che  dall'asilo, passando per le elementari, fino alle medie e superiori, sono sempre stato l'unico studente con la carnagione più scura del solito, con tutto quello che ciò comporta, nonostante la mia carta d'identità dichiarasse la mia presunta italianità.

Dico presunta poiché per i miei coetanei, e non solo, ero Italiano nel momento in cui parlavo e, forse, neanche bastava. Figuriamoci romano o napoletano. E per questo che credo di aver scelto io la città, le città, come riferimento. Roma è dove vivo, dove ho conosciuto le persone a me care, dove è nato mio figlio, Napoli rappresenta sicuramente la mia passione per il teatro e per l'affabulazione, ed Asmara, l'Eritrea, è indubbiamente nel mio sangue, nel mio istinto, nella mia fisicità, nella mia energia vitale. O magari il tutto si mescola contraddittoriamente, a mia insaputa.

 

 HELENE PARASKEVA

 

Atene e Manchester hanno scelto me. Sono nata nella prima e ho studiato nella seconda, grazie ad una borsa di studio.  Roma l’ho scelta e la vivo volentieri ogni giorno. Ovviamente, non è una tranquilla cittadina e devi essere “armato” di grinta  anche solo per andare a prendere un cappuccino al bar : devi farti rispettare nella fila davanti alla cassa, guadagnare il tuo spazio senza esagerare davanti al bancone,  salutare con voce sufficientemente alta per farti rispondere ma non troppo alta, altrimenti attiri l’attenzione, bere il cappuccino mostrando che hai gradito oppure non, senza strafare ma con determinazione, un gioco di sguardi e sorrisi riservati. E sono solo le sette le mezza di mattina, hai tutta la giornata davanti a te… Quindi, la città è la mia realtà.      

  

D.  Possiamo definire la  città come mappa “topografica “ della nostra anima?

 

 TAHAR LAMRI

Non lo so. So soltanto che le città sono abitate e animate da persone che a loro volta sono animate dalla città, dall’urbe. Mi piace il senso di “cittadino” insito in questa parola. Ma come “mappa” specchio dell’anima non ci ho mai pensato anche perché non considero la città come labirinto, ciò che potrebbe esserlo una Casbah o una medina. Quindi non so rispondere a questa domanda.

 

 ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER

 

Dipende, a mio modesto parere, per cosa s'intenda per città. Se parliamo di luogo, spazi, riferimenti culturali e storici, credo di no. Almeno penso non funzioni così per il sottoscritto. Nel mio caso ritengo che la mia anima, se ne possiedo una, sia stata finora scritta dalle emozioni e i sentimenti che mi hanno attraversato negli anni, sfiorando o, più intensamente, toccando la vita degli altri, come il viceversa. E, spesso, essi mi ricordano 'la mia città molto più di altro.     

 

 HELENE PARASKEVA

 

Sì, sono d’accordo. La “mappa topografica dell’anima” io la chiamo “luogo esistenziale”.

 

 

D.    Nella tua esperienza in che modo i luoghi delle tue origini costituiscono un legame con il luogo che hai scelto di vivere?

 

 

TAHAR LAMRI

 

A pensarci bene non esiste alcun legame fra i miei luoghi d’origine e il luogo dove ora vivo. In questo momento sto sentendo i battiti di un campanile, e i miei luoghi d’origine erano scanditi dal muezzin. Questa fa un’enorme differenza. Ma il legame non è necessario per stabilirsi in un dato luogo.

 

 ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER

 

Nella prima parte della mia vita, nell'infanzia, credo di aver osservato quanto ciò avvenga tramite le persone, attraverso l'incontro. Quello di mia madre e mio padre, ad esempio, quello tra i loro rispettivi parenti, il modo in cui essi hanno interagito, davanti ai miei occhi, con l'ambiente estraneo, e così via.  Col tempo sono felice di aver trovato nella scrittura una strada meravigliosa per collegare tra loro, come in una coreografia, i pezzi danzanti dei luoghi della mia vita.

 

HELENE PARASKEVA

 

Sono come i due poli dell’altalena. Vivo a Roma e mi manca il vento selvaggio di Atenee quando finalmente vado lì , non vedo l’ora di tornare per risentire un “frizzico de (sic) Roma”. 

 

 

D.     Esiste una città del migrante diversa da quella del cittadino autoctono? Senza dubbio nella grande città si assiste ad  una divisione spaziale del territorio urbano che definisce la comunità presente in base a parametri economici ma anche culturali.  Credi che ci sia il rischio di una ghettizzazione più marcata o la città del futuro ha speranza di raggiungere un modello dove l’eterogeneità costituisca un plusvalore e non una barriera, un  elemento di frontiera?

 

 TAHAR LAMRI

 

A costo di dire un’assurdità, direi che non esiste La Città. Ogni città è un insieme di agglomerati, di quartieri che poi formano la città. L’immigrato è per definizione atopos, senza luogo, anche fisico, quindi a mio avviso non importa se abiti i quartieri alti o quelli bassi. E’ sempre fuori luogo. La divisione spaziale del territorio prescinde dallo stato migrante. Si mette spesso l’accento sulla presenza di immigrati in certi quartieri ma si dimentica che questi stessi quartieri sono abitati da emarginati e basta. Un po’ come nella nota canzone del cantante belga Jacques Brel sugli anziani che dice “I vecchi anche se vivono a Parigi, vivono sempre in provincia”

Le città sono intrinsecamente costruite per mantenere le barriere ed il rischio di ghettizzazione in una società mercantile è inevitabile.

 

 ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER

 

Rispondendo alla prima parte della domanda, credo di sì. Indubbiamente i comprensibili bisogni di condivisione, di identificazione, di semplice aiuto reciproco, portano il migrante a 'fare città' con i propri connazionali, come avviene in ogni parte del mondo ed è riconoscibile in ogni epoca.  Sulla seconda parte della domanda credo che stia a noi far sì che vada in un modo o nell'altro, dipende da noi, Italiani, immigrati, oriundi, persone, insomma. E' una scommessa che si gioca ogni giorno, ogni volta che incontriamo qualcuno 'altro' da noi.

  

HELENE PARASKEVA

 

Ogni giorno, il migrante deve “conquistare” la nuova città, deve conoscere i suoi linguaggi, i codici, i gesti significativi, i modi di dire, i segni e i segnali segreti, a cominciare dal bar, presto la mattina. Questo impegno quotidiano arricchisce il migrante. Per l’autoctono l’apprendimento è inconsapevole, come quello della lingua madre prima di andare a scuola. Se il migrante un giorno si arrendesse e smettesse di voler imparare e conoscere la città, allora si fossilizzerebbe, si lascerebbe emarginare.

Ma anche la Città deve “dare” al migrante, ci deve essere un rapporto di mutuo scambio. La multiculturalità esiste, è un dato di fatto neutrale e innegabile, né un bene, né un male. Per diventare un valore ci devono essere altri due elementi, anzi tre:

l’interculturalità, cioè il rapporto-scambio reciproco fra culture diverse, la transculturalità, la consapevolezza che ognuno di noi (migrante o autoctono) è portatore di cultura e la volontà reciproca di decostruire, cioè discutere insieme i valori e costruirne nuovi, accettati da entrambi. Non dico buttare via tutto, dico: prima mettiamoci in discussione e troviamo valori che stiano bene ad entrambi. Ma per fare questo bisogna prima “raccontarci”.

Nel frattempo, però, la città reale non ci deve sfuggire, non deve diventare un groviglio di tangenziali e circonvallazioni che scorrono intorno ad un sarcofago chiamato “centro storico”. Manca il “Forum”, l’ “Agorà”, come luogo reale. La città del futuro la costruirei come un’ “Agorà” di reciprocità, con tanti spazi per l’accoglienza, l’incontro, la discussione, l’accettazione, la narrazione...

 

 

D.    La città europea del 2005  è lo specchio di un mondo in movimento, persone che si spostano, emigrano, immigrano. Il volto di un mondo multiculturale in continua trasformazione. Come vive gli spazi urbani un immigrato oggi rispetto a 20 anni fa?

 

TAHAR LAMRI

 

Rispetto a 20 fa l’unica differenza che vedo è nei volumi: ci sono più stranieri e forse gli sguardi non sono più insistenti. L’immigrato, dipende dal progetto individuale di ciascuno ovviamente, è spesso indifferente alla città nella quale vive se la considera una tappa per un definitivo ritorno al paese oppure può considerarla ostile o peggio opprimente. Per quelli invece che intendono stabilirsi definitivamente nella città o nel luogo di approdo, direi che ci può essere una specie di formazione che passa dalla decostruzione in sé della città alla sua ricostruzione assieme al ricostruzione di un Io una identità più atta a leggere e decifrare questi nuovi spazi.

 

ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER

 

Facendo riferimento alla città di Roma credo che molte cose siano cambiate, in meglio, penso. Sicuramente ha aiutato la presenza sempre più crescente di persone di nazionalità le più varie e la capitale è storicamente un polo multiculturale, aperto alla diversità, anche se nella sua storia talvolta se ne è dimenticata. Da quello che vedo, la maggiore diffusione dell'inglese ha reso la comunicazione più facile e questo non è un cambiamento da niente. 

 

 

HELENE PARASKEVA

 

Scrissi alcuni racconti del “Tragediometro... anche dieci o quindici anni fa e faccio il confronto fra adesso e allora ponendomi la domanda: in che modo la città è cambiata? L’unica pratica superata è che oggi non è più necessario recarsi alla Circoscrizione per un certificato. Ma per il resto? Mi chiedo e vi chiedo: che fine hanno fatto i pregiudizi, gli stereotipi, il razzismo di allora?

 

 

D.     In un bel libro Italo Calvino descrive le città invisibili, città dietro la cuiiconografia si celano nuovi simboli e significati. Ci sono più modi di “leggere” una città, come leggi la tua città?

 

 

TAHAR LAMRI

 

Spero con meraviglia e stupore ogni giorno per poter cogliere angoli, luce, spazi…

 ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER

Sarà forse una deformazione professionale, in quanto - a parte lo scrivere - lavoro come teatro-terapeuta ed animatore sociale ma la mia lettura del mondo che mi circonda passa inevitabilmente attraverso l'osservazione del modo di muoversi e di camminare delle persone che incontro, delle espressioni dei loro visi, delle emozioni che esprimono con essi e con i gesti. Ma soprattutto con il linguaggio, il dialetto, lo slang e i codici nascosti in esso. Immagino che si evinca, e lo spero, che città per me vuol dire gente, persone, umanità. 

 

 

HELENE PARASKEVA

 

A proposito delle “Città invisibili” di Calvino, quella che più m’intriga è Isaura, dove “un paesaggio invisibile condiziona quello visibile”.   

Nel mio racconto “Nella città degli Imperatori” (Antologia Pubblica 2005, Faraeditore) la Città ha i suoi “simboli e significati” che un po’ scaturiscono dalle traccia lasciate dalla Storia e un po’ nascono dal modo in cui la quotidianità digerisce e interpreta queste impronte. È una spiegazione plausibile del rapporto fra paesaggio visibile e invisibile.  

Prendiamo come esempio la Bocca della Verità, monumento popolare incluso in tutti gli itinerari turistici. In realtà, si tratta del coperchio di un pozzetto fognario antico che diventa uno dei pochi monumenti interattivi. È il frammento di una civiltà antica seminascosto nel deserto della città moderna, che, come la statua parlante di Ozymandias nell’omonima poesia di P.B. Shelley, assume valenze distinte, forse contraddittorie: l’allegoria del rischio che comporta la ricerca della verità e il divertimento puro e semplice, da Luna Park.

“Nella città degli Imperatori” c’è anche un'altra interpretazione del rapporto fra paesaggio visibile e invisibile, palese ma nascosta, che lascio scoprire al lettore. 

 

 

 

D. In questa edizione delle giornate del Convegno avrà luogo la performance  teatrale AND THE CITY SPOKE, uno spettacolo a  più voci realizzato da Jennifer Langer e Marta Niccolai. Cosa ha determinato questa scelta? Il teatro in tal senso può essere visto come metafora della città multietnica, pluri -identitaria?

 

PAOLO TRABUCCO

 

La performance teatrale “And the city spoke”, ideata da Jennifer Langer e Marta Niccolai, affidata alla regia di Ernst Fisher, è il frutto di un progetto promosso dall’ associazione inglese, “Exiled Writers Ink”. Come Cies-Ferrara abbiamo partecipato volentieri a questo progetto, viste le consonanze di interessi  tra le due associazioni, che si occupano di letteratura della migrazione. Il progetto prevede l’incontro,  lo scambio delle  esperienze, ma anche della sensibilità e dei linguaggi,  di scrittrici  e scrittori  migranti che risiedono in diversi paesi europei: Inghilterra, Belgio, Polonia e Italia. Gli autori sono stati invitati a incontrarsi e a portare ciascuno un contributo personale intorno al tema del rapporto tra la città e l'esperienza, concreta o simbolica, della migranza. Dalla   messa in circolo di questi contributi è nato lo spettacolo “And the city spoke”.
Abbiamo  voluto  portare gli esiti di questa interessante esperienza, già rappresentata a Londra e Varsavia, anche a Ferrara, realizzando questa “apertura europea”, perché la riteniamo  particolarmente in sintonia con lo spirito del nostro convegno.  Crediamo che la scelta della performance teatrale, per la peculiarità  delle sue caratteristiche espressive, e  per le particolari modalità con cui questa esperienza è stata pensata e realizzata,  sia  adatta a rappresentare, attraverso  le forme comunicative piuttosto immediate del linguaggio teatrale,  da un lato, come dici tu, una efficace metafora della città multietnica, pluriidentitaria, dall’altro la disponibilità e lo sforzo di ricerca   per  intrecciare le propria storia, la propria cultura, i propri linguaggi con le storie, le culture, i linguaggi degli altri.

 

D. Come nasce l'idea di realizzare lo spettacolo AND THE CITY SPOKE?

 

 

MARTA NICCOLAI

 

 

Lo spettacolo è stato concepito e sviluppato all'interno di un'organizzazione che si chiama Exiled Writers Ink, il cui scopo è di promuovere poesia e scrittura creativa per i rifugiati e gli esiliati in Inghilterra. Jennifer Langer, direttrice dell'organizzazione (ONG), aveva questa idea di mettere insieme le voci di emigrati o rifugiati di più paesi, e la città è sembrato un legame ovvio con i loro sentimenti e pensieri in relazione all'Europa. L'idea è nata anche dalla consapevolezza che ogni qualvolta c'è un consiglio europeo per discutere "la questione immigrati, o extraeuropei", è sempre l'Europa che parla e scrive, mai l'Altro.

 

Quali sono le caratteristiche dello spettacolo e in base a quali criteri avete scelto gli autori?

 

Abbiamo chiesto ad alcuni che erano nel data base di EWInk. Fin dall'inizio, lo spettacolo avrebbe avuto partecipanti dal Belgio, dalla Polonia, e dall'Italia, due per ogni paese. Questa collaborazione è stata possibile per conoscenze mie e di Jennifer. Abbiamo inviato loro la tematica con descrizione di cosa dovevano descrivere e la lunghezza. i tempi e i dettagli non sono stati molto rispettati quindi alcuni hanno prodotto a seconda della richiesta, altri hanno riciclato, ma infine ci siamo rese conto che ovunque negli scritti si esprimeva il conflitto tra la cultura interna e quella nuova, o il ricordo del paese di origine, insomma il dualismo era presente in una forma o nell'altra.

Nessuno di loro è attore professionista e qui abbiamo rischiato, ma volevamo che fosse lo scrittore  stesso a rappresentare i propri sentimenti. Poi c'era il grosso problema della lingua, in quanto alcuni non parlavano inglese per niente, quindi c'era bisogno di traduzione, ma non volevamo dare troppa voce all'europeo, anche se era una voce che permetteva all'Altro di farsi sentire e vedere.

Quindi abbiamo sì usato traduzioni simultanee, ma anche proiezioni di testi, e in certi punti, pannelli esposti da comparse sulla scena, o voci fuori campo. Il regista è stato encomiabile perché in pochissimi giorni ha messo insieme gente non professionista che non si era mai vista prima, ed ha racchiuso il tutto in una forma 'sequenziale', perché interazioni non potevano esserci a causa delle lingue diverse. Più o meno poetici, più o meno discorsivi, i testi, come già detto, esprimono tutti presenza e assenza, del proprio paese, del dialogo e scambio con l'europeo, della cultura diversa che si scontra con la propria, e la propria che deve ritirarsi in un interno, personale, non visto, perché bisogna diventare Altri.

D. In che misura la città apporta un contributo alla formazione identitaria dei suoi cittadini migranti

 

MARTA NICCOLAI

 

Penso che la risposta alla città e all'identità riprenda un po' quanto detto sopra, quel movimento interiorizzato di espansione e contrazione, molto interiorizzato, che non necessariamente si porta con sé obiezioni, anzi c'è la comprensione della necessità di 'alterarsi', ma alla fine la città ...che cos'è la città? è lo scambio tra persone, è cultura e memoria culturale e la diversità isola, lo scambio è assente. però città europea vuol dire anche opportunità, come nel caso di Soheila, che ne evidenzia l'importanza in rapporto alla sua voglia di libertà, mentre Bashir ironizza sulle differenze culturali che causano malintesi; Simon e Tahar mettono l'accento sui diritti umani, e mentre Simon lo fa in un modo più fantascientifico, Tahar lo poetizza con l'incontro di bambini morti che hanno subito l'ingiustizia di essere nati nel Sud del mondo; per Lola invece è l'incontro con la comunità e i suoi pregiudizi, ma nella constatazione delle differenze, Lola trova uno spazio e uno scambio.

 

D. Tahar ci vuoi parlare di questo progetto, come nasce e come sei entrato a farne parte?

 

TAHAR LAMRI

Questa “performance” che è un vero e proprio spettacolo teatrale nasce da un’idea di Marta Niccolai e Jennifer Langer, della rivista Exiled Ink!. Sono stati raccolti diversi autori migranti (migrant writers, per dirla in inglese) residenti in alcuni paesi europei ( Italia – Belgio – Gran Bretagna – Polonia), attorno a un regista tedesco, Ernst Fischer, che ha costruito a partire da questi testi uno spettacolo teatrale e ha vinto, a mio avviso, la sfida di far diventare questi autori, veri e propri attori. Sono entrato a farne parte grazie a Marta Niccolai che ho incontro durante i lavori del Convegno di Ferrara, l’anno scorso.

 

D.     Tu sei anche autore di testi teatrali, ti identifichi con l’immagine del teatro che diventa metafora della città multietnica, luogo di relazione, un luogo che può essere costruito con l’apporto di tutti?

 

Sì assolutamente. Il teatro ha questa forza, volevo dire missione. Solo che il teatro va al di là del multietnico e l’interculturale, costruisce il meticciato. E’ quasi un’utopia. Ma il teatro riesce a realizzarla, perché il teatro è una biblioteca, quindi l’universo, e nelle biblioteche convivono le lingue, le religioni …

 

D. Paolo com'è nella tradizione delle giornate ferraresi, gli studenti delle scuole superiori saranno  protagonisti. Con la loro presenza, riconfermate l'impegno a creare un luogo privilegiato dove le nuove generazioni e gli scrittori possano incontrarsi definendo possibili tracce di dialogo e scambio tra percorsi identitari diversi?

 

PAOLO TRABUCCO

 

Quello di dedicare le giornate del convegno a un pubblico così speciale come quello degli studenti è rimasto, in questi quattro anni, un nostro obbiettivo prioritario ed è sempre più un tratto distintivo del convegno stesso.
Crediamo molto nella potenzialità educative dell’ l’incontro tra percorsi culturali e identitari diversi. La scuola, che essenzialmente si fonda su relazione e cultura, è un luogo privilegiato in cui proporre questo tipo di esperienza. In questi anni, durante le fasi preparatorie del convegno, abbiamo cercato di favorire il più possibile nelle scuole gli interventi di mediazione interculturale e le occasioni di incontro tra scrittori migranti e studenti. L'incontro diretto, la conoscenza reciproca, lo scambio di esperienze sono i veicoli attraverso i quali si può tentare di sradicare pigrizie concettuali e stereotipi che pongono la figura del migrante ai margini di ogni fenomeno sociale e culturale. Fino ad ora l’impegno da noi profuso in questa direzione ha trovato una straordinaria rispondenza nell’interesse e nell'impegno con il quale gli studenti e gli insegnanti hanno accompagnato le diverse edizioni del nostro convegno. Ne sono testimonianza i tanti lavori prodotti nelle scuole sui temi dell’interculturalità e della letteratura della migrazione, che noi sistematicamente raccogliamo negli atti del convegno e pubblichiamo sul sito “Voci dal silenzio”.


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