Atti
del Quarto Convegno Nazionale Ferrara 15 - 16 aprile 2005 |
Città,
identità, culture Di Valentina Acava Mmaka |
Intervista a più voci sulla quarta edizione del convegno "Culture e letteratura della migrazione". Le risposte di Alessandro Ghebreigziabiher, Tahar Lamri, Helene Paraskeva, Marta Niccolai, Paolo Trabucco
( Pubblicato su Librialice.it il 12 aprile 2005: (http://www.librialice.it/news/primo/conv_migrazione.htm)
Tahar Lamri |
Alessandro Ghebreigziabiher |
Helene Paraskeva |
Marta Niccolai |
E’
giunto al quarto anno il Convegno Nazionale di Culture e letteratura
della migrazione. L’evento realizzato dal CIES,
Vocidalsilenzio; Associazione Cittadini del
mondo, in collaborazione con il Comune e La
riflessione intesa dagli organizzatori
verte sul ruolo che oggi ha la città come luogo non-luogo dove
convivono identità culturali diverse, talvolta senza incontrarsi, senza
parlarsi, senza scambiarsi, senza passare attraverso quella metamorfosi
che sta alla base di ogni processo di relazione. La
città con la sua pretesa centralità e le sue più o meno marginali periferie,
le sue barriere e divisioni, una realtà spaziale protesa tra il desiderio
di ascesa e il limite che la sua eterogeneità
stessa implica, diventa teatro comune di una umanità varia e complessa.
Un teatro dove gli “attori”, sullo sfondo di una scenografia ibrida,
sono chiamati a contribuire alla stesura di una sceneggiatura della
quotidianità capaci di far tesoro di quella ineluttabile
mappa culturale fatta di lingue, tradizioni, emozioni, idee. Premessa
questa che guarda alla realizzazione di un progetto etico interculturale
che faccia della città un luogo di prospettive differenziate dove si possa compiere l’esperienza vitale del
meticciato, non il centro di una sola identità
riconoscibile bensì di una pluralità di espressioni ed esperienze identitarie capaci di rappresentare e testimoniare il tempo
di cui sono espressione. D. Ogni anno il Convegno segue
le tracce di un tema, questa quarta edizione è incentrata su
“Città, Identità, Culture”. Tale scelta
allude ad uno sguardo sull'attuale metamorfosi
della realtà urbana sempre più "luogo" di
incontro tra culture diverse? PAOLO TRABUCCO (organizzatore del
convegno) Seguendo le suggestioni seminate dallo studioso Iain Chambers, rivisitando le città come nuovi “paesaggi migratori” si potrebbe pensare a una diversa idea
dello spaesamento:
una sorta di inedito spazio aperto nel quale le radici di ciascuno
di noi sono messe in discussione; ma anche uno spazio critico nel quale
prendere coscienza di come le culture, i linguaggi, le storie individuali
e collettive sono qualcosa in
continua elaborazione, da rileggere
nel confronto costante con l’altro e con l’altrove, per fare
di ogni identità non un punto di arrivo, ma un punto di partenza D. Ferrara città di provincia, in che modo gli immigrati - i migranti hanno contribuito a valorizzare
l'identità cittadina? Sono molti
i luoghi della città che stanno mutando aspetto. Chi si recasse ai giardini
del centro nelle prime ore del pomeriggio potrebbe
pensare di trovarsi in una città albanese o bosniaca, tante sono le
donne dell'est europeo che vi si ritrovano,
nei loro momenti di pausa dall'attività di badante, sotto lo
sguardo attento del monumento a Garibaldi.
Il grattacielo, l'unico della città, simbolo ormai sgualcito della prosperità
del boom economico degli anni Sessanta, si è trasformato in una piccola
babele multilingue e multicolore: interessante laboratorio sociale
di una nuova forma di convivenza per chi lo sa osservare con ottica
lungimirante; pretesto per richiamare la retorica dell'immigrazione
solo come problema di ordine pubblico per chi
si ostina a chiudere gli occhi e a conservare le frontiere e i confini
dentro la propria testa. Indubbiamente
con l'aumento del numero di donne, uomini e bimbi stranieri sono cresciute le esigenze di trovare forme di accoglienza che rispondessero
a bisogni urgenti (casa, lavoro..),
ma che segnassero anche la strada per una piena integrazione
di questi nuovi cittadini, offrendo loro pari diritti e opportunità
e positivi modelli di convivenza. Proprio
la presenza d immigrati, tra i più indifesi nei confronti di forme di
discriminazione e sfruttamento, ha stimolato la nascita e la crescita
di associazioni, alcune delle quali formate da stranieri,
che offrono importanti servizi per quanto riguarda il lavoro,
la mediazione scolastica, l'informazione e l'assistenza per gli iter
burocratici e amministrativi, che creano
momenti di socializzazione e scambio culturale oltre che
stimolare l'intervento delle
istituzioni sui temi del diritto di cittadinanza. Nella
nostra città queste forme di
associazionismo di base, nate e sviluppate per rispondere
a delle emergenze sociali, mai del tutto superate, rappresentano un valore aggiunto di democrazia,
svolgendo una funzione insostituibile
nel mantenere vigile l'attenzione
nei confronti di ogni forma di discriminazione e sfruttamento, rappresentando
dunque un ulteriore avamposto a
difesa dei diritti di tutti.
D. Dovendo tracciare una mappa della tua identità, quale o quali sono
state le città che hanno concorso alla formazione del tuo patrimonio
identitario? TAHAR LAMRI La città che
mi ha segnato indelebilmente è ovviamente Algeri, la mia città natale,
ma nella quale posso dire che ormai ho passato meno tempo lì che altrove.
Poi si sono susseguite le città in me – Bengasi,
Il Cairo, Tunisi, Casablanca, Parigi, Londra, Bombay… fino al mio approdo
a Ravenna, dove vivo stabilmente dal 1987. Una città a mio avviso concorre
alla formazione del patrimonio identitario quando possiamo decifrarla, parlarne la lingua
architettonica e ambientale e in un certo senso sentirne il profumo
e l’odore, o meglio farci investire da questo profumo, da questo odore.
Le città natie hanno questa caratteristica. Le altre mi hanno investito
rimanendo “altre”. Credo che,
rispondendo solo a questa prima domanda, emerga in maniera significativa
quanto il mio cammino sia stato immerso fin dall'inizio in una logica
interculturale. In prima istanza vi sono le città d'origine dei miei genitori. Asmara,
in Eritrea, mio padre, e Napoli, mia madre. Io sono nato a Napoli ma, dopo neanche due anni,
ci siamo trasferiti a Roma. Tuttavia i loro racconti su queste due località,
così diverse in tradizioni e stili di vita, ma contemporaneamente piene
di inaspettate somiglianze in sentimenti ed
emozioni, vero indiscutibile ponte tra le razze, si sono depositati
nella mia immaginazione di bambino con la semplicità e l'armonia che
solo quell'età permette. Indubbiamente, poi, sia Napoli, che soprattutto
Roma, hanno nel tempo guadagnato la mia attenzione grazie al confronto
di tutti i giorni con la gente, i parenti, gli amici, in quell' incessante
gioco degli specchi che è fatto di verbale e non verbale, linguaggi
e codici generazionali, posture ed atteggiamenti, prepotentemente attraenti
nel periodo adolescenziale D.
Nella tua esperienza è la città ad
averti scelto o sei tu ad averla scelta? In che misura la città determina
o ha determinato la tua percezione della realtà nel quotidiano? TAHAR LAMRI Mi considero
profondamente metropolitano e non potrei vivere
in campagna, ma in questo non ho mai scelto io, ma sono lasciato scegliere
dalle città in cui ho vissuto e ho camminato. Ma
non saprei dire come la città ha determinato la mia percezione del quotidiano,
perché tutto si è svolto naturalmente. Non ho mai avuto l’esperienza
del “barbaro” Droctulft del racconto di
Borges, che voleva conquistare la città
e finì per esserne conquistato, in quanto non
mi sono mai posto in questi termini. La mia esperienza
immagino sia peculiare, in quanto a Roma, intorno alla fine
degli anni settanta e primi anni ottanta, l'immigrazione in Italia era
un fenomeno ancora giovane e non era così consueto incontrare un afro-italiano. Ricordo benissimo che dall'asilo, passando per le elementari, fino
alle medie e superiori, sono sempre stato l'unico studente con la carnagione
più scura del solito, con tutto quello che ciò comporta, nonostante
la mia carta d'identità dichiarasse la mia presunta italianità. Dico presunta poiché per i miei coetanei,
e non solo, ero Italiano nel momento in cui parlavo e, forse, neanche
bastava. Figuriamoci romano o napoletano. E per questo
che credo di aver scelto io la città, le città, come riferimento.
Roma è dove vivo, dove ho conosciuto le persone a me care, dove è nato
mio figlio, Napoli rappresenta sicuramente la mia passione per il teatro
e per l'affabulazione, ed Asmara, l'Eritrea, è indubbiamente nel mio
sangue, nel mio istinto, nella mia fisicità, nella mia energia vitale.
O magari il tutto si mescola contraddittoriamente, a mia insaputa. Atene e Manchester
hanno scelto me. Sono nata nella prima e ho studiato nella
seconda, grazie ad una borsa di studio.
Roma l’ho scelta e la vivo volentieri ogni giorno. Ovviamente,
non è una tranquilla cittadina e devi essere “armato” di grinta anche solo per andare a prendere un cappuccino
al bar : devi farti rispettare nella fila davanti
alla cassa, guadagnare il tuo spazio senza esagerare davanti al bancone,
salutare con voce sufficientemente alta per farti rispondere
ma non troppo alta, altrimenti attiri l’attenzione, bere il cappuccino
mostrando che hai gradito oppure non, senza strafare ma con determinazione,
un gioco di sguardi e sorrisi riservati. E sono solo le sette le
mezza di mattina, hai tutta la giornata davanti a te… Quindi,
la città è la mia realtà. D.
Possiamo definire la città come mappa “topografica “ della nostra
anima? Non lo so.
So soltanto che le città sono abitate e animate da persone che a loro
volta sono animate dalla città, dall’urbe. Mi piace il senso di “cittadino”
insito in questa parola. Ma come “mappa” specchio dell’anima non ci
ho mai pensato anche perché non considero la
città come labirinto, ciò che potrebbe esserlo una Casbah o una medina.
Quindi non so rispondere a questa domanda. Dipende, a
mio modesto parere, per cosa s'intenda per
città. Se parliamo di luogo, spazi, riferimenti culturali e storici,
credo di no. Almeno penso non funzioni così per il sottoscritto. Nel mio
caso ritengo che la mia anima, se ne possiedo una, sia stata finora
scritta dalle emozioni e i sentimenti che mi hanno attraversato negli
anni, sfiorando o, più intensamente, toccando la vita degli altri, come
il viceversa. E, spesso, essi mi ricordano 'la mia città molto
più di altro.
Sì, sono d’accordo.
La “mappa topografica dell’anima” io la chiamo “luogo esistenziale”.
D.
Nella tua esperienza in che modo i luoghi delle tue origini costituiscono un legame con
il luogo che hai scelto di vivere? TAHAR LAMRI A pensarci
bene non esiste alcun legame fra i miei luoghi d’origine e il luogo
dove ora vivo. In questo momento sto sentendo i battiti di un campanile, e i miei luoghi d’origine
erano scanditi dal muezzin. Questa fa un’enorme differenza. Ma il legame non è necessario per stabilirsi in un dato luogo. Nella
prima parte della mia vita, nell'infanzia, credo di aver osservato quanto
ciò avvenga tramite le persone, attraverso l'incontro. Quello di mia madre e mio padre,
ad esempio, quello tra i loro rispettivi parenti, il modo in cui essi
hanno interagito, davanti ai miei occhi, con l'ambiente estraneo, e
così via. Col tempo sono felice di aver trovato nella
scrittura una strada meravigliosa per collegare tra loro, come in una
coreografia, i pezzi danzanti dei luoghi della mia vita. HELENE PARASKEVA Sono come i
due poli dell’altalena. Vivo a Roma e mi manca il vento selvaggio di
Atenee quando finalmente vado lì , non vedo l’ora di tornare
per risentire un “frizzico de (sic) Roma”. D.
Esiste una città del migrante
diversa da quella del cittadino autoctono? Senza dubbio nella
grande città si assiste ad
una divisione spaziale del territorio urbano che definisce la
comunità presente in base a parametri economici ma anche culturali. Credi che ci sia il rischio di una ghettizzazione più marcata o la città del futuro ha speranza
di raggiungere un modello dove l’eterogeneità costituisca un plusvalore
e non una barriera, un elemento
di frontiera? A costo di
dire un’assurdità, direi che non esiste Le città sono intrinsecamente
costruite per mantenere le barriere ed il rischio di ghettizzazione
in una società mercantile è inevitabile. Rispondendo
alla prima parte della domanda, credo di sì. Indubbiamente i comprensibili
bisogni di condivisione, di identificazione, di semplice aiuto reciproco, portano il
migrante a 'fare città' con i propri connazionali,
come avviene in ogni parte del mondo ed è riconoscibile in ogni epoca. Sulla seconda parte della domanda credo che
stia a noi far sì che vada in un modo o nell'altro, dipende da noi,
Italiani, immigrati, oriundi, persone, insomma. E' una scommessa che
si gioca ogni giorno, ogni volta che incontriamo qualcuno 'altro' da
noi. HELENE PARASKEVA Ogni giorno, il migrante deve “conquistare”
la nuova città, deve conoscere i suoi linguaggi, i codici, i gesti significativi,
i modi di dire, i segni e i segnali segreti, a cominciare dal bar, presto
la mattina. Questo impegno quotidiano arricchisce il migrante. Per l’autoctono
l’apprendimento è inconsapevole, come quello della lingua madre prima
di andare a scuola. Se il migrante un giorno si arrendesse e smettesse di voler
imparare e conoscere la città, allora si fossilizzerebbe, si lascerebbe
emarginare. Ma anche l’interculturalità, cioè il rapporto-scambio reciproco
fra culture diverse, la transculturalità,
la consapevolezza che ognuno di noi (migrante o autoctono) è portatore
di cultura e la volontà reciproca di decostruire, cioè discutere insieme
i valori e costruirne nuovi, accettati da entrambi. Non dico buttare
via tutto, dico: prima mettiamoci in discussione e troviamo valori che
stiano bene ad entrambi. Ma per fare questo bisogna prima “raccontarci”. Nel frattempo, però, la città reale
non ci deve sfuggire, non deve diventare un groviglio di tangenziali
e circonvallazioni che scorrono intorno ad un sarcofago chiamato “centro
storico”. Manca il “Forum”, l’ “Agorà”, come
luogo reale. La città del futuro la costruirei
come un’ “Agorà” di reciprocità, con tanti spazi per l’accoglienza,
l’incontro, la discussione, l’accettazione, la narrazione... D.
La città europea del 2005 è lo specchio di un mondo in movimento, persone
che si spostano, emigrano, immigrano. Il volto di
un mondo multiculturale in continua trasformazione.
Come vive gli spazi urbani un immigrato oggi rispetto a 20 anni fa?
Rispetto a
20 fa l’unica differenza che vedo è nei volumi: ci sono più stranieri
e forse gli sguardi non sono più insistenti. L’immigrato, dipende dal
progetto individuale di ciascuno ovviamente, è spesso indifferente alla
città nella quale vive se la considera una tappa per un definitivo ritorno
al paese oppure può considerarla ostile o peggio opprimente. Per quelli
invece che intendono stabilirsi definitivamente nella città o nel luogo
di approdo, direi che ci può essere una specie
di formazione che passa dalla decostruzione
in sé della città alla sua ricostruzione assieme al ricostruzione di
un Io una identità più atta a leggere e decifrare questi nuovi spazi. Facendo riferimento
alla città di Roma credo che molte cose siano cambiate, in meglio, penso.
Sicuramente ha aiutato la presenza sempre più crescente di persone di
nazionalità le più varie e la capitale è storicamente un polo multiculturale,
aperto alla diversità, anche se nella sua storia talvolta se ne
è dimenticata. Da quello che vedo, la maggiore diffusione dell'inglese
ha reso la comunicazione più facile e questo non è un cambiamento da
niente. HELENE PARASKEVA Scrissi alcuni
racconti del “Tragediometro...” anche dieci o quindici anni fa e faccio il confronto fra adesso
e allora ponendomi la domanda: in che modo la città è cambiata? L’unica
pratica superata è che oggi non è più necessario recarsi alla Circoscrizione
per un certificato. Ma per il resto? Mi chiedo
e vi chiedo: che fine hanno fatto i pregiudizi,
gli stereotipi, il razzismo di allora? D. In un bel libro Italo Calvino descrive le città invisibili, città dietro
la cuiiconografia si celano nuovi simboli e
significati. Ci sono più modi di “leggere” una città, come leggi la
tua città? TAHAR LAMRI Spero
con meraviglia e stupore ogni giorno per poter cogliere angoli, luce,
spazi… Sarà forse
una deformazione professionale, in quanto -
a parte lo scrivere - lavoro come teatro-terapeuta ed animatore sociale
ma la mia lettura del mondo che mi circonda passa inevitabilmente attraverso
l'osservazione del modo di muoversi e di camminare delle persone che
incontro, delle espressioni dei loro visi, delle emozioni che esprimono
con essi e con i gesti. Ma soprattutto con il linguaggio, il dialetto,
lo slang e i codici nascosti in esso. Immagino
che si evinca, e lo spero, che città per me vuol dire gente, persone,
umanità. HELENE PARASKEVA A proposito
delle “Città invisibili” di Calvino, quella che più m’intriga è Isaura,
dove “un paesaggio invisibile condiziona quello visibile”. Nel mio racconto “Nella città degli Imperatori” (Antologia
Pubblica 2005, Faraeditore) Prendiamo come esempio
“Nella città degli Imperatori” c’è
anche un'altra interpretazione del rapporto fra paesaggio visibile e
invisibile, palese ma nascosta, che lascio scoprire al lettore. D. In
questa edizione delle giornate del Convegno avrà luogo la performance
teatrale AND THE CITY SPOKE,
uno spettacolo a più voci realizzato da Jennifer
Langer e Marta Niccolai.
Cosa ha determinato questa scelta? Il teatro in tal senso può
essere visto come metafora della città multietnica,
pluri -identitaria? PAOLO TRABUCCO La
performance teatrale “And the
city spoke”, ideata da Jennifer
Langer e Marta Niccolai,
affidata alla regia di Ernst Fisher,
è il frutto di un progetto promosso dall’ associazione inglese, “Exiled Writers Ink”. Come Cies-Ferrara abbiamo partecipato volentieri a questo progetto, viste le
consonanze di interessi tra le
due associazioni, che si occupano di letteratura della migrazione. Il
progetto prevede l’incontro, lo
scambio delle esperienze, ma anche della sensibilità e dei
linguaggi, di scrittrici e scrittori
migranti che risiedono in diversi paesi europei: Inghilterra,
Belgio, Polonia e Italia. Gli autori sono stati invitati a
incontrarsi e a portare ciascuno un contributo personale intorno al
tema del rapporto tra la città e l'esperienza, concreta o simbolica,
della migranza. Dalla messa
in circolo di questi contributi è nato lo spettacolo “And the city spoke”.
Abbiamo voluto portare
gli esiti di questa interessante esperienza,
già rappresentata a Londra e Varsavia, anche a Ferrara, realizzando
questa “apertura europea”, perché la riteniamo
particolarmente in sintonia con lo spirito del nostro convegno. Crediamo che la scelta della performance teatrale,
per la peculiarità delle sue
caratteristiche espressive, e per
le particolari modalità con cui questa esperienza
è stata pensata e realizzata, sia adatta a rappresentare, attraverso le forme comunicative piuttosto immediate del
linguaggio teatrale, da un lato,
come dici tu, una efficace metafora della città multietnica,
pluri–identitaria,
dall’altro la disponibilità e lo sforzo di ricerca per intrecciare
le propria storia, la propria cultura, i propri linguaggi con le storie,
le culture, i linguaggi degli altri.
D. Come nasce l'idea di realizzare lo spettacolo AND THE CITY SPOKE? MARTA NICCOLAI Lo spettacolo è
stato concepito e sviluppato all'interno di un'organizzazione che
si chiama Exiled Writers Ink, il cui scopo è di promuovere
poesia e scrittura creativa per i rifugiati e gli esiliati in Inghilterra.
Jennifer Langer, direttrice dell'organizzazione
(ONG), aveva questa idea di mettere insieme
le voci di emigrati o rifugiati di più paesi, e la città è sembrato
un legame ovvio con i loro sentimenti e pensieri in relazione all'Europa.
L'idea è nata anche dalla consapevolezza che ogni qualvolta c'è un consiglio
europeo per discutere "la questione immigrati,
o extraeuropei", è sempre l'Europa che parla e scrive, mai l'Altro. Quali sono le caratteristiche dello spettacolo
e in base a quali criteri avete scelto gli
autori? Abbiamo chiesto ad alcuni che erano nel data base di EWInk. Fin dall'inizio, lo spettacolo
avrebbe avuto partecipanti dal Belgio, dalla Polonia,
e dall'Italia, due per ogni paese. Questa collaborazione è stata possibile
per conoscenze mie e di Jennifer. Abbiamo
inviato loro la tematica con descrizione di
cosa dovevano descrivere e la lunghezza. i
tempi e i dettagli non sono stati molto rispettati quindi alcuni hanno
prodotto a seconda della richiesta, altri hanno riciclato, ma infine
ci siamo rese conto che ovunque negli scritti si esprimeva il conflitto
tra la cultura interna e quella nuova, o il ricordo del paese di origine,
insomma il dualismo era presente in una forma o nell'altra. Nessuno di loro è attore professionista e qui abbiamo rischiato,
ma volevamo che fosse lo scrittore stesso
a rappresentare i propri sentimenti. Poi c'era il grosso problema della
lingua, in quanto alcuni non parlavano inglese
per niente, quindi c'era bisogno di traduzione, ma non volevamo dare
troppa voce all'europeo, anche se era una voce che permetteva all'Altro
di farsi sentire e vedere. Quindi abbiamo sì usato traduzioni simultanee,
ma anche proiezioni di testi, e in certi punti, pannelli esposti da
comparse sulla scena, o voci fuori campo. Il regista è stato encomiabile
perché in pochissimi giorni ha messo insieme gente non professionista
che non si era mai vista prima, ed ha racchiuso il tutto in una forma
'sequenziale', perché interazioni non potevano esserci a causa delle
lingue diverse. Più o meno poetici, più o meno discorsivi, i testi,
come già detto, esprimono tutti presenza e assenza, del proprio paese, del dialogo e
scambio con l'europeo, della cultura diversa che si scontra con la propria,
e la propria che deve ritirarsi in un interno, personale, non visto,
perché bisogna diventare Altri. D. In che misura la città apporta un contributo alla formazione identitaria dei suoi cittadini migranti MARTA NICCOLAI Penso che la
risposta alla città e all'identità riprenda un po' quanto detto sopra,
quel movimento interiorizzato di espansione e contrazione, molto interiorizzato, che non
necessariamente si porta con sé obiezioni, anzi c'è la comprensione
della necessità di 'alterarsi', ma alla fine la città ...che cos'è la
città? è lo scambio tra persone, è cultura e memoria culturale e
la diversità isola, lo scambio è assente. però
città europea vuol dire anche opportunità, come nel caso di Soheila,
che ne evidenzia l'importanza in rapporto alla sua voglia di libertà,
mentre Bashir ironizza sulle differenze culturali che causano malintesi;
Simon e Tahar mettono l'accento sui diritti
umani, e mentre Simon lo fa in un modo più fantascientifico, Tahar lo poetizza con l'incontro di bambini morti che hanno
subito l'ingiustizia di essere nati nel Sud del mondo; per Lola invece
è l'incontro con la comunità e i suoi pregiudizi, ma nella constatazione
delle differenze, Lola trova uno spazio e uno scambio. D. Tahar ci vuoi parlare di questo progetto,
come nasce e come sei entrato a farne parte? TAHAR LAMRI Questa “performance”
che è un vero e proprio spettacolo teatrale
nasce da un’idea di Marta Niccolai e Jennifer
Langer, della rivista Exiled Ink!. Sono stati raccolti diversi autori migranti (migrant writers, per dirla in inglese)
residenti in alcuni paesi europei ( Italia – Belgio – Gran Bretagna
– Polonia), attorno a un regista tedesco, Ernst Fischer, che ha costruito
a partire da questi testi uno spettacolo teatrale e ha vinto, a mio
avviso, la sfida di far diventare questi autori, veri e propri attori.
Sono entrato a farne parte grazie a Marta Niccolai
che ho incontro durante i lavori del Convegno di Ferrara, l’anno scorso. D.
Tu sei anche autore di testi teatrali,
ti identifichi con l’immagine del teatro che
diventa metafora della città multietnica,
luogo di relazione, un luogo che può essere costruito con l’apporto
di tutti? Sì assolutamente. Il teatro ha questa forza, volevo dire missione. Solo che il teatro va
al di là del multietnico
e l’interculturale, costruisce il meticciato.
E’ quasi un’utopia. Ma il teatro riesce a realizzarla,
perché il teatro è una biblioteca, quindi l’universo, e nelle biblioteche
convivono le lingue, le religioni … D. Paolo com'è nella tradizione delle giornate
ferraresi, gli studenti delle scuole superiori saranno protagonisti.
Con la loro presenza, riconfermate l'impegno a creare un luogo privilegiato
dove le nuove generazioni e gli scrittori possano incontrarsi definendo
possibili tracce di dialogo e scambio tra percorsi identitari diversi? PAOLO TRABUCCO Quello di dedicare le giornate
del convegno a un pubblico così speciale come quello degli
studenti è rimasto, in questi quattro anni, un nostro obbiettivo
prioritario ed è sempre più un tratto distintivo del
convegno stesso.
Crediamo molto nella potenzialità educative dell’ l’incontro tra percorsi culturali e identitari diversi. La scuola, che essenzialmente si fonda su relazione e cultura, è un luogo privilegiato in cui proporre questo tipo di esperienza. In questi anni, durante le fasi preparatorie del convegno, abbiamo cercato di favorire il più possibile nelle scuole gli interventi di mediazione interculturale e le occasioni di incontro tra scrittori migranti e studenti. L'incontro diretto, la conoscenza reciproca, lo scambio di esperienze sono i veicoli attraverso i quali si può tentare di sradicare pigrizie concettuali e stereotipi che pongono la figura del migrante ai margini di ogni fenomeno sociale e culturale. Fino ad ora l’impegno da noi profuso in questa direzione ha trovato una straordinaria rispondenza nell’interesse e nell'impegno con il quale gli studenti e gli insegnanti hanno accompagnato le diverse edizioni del nostro convegno. Ne sono testimonianza i tanti lavori prodotti nelle scuole sui temi dell’interculturalità e della letteratura della migrazione, che noi sistematicamente raccogliamo negli atti del convegno e pubblichiamo sul sito “Voci dal silenzio”. |
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