- Che cos’è la patria?
- Non so.
- No.
- E’ la Francia!
La voce è quella di Jaques Cormery che interroga sua madre, Catherine,
nel romanzo incompiuto di Albert Camus Il primo uomo (1).
Jaques è nato in Algeria da genitori francesi immigrati, per
lui sorge immediato l’interrogativo sulla propria identità.
Chi è Jaques? E’ arabo? E’ francese? Chi è
Jaques? Solo nella piena maturità dei suoi quarant’anni
l’uomo Jaques andrà alla ricerca di una risposta.
Cito Camus perché pochi come lui hanno saputo mettere a fuoco
con uno sguardo dall’interno, il dramma di chi sente di non sapere
chi é. E questo accade frequentemente in situazioni analoghe
a quella vissuta da Jaques, ovvero quando si nasce nell’altrove
dal luogo originario della propria famiglia, in un altrove che ha in
seno alla propria società una molteplicità di etnie e
soprattutto se esse costituiscono motivo di divisione. L’esperienza
del Primo Uomo che ad un certo punto della sua vita va alla ricerca
di Sé, è stata per certi versi anche la mia. Sono nata
in Italia ma fin dalla nascita sono emigrata in Sud Africa con la mia
famiglia. Qui ho trascorso la mia infanzia e la mia adolescenza. Qui
ho parlato una lingua diversa da quella d’origine e ho conosciuto
direttamente il significato della segregazione razziale. Questa è
stata la primissima esperienza di relazione che ho fatto nel Sud Africa
degli anni Settanta, quando l’apartheid vigilava con i suoi strumenti
repressivi affinché la popolazione africana e le diverse minoranze
etniche mantenessero un ruolo di inferiorità ed emarginazione.
Non siamo figli soltanto della nostra
epoca, ma anche del luogo in cui viviamo scrive la scrittrice sudafricana
Nadine Gordimer. Nella vita di uno scrittore questa valenza raddoppia
il suo valore nella misura in cui egli diventa testimone, voce e senso
di una cultura, portavoce di una identità.
La mia storia comincia, all’inizio degli anni Settanta, in una
grande metropoli del Sud Africa, in quella regione una volta chiamata
Transvaal e oggi diventata Gauteng, il posto dell’oro, Johannesburg.
Ero una figlia di immigrati italiani che da diverse generazioni si erano
stabilite prima in Africa Orientale e successivamente in Sud Africa.
Tanti europei erano emigrati, per fuggire alle persecuzioni della guerra,
o per cercare fortuna e molti, pur avendola trovata si erano trovati
a fare i conti con una realtà complessa e di difficile gestione,
perché non tutti aderivano a quel sistema di divisione sociale
imposto dall’apartheid. Preso il potere nel 1948, il Partito Nazionalista
guidato da Daniel Malan, fermo sostenitore della Germania nazista durante
la Seconda Guerra Mondiale,aveva dato un nuovo peso alla segregazione
che vigeva da secoli nel paese, instaurando un sistema di controllo
e oppressione per garantire la supremazia bianca. Lo slogan degli afrikaners
(2) era “Die wit man moet altyd baas wees”
(I bianchi devono rimanere sempre padroni), “Eie volk, eie taal,
eiei land” (Il nostro popolo, la nostra lingua, la nostra terra).
Uno degli strumenti per tutelare questo sistema monolitico di dominio
bianco era la suddivisione degli spazi. Le città erano divise:
la barriera della razza era evidente ovunque. Scuole separate per bianchi
e neri, locali pubblici separati, mezzi di trasporto pubblici separati,
ospedali separati e per uscire dal proprio ghetto gli africani dovevano
possedere un pass (3), pena l’arresto.
I neri, i meticci e i coloured venivano confinati in townships, agglomerati
periferici che qui chiamiamo ghetti, privi di luce elettrica, di servizi
igienici, di strade, di scuole, di acqua, spesso erano luoghi che sembravano
,come ebbe a dire Nelson Mandela, “recinti simili a una prigione
con migliaia di baracche su un terreno senza alberi”. Oppure nelle
homelands, territori controllati in cui venivano raggruppati membri
di una stessa etnia.
In quanto bianca, a me erano riservati quegli spazi che mi consentivano
di vivere entro determinati privilegi, i miei spazi erano definiti a
lettere cubitali dalle segnaletiche bilingue apposte ad ogni angolo
della strada, davanti ad ogni esercizio commerciale, davanti agli ospedali,
alle scuole, alle fermate dell’ autobus: WHITES ONLY – SLEGS
BLANKES ovunque quei cartelli mi ricordavano che ero una privilegiata
ma al tempo stesso mi dicevano che al di là di quelle parole
c’era il dolore di una nazione che da secoli soffriva il peso
della propria razza, ma soprattutto c’era scritto qualcosa che
avrei poi compreso più tardi. Quelle scritte cancellavano la
storia personale di ogni individuo che fosse di origine non europea.
Quelle lettere cubitali bianche su sfondo nero, ribadivano ossessivamente
che il colore dei neri poteva essere calpestato in difesa dei diritti
dei bianchi. E i diritti dei neri? Sepolti sotto le ruspe, schiacciati
sotto i colpi dei manganelli, intrappolati nel fuoco di qualche rissa
ad armi impari di chi si sentiva titolato per affermare un potere di
supremazia.
Bianchi e neri non dovevano incontrarsi, e là dove l’incontro
si rendeva necessario esso era legato al lavoro subordinato o alla clandestinità
nel cui ventre caldo prendeva forma la denuncia, la lotta politica per
i diritti umani, e anche tutta quelle serie di attività proibite
dal regime che altrimenti non avrebbero potuto avere visibilità
e ascolto: la musica, la letteratura, le arti figurative, il teatro,
la danza.
Il mio legame più forte con l’altro volto di quella città,
di quel paese, era la mia seboledi, ovvero la mia bambinaia che viveva
ad Alexandra, la township chiamata per lungo tempo “la città
oscura” per via della mancanza di elettricità. Lei costituiva
per me il collegamento con quella parte di società, che i miei
privilegi mi impedivano di frequentare, di conoscere. Grazie a lei ho
affinato la mia sensibilità uditiva alle lingue e mi accadde
ciò che Elias Canetti bene descrive in un suo libro: “non
ne comprendevo ancora il significato ma subivo gli effetti di quell’incontro
di lingue" (4). L’inglese,
il Sesotho, l’Afrikaans, l’Italiano convivevano armoniosamente
in me.. Sera, la mia bambinaia, rappresentava la lente attraverso cui
potevo vedere ciò che i miei occhi non potevano. A lei devo la
raccolta di miti e storie di vita vera, la passione per l’autentica
dignità con cui viveva le limitazioni del suo tempo.
Sera era il mio espediente, il mio lasciapassare per liberarmi dalle
manette strette della mia “libertà”. Ella infondeva
con i suoi racconti, le sue storie, i suoi canti, un grande rispetto,
una pazienza infinita che restituivano un senso ad un tempo e ad un’azione
che troppo senso non l’aveva.
Le città erano divise in un paese squarciato ma anche nella divisione,
gli “esclusi” non hanno mai smesso di cercare un “luogo”
per affermare la loro esistenza, un luogo dove fosse ancora possibile
muovere i passi verso la libertà. Questo luogo si chiamava clandestinità,
e nonostante esso introduceva ad una serie di pericoli e rischi, costituiva
il cuore ribollente dell’identità sudafricana. Entro le
barriere dei ghetti, l’ utilizzo degli spazi era permeato da una
grande intimità, partecipazione, tutti vivevano confinati per
lo stesso motivo e tutti lottavano per la liberazione, per la causa
di una società più giusta. Ma anche all’interno
di queste township c’erano restrizioni e proibizioni vigilate
dalla polizia afrikaner, che automaticamente faceva proliferare la nascita
di luoghi “illegali”, ritrovo di artisti e rivoluzionari.
Uno di questi luoghi era la shebeen. Le shebeen erano birrerie clandestine,
spesso aperte nei retri delle case gestite dalle donne.. Essendo entrate
in ritardo nel mondo del lavoro e quindi ad accedere al pass, da tempo
si erano inventate mestieri diversi, come la produzione di bevande alcoliche
che poi spesso rivendevano negli spacci locali. In questi spazi si costruiva
l’identità di un popolo oppresso che necessitava di diventare
soggetto, cosciente di sé.
L’esigenza di delineare i tratti di una identità cresceva
nella misura in cui la società operava una sorta di “selezione”
innaturale della popolazione di quel paese in base alla razza.
Gli africani e le altre minoranze erano soggetti invisibili, sommersi
in una identità congelata. La clandestinità o l’esilio
erano le uniche possibilità di continuare a definire, conservare,
diffondere l’identità sudafricana senza la paura che mordesse
le carni. Un percorso difficile a cui fino al 1994 è mancato
tuttavia un ultimo tassello. Solo con la democrazia,solo con la fine
dell’apartheid, i sudafricani hanno potuto recuperare un pezzo
mancante, riappropriarsi della possibilità di definirsi al mondo
in una terra liberata dagli oppressori.
Essere “nati” in Sud
Africa è stato un faticoso esercizio di ricerca sulle possibilità
di definire la propria identità. Soprattutto là dove le
proprie origini erano limitate a pochi racconti e ad una lingua poco
frequentata, definire la propria identità non era così
lineare, perché mancavano parametri naturali per farlo. Io ero
un’ immigrata italiana, che con l’Italia aveva un legame
molto esile, ne trattenevo le storie, qualche canzone e miti familiari
che lì si erano svolti in epoche passate. Tuttavia non potevo
essere sudafricana, e non solo per un fatto di cittadinanza, quanto
per il fatto che in Sud Africa vigeva un regime autoritario che discriminava
i suoi cittadini. Poteva conciliarsi l’idea di una identità
in un paese che negava i valori su cui si fondavano le identità
altrui? Ma non mi sentivo neppure italiana, perché è “casa-patria”
il luogo dove sono radicati gli affetti, le esperienze formative, un
legame linguistico consolidato, e nel mio caso è stato il Sud
Africa. La ricerca della mia identità è stata sostanzialmente
una questione di scelte e in ogni “migrante” la formazione
di Sé è determinata dalle scelte che ciascuno opera, nel
far dialogare una presenza multiculturale tanto da renderla capace di
creare una relazione con il mondo esterno.
E’ interessante constatare come, in questa geografia della distribuzione
degli spazi urbani, vivere una città divisa abbia determinato
il mio percorso individuale, la mia storia esperienziale. Quando con
l’adolescenza si eredita quella ricorrente necessità di
spezzare con un periodo fatto di regole e dipendenza da altri…
ecco che nasce il bisogno di crearsi un proprio patrimonio di riferimento,
che contempli l’ approfondimento della conoscenza del proprio
contesto.
Spinta da quell’impulso, cominciava la mia ricerca di un contatto
reale con l’ALTRO che era mio “vicino di casa” ma
confinato entro barriere fisiche e culturali così resistenti
da farlo sembrare lontano e invisibile, ho cominciato a “frequentare”
quel mondo. Una volta che l’età mi consentiva un certo
arbitrio e che i primi segnali di una lunga e dolorosa transizione volgevano
a favore, sono entrata nell’abbraccio di quell’ umanità
le cui sofferenze erano per lungo tempo dipese dai miei privilegi.
Era urgente valicare quella frontiera per trovare un senso alla nozione
di appartenenza che prima ancora di essere un connotato geografico si
tratta di un contesto di valori. E con certezza questo contesto è
stato reso possibile grazie alla scrittura che è diventato presto
per me uno strumento di indagine, di esplorazione verso una definizione
di identità, soprattutto in seguito alle mie continue migrazioni
da luoghi e “spazi”, da lingue e culture…. La scrittura
assumeva le sembianze dell’unica possibilità a una senza
–patria, di trovare la verità e sfuggire all’anonimato.
NOTE:
(1) A.
Camus, Il primo uomo, Bompiani, 2001
(2) Cittadini
di origine olandese che colonizzarono il Sud Africa a partire dal XVII
secolo.
(3) Documento
di identificazione che consentiva alla popolazione africana di muoversi
dalla propria township per motivi di lavoro.
(4) Elias
Canetti, La lingua salvata, Einaudi