Atti del Quarto Convegno Nazionale
Culture e letteratura della migrazione - "Città identità culture"

Ferrara 15 - 16 aprile 2005

 

Lo spazio dell’ identità
di Valentina Acava Mmaka

 

- Che cos’è la patria?
- Non so.
- No.
- E’ la Francia!
La voce è quella di Jaques Cormery che interroga sua madre, Catherine, nel romanzo incompiuto di Albert Camus Il primo uomo (1). Jaques è nato in Algeria da genitori francesi immigrati, per lui sorge immediato l’interrogativo sulla propria identità. Chi è Jaques? E’ arabo? E’ francese? Chi è Jaques? Solo nella piena maturità dei suoi quarant’anni l’uomo Jaques andrà alla ricerca di una risposta.
Cito Camus perché pochi come lui hanno saputo mettere a fuoco con uno sguardo dall’interno, il dramma di chi sente di non sapere chi é. E questo accade frequentemente in situazioni analoghe a quella vissuta da Jaques, ovvero quando si nasce nell’altrove dal luogo originario della propria famiglia, in un altrove che ha in seno alla propria società una molteplicità di etnie e soprattutto se esse costituiscono motivo di divisione. L’esperienza del Primo Uomo che ad un certo punto della sua vita va alla ricerca di Sé, è stata per certi versi anche la mia. Sono nata in Italia ma fin dalla nascita sono emigrata in Sud Africa con la mia famiglia. Qui ho trascorso la mia infanzia e la mia adolescenza. Qui ho parlato una lingua diversa da quella d’origine e ho conosciuto direttamente il significato della segregazione razziale. Questa è stata la primissima esperienza di relazione che ho fatto nel Sud Africa degli anni Settanta, quando l’apartheid vigilava con i suoi strumenti repressivi affinché la popolazione africana e le diverse minoranze etniche mantenessero un ruolo di inferiorità ed emarginazione.

Non siamo figli soltanto della nostra epoca, ma anche del luogo in cui viviamo scrive la scrittrice sudafricana Nadine Gordimer. Nella vita di uno scrittore questa valenza raddoppia il suo valore nella misura in cui egli diventa testimone, voce e senso di una cultura, portavoce di una identità.
La mia storia comincia, all’inizio degli anni Settanta, in una grande metropoli del Sud Africa, in quella regione una volta chiamata Transvaal e oggi diventata Gauteng, il posto dell’oro, Johannesburg. Ero una figlia di immigrati italiani che da diverse generazioni si erano stabilite prima in Africa Orientale e successivamente in Sud Africa. Tanti europei erano emigrati, per fuggire alle persecuzioni della guerra, o per cercare fortuna e molti, pur avendola trovata si erano trovati a fare i conti con una realtà complessa e di difficile gestione, perché non tutti aderivano a quel sistema di divisione sociale imposto dall’apartheid. Preso il potere nel 1948, il Partito Nazionalista guidato da Daniel Malan, fermo sostenitore della Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale,aveva dato un nuovo peso alla segregazione che vigeva da secoli nel paese, instaurando un sistema di controllo e oppressione per garantire la supremazia bianca. Lo slogan degli afrikaners (2) era “Die wit man moet altyd baas wees” (I bianchi devono rimanere sempre padroni), “Eie volk, eie taal, eiei land” (Il nostro popolo, la nostra lingua, la nostra terra). Uno degli strumenti per tutelare questo sistema monolitico di dominio bianco era la suddivisione degli spazi. Le città erano divise: la barriera della razza era evidente ovunque. Scuole separate per bianchi e neri, locali pubblici separati, mezzi di trasporto pubblici separati, ospedali separati e per uscire dal proprio ghetto gli africani dovevano possedere un pass (3), pena l’arresto.
I neri, i meticci e i coloured venivano confinati in townships, agglomerati periferici che qui chiamiamo ghetti, privi di luce elettrica, di servizi igienici, di strade, di scuole, di acqua, spesso erano luoghi che sembravano ,come ebbe a dire Nelson Mandela, “recinti simili a una prigione con migliaia di baracche su un terreno senza alberi”. Oppure nelle homelands, territori controllati in cui venivano raggruppati membri di una stessa etnia.
In quanto bianca, a me erano riservati quegli spazi che mi consentivano di vivere entro determinati privilegi, i miei spazi erano definiti a lettere cubitali dalle segnaletiche bilingue apposte ad ogni angolo della strada, davanti ad ogni esercizio commerciale, davanti agli ospedali, alle scuole, alle fermate dell’ autobus: WHITES ONLY – SLEGS BLANKES ovunque quei cartelli mi ricordavano che ero una privilegiata ma al tempo stesso mi dicevano che al di là di quelle parole c’era il dolore di una nazione che da secoli soffriva il peso della propria razza, ma soprattutto c’era scritto qualcosa che avrei poi compreso più tardi. Quelle scritte cancellavano la storia personale di ogni individuo che fosse di origine non europea. Quelle lettere cubitali bianche su sfondo nero, ribadivano ossessivamente che il colore dei neri poteva essere calpestato in difesa dei diritti dei bianchi. E i diritti dei neri? Sepolti sotto le ruspe, schiacciati sotto i colpi dei manganelli, intrappolati nel fuoco di qualche rissa ad armi impari di chi si sentiva titolato per affermare un potere di supremazia.
Bianchi e neri non dovevano incontrarsi, e là dove l’incontro si rendeva necessario esso era legato al lavoro subordinato o alla clandestinità nel cui ventre caldo prendeva forma la denuncia, la lotta politica per i diritti umani, e anche tutta quelle serie di attività proibite dal regime che altrimenti non avrebbero potuto avere visibilità e ascolto: la musica, la letteratura, le arti figurative, il teatro, la danza.
Il mio legame più forte con l’altro volto di quella città, di quel paese, era la mia seboledi, ovvero la mia bambinaia che viveva ad Alexandra, la township chiamata per lungo tempo “la città oscura” per via della mancanza di elettricità. Lei costituiva per me il collegamento con quella parte di società, che i miei privilegi mi impedivano di frequentare, di conoscere. Grazie a lei ho affinato la mia sensibilità uditiva alle lingue e mi accadde ciò che Elias Canetti bene descrive in un suo libro: “non ne comprendevo ancora il significato ma subivo gli effetti di quell’incontro di lingue" (4). L’inglese, il Sesotho, l’Afrikaans, l’Italiano convivevano armoniosamente in me.. Sera, la mia bambinaia, rappresentava la lente attraverso cui potevo vedere ciò che i miei occhi non potevano. A lei devo la raccolta di miti e storie di vita vera, la passione per l’autentica dignità con cui viveva le limitazioni del suo tempo.
Sera era il mio espediente, il mio lasciapassare per liberarmi dalle manette strette della mia “libertà”. Ella infondeva con i suoi racconti, le sue storie, i suoi canti, un grande rispetto, una pazienza infinita che restituivano un senso ad un tempo e ad un’azione che troppo senso non l’aveva.
Le città erano divise in un paese squarciato ma anche nella divisione, gli “esclusi” non hanno mai smesso di cercare un “luogo” per affermare la loro esistenza, un luogo dove fosse ancora possibile muovere i passi verso la libertà. Questo luogo si chiamava clandestinità, e nonostante esso introduceva ad una serie di pericoli e rischi, costituiva il cuore ribollente dell’identità sudafricana. Entro le barriere dei ghetti, l’ utilizzo degli spazi era permeato da una grande intimità, partecipazione, tutti vivevano confinati per lo stesso motivo e tutti lottavano per la liberazione, per la causa di una società più giusta. Ma anche all’interno di queste township c’erano restrizioni e proibizioni vigilate dalla polizia afrikaner, che automaticamente faceva proliferare la nascita di luoghi “illegali”, ritrovo di artisti e rivoluzionari. Uno di questi luoghi era la shebeen. Le shebeen erano birrerie clandestine, spesso aperte nei retri delle case gestite dalle donne.. Essendo entrate in ritardo nel mondo del lavoro e quindi ad accedere al pass, da tempo si erano inventate mestieri diversi, come la produzione di bevande alcoliche che poi spesso rivendevano negli spacci locali. In questi spazi si costruiva l’identità di un popolo oppresso che necessitava di diventare soggetto, cosciente di sé.
L’esigenza di delineare i tratti di una identità cresceva nella misura in cui la società operava una sorta di “selezione” innaturale della popolazione di quel paese in base alla razza.
Gli africani e le altre minoranze erano soggetti invisibili, sommersi in una identità congelata. La clandestinità o l’esilio erano le uniche possibilità di continuare a definire, conservare, diffondere l’identità sudafricana senza la paura che mordesse le carni. Un percorso difficile a cui fino al 1994 è mancato tuttavia un ultimo tassello. Solo con la democrazia,solo con la fine dell’apartheid, i sudafricani hanno potuto recuperare un pezzo mancante, riappropriarsi della possibilità di definirsi al mondo in una terra liberata dagli oppressori.

Essere “nati” in Sud Africa è stato un faticoso esercizio di ricerca sulle possibilità di definire la propria identità. Soprattutto là dove le proprie origini erano limitate a pochi racconti e ad una lingua poco frequentata, definire la propria identità non era così lineare, perché mancavano parametri naturali per farlo. Io ero un’ immigrata italiana, che con l’Italia aveva un legame molto esile, ne trattenevo le storie, qualche canzone e miti familiari che lì si erano svolti in epoche passate. Tuttavia non potevo essere sudafricana, e non solo per un fatto di cittadinanza, quanto per il fatto che in Sud Africa vigeva un regime autoritario che discriminava i suoi cittadini. Poteva conciliarsi l’idea di una identità in un paese che negava i valori su cui si fondavano le identità altrui? Ma non mi sentivo neppure italiana, perché è “casa-patria” il luogo dove sono radicati gli affetti, le esperienze formative, un legame linguistico consolidato, e nel mio caso è stato il Sud Africa. La ricerca della mia identità è stata sostanzialmente una questione di scelte e in ogni “migrante” la formazione di Sé è determinata dalle scelte che ciascuno opera, nel far dialogare una presenza multiculturale tanto da renderla capace di creare una relazione con il mondo esterno.
E’ interessante constatare come, in questa geografia della distribuzione degli spazi urbani, vivere una città divisa abbia determinato il mio percorso individuale, la mia storia esperienziale. Quando con l’adolescenza si eredita quella ricorrente necessità di spezzare con un periodo fatto di regole e dipendenza da altri… ecco che nasce il bisogno di crearsi un proprio patrimonio di riferimento, che contempli l’ approfondimento della conoscenza del proprio contesto.
Spinta da quell’impulso, cominciava la mia ricerca di un contatto reale con l’ALTRO che era mio “vicino di casa” ma confinato entro barriere fisiche e culturali così resistenti da farlo sembrare lontano e invisibile, ho cominciato a “frequentare” quel mondo. Una volta che l’età mi consentiva un certo arbitrio e che i primi segnali di una lunga e dolorosa transizione volgevano a favore, sono entrata nell’abbraccio di quell’ umanità le cui sofferenze erano per lungo tempo dipese dai miei privilegi.
Era urgente valicare quella frontiera per trovare un senso alla nozione di appartenenza che prima ancora di essere un connotato geografico si tratta di un contesto di valori. E con certezza questo contesto è stato reso possibile grazie alla scrittura che è diventato presto per me uno strumento di indagine, di esplorazione verso una definizione di identità, soprattutto in seguito alle mie continue migrazioni da luoghi e “spazi”, da lingue e culture…. La scrittura assumeva le sembianze dell’unica possibilità a una senza –patria, di trovare la verità e sfuggire all’anonimato.


NOTE:

(1) A. Camus, Il primo uomo, Bompiani, 2001

(2) Cittadini di origine olandese che colonizzarono il Sud Africa a partire dal XVII secolo.

(3) Documento di identificazione che consentiva alla popolazione africana di muoversi dalla propria township per motivi di lavoro.

(4) Elias Canetti, La lingua salvata, Einaudi


Torna all'indice 

Torna alla prima pagina