“Commissario, posso disturbarla
?” chiese l’agente Gennaro Donato, quel mattino del primo
di febbraio del 2003. “Dimmi pure”, rispose Francesco Cuconato,
commissario capo della stazione di polizia di Alberoide, quartiere periferico
della capitale.
In realtà avrei dovuto dire Alberoide ex-Sant’abete ma
ormai la memoria della zona si era così rarefatta che perfino
gli ‘ex’ divenivano illeggibili, forse perché considerati
inutili.
Tuttavia, se permettete, io provengo da un’altra parte della città
e vorrei rendere omaggio a quell’ex.
Su Sant’abete:
L’aneddoto non è poi così complicato, anzi è
molto semplice sebbene estremamente significativo.
Più di settant’anni addietro, ci fu una grande inondazione
a causa di una pioggia torrenziale che durò quasi una settimana.
Tre fratelli, Mirko, Davide e Mauro, rispettivamente di sei, otto e
nove anni, si trovavano in quei giorni proprio nei pressi di un abete
piuttosto alto, al ritorno da scuola. La madre non era potuta venire
a prenderli all’uscita poiché la quarta figlia, la più
piccola, aveva la febbre alta a causa della rosolia. Ebbene, trovandosi
a pochi passi dal fiume, i tre ragazzini, stretti e ben imbacuccati
sotto uno striminzito ombrello, videro il corso d’acqua straripare,
con forte veemenza. Fu Mauro ad avere la giusta pensata:
“Saliamo sull’abete, svelti.” Fu un attimo e nell’istante
stesso in cui l’acqua raggiunse, alla base dell’albero,
il piedino del fratello più piccolo, Mirko, questi era ormai
salvo.
I tre rimasero sull’abete per ben tre giorni, con l’acqua
del fiume giunta fino ad un metro d’altezza.
La madre passò quelle ore senza dormire e senza mangiare mentre
le ricerche dei tre bambini scomparsi si prodigarono senza sosta con
canotti e gommoni improvvisati. Poi, il quarto giorno smise di piovere
e i tre, col favore del sole, scesero dall’albero e tornarono
a casa, allegri e spensierati, come di ritorno da una piacevole gita
scolastica. La mamma li abbracciò per un giorno intero, ogni
volta che se li vedeva passare davanti. La loro storia fece subito il
giro della zona, con quel potente mezzo di comunicazione che è
il passaparola e da quei giorni, in ricordo del fortunato episodio,
il quartiere venne chiamato proprio Sant’abete.
Molto semplice, no ? Ancora più
facile sarà per me spiegare l’origine di Alberoide, definizione
tuttavia non molto gradita alla giunta comunale, la quale si ostina
tutt’oggi a conservare Sant’abete come nome.
Su Alberoide:
Cinque anni fa, un fulmine decise di cambiare il nome ad una comunità.
I fulmini sono fatti così, si divertono con poco. Zaam! Ed un
abete che un tempo salvò la vita di tre bambini si dissolse.
Il fatto colpì tutti, indistintamente, e gli assessori si riunirono
per rimediare al grave lutto. In verità, ci fu qualcuno che azzardò
la soluzione più naturale, e cioè piantare un altro abete,
ma perfino in una zona così limitrofa ed esclusa dai grandi fuochi
del più apparente artificio, che illuminavano ogni notte la città
nel suo cuore più sanguigno, l’atteggiamento più
in voga e per questo vincente del momento si fece sentire: Lungimiranza.
Fu quindi l’assessore Gremese che propose l’idea vincente:
“Facciamo costruire sulle ceneri del vecchio abete un albero artificiale
con una lega di acciaio e carbonio, utilizzata per i sommergibili giapponesi.
Il progetto sarà costoso ma il nuovo albero risulterà
indistruttibile e resisterà ad ogni cataclisma.” Gremese,
ovviamente, non parlò del fatto che suo fratello dirigeva una
fabbrica che stringeva importanti affari con una nota industria di sottomarini
del sol levante. Ma la lungimiranza è un dono e chi lo possiede,
e che soprattutto grazie ad essa aiuta molti di noi con estrema generosità
e senso civico, è giusto che ne goda in prima persona i benefici.
Di conseguenza l’albero meccanico fu costruito in due giorni ed
un quartiere divenne Alberoide.
“Commissario, la situazione
è ingestibile. Qui fuori ci sono centinaia di persone anziane,
vecchi insomma. E ne continuano ad arrivare” disse l’agente,
piuttosto in allarme.
“Calma Donato, calma. Vi siete fatti spiegare che è successo
?” chiese Cuconato, che nel frattempo non si era neanche mosso
dalla scrivania.
“Commissario, è questa la cosa strana. Sembrano tutti impazziti”
rispose l’altro, facendo un passo in più nella stanza.
“Si spieghi meglio”
“Ecco, il primo è arrivato poco dopo l’alba. Si chiama
Parisi Mirko, quasi ottant’anni, e si è presentato chiedendo
di sporgere denuncia, denuncia di un furto.
"Fin qui tutto a posto anche se il collega Agresti ed io notammo
subito il sorriso e l’allegria con i quali l’anziano signore
ci informava del motivo della sua venuta.
"In ogni caso, lo abbiamo fatto accomodare e ci ha raccontato il
fatto."
Il fatto, qualche ora prima:
Mirko: “Stanotte sono stato derubato.”
Donato: “Cosa le hanno rubato ?”
Mirko: “I sogni. Tutti i sogni che mi erano rimasti.”
Agresti: “C-cosa ha detto ?”
Mirko: “Che è sordo ? I sogni, mi ha rubato tutti i sogni.”
Donato: “Certo, i sogni! Agente Agresti, ma non ha capito ? Qualcuno
ha rubato i sogni al signore…”
Agresti: “Ah, i sogni! E chi è stato, eh ? Chi si è
permesso ?!”
Mirko: “Non potrò mai smettere di ringraziarlo. E’
stato Robin Dream.”
Donato: ”Robin che ?”
Mirko: “ Ma che è sordo anche lei ? Robin Dream: ruba i
sogni ai vecchi per donarli ai bambini.”
Agresti: “Ma tu guarda questo Robin Dream. Se lo acciuffiamo…”
Mirko: “No! Voi non dovete fargli del male. Lui è stato
così buono.”
Donato: “Come buono! Ma l’ha derubata, no ?”
Mirko: “Sì, finalmente. Finalmente qualcuno ha avuto il
coraggio di prendermi i sogni che nascondevo dentro. Io non c’ero
mai riuscito da solo. Troppa paura. Che idea, poi, donarli ai bambini:
gli unici in grado di liberarli, di dar loro un’altra possibilità.”
Agresti: “Mi scusi. Ma lei, questo Robin, vuole denunciarlo o
no ?”
Mirko: “Sì, ma non per farlo arrestare. Perché voglio
incontrarlo, abbracciarlo e dirgli grazie. Lo devo a lui se ora non
ho più paura.”
“Mirko… Mirko Parisi…ma
certo! Mirko, il più piccolo dei tre ragazzini scampati all’alluvione
del trenta, salendo sull’abete. Lei non se lo ricorda Donato,
è troppo giovane. Quante volte mio padre mi ha raccontato la
storia. Dev’essere uscito fuori di testa, poverino” disse
Cuconato.
“Ehm, commissario, il problema e che forse sono usciti fuori di
testa tutti i vecchi del quartiere. Sì, perchè ognuno
di loro ha sporto la medesima denuncia: il furto dei sogni, Robin Dream,
ecc. Ed il tutto con gioia sul viso…”
“Ma non è tutto – riprese - gli anziani sono ancora
a centinaia all’esterno della stazione e dicono che non se ne
andranno finchè non troveremo il ladro, Robin insomma.”
Il commissario rimase incollato alla poltrona, senza saper cosa pensare
e dopo pochi istanti si alzò e si affacciò alla finestra
del suo ufficio, che dava proprio sullo spiazzo antistante la centrale.
Quello che vide confermava ampiamente la descrizione dell’agente.
Un mare, un vero mare di anziani ricopriva strada e marciapiede. C’era
chi giocava a morra, chi a carte, chi addirittura allo schiaffo del
soldato. Sembrava una di quelle sagre di paese. Solo molto più
allegra, molto di più. Quindi prese un megafono e si affacciò.
Poi, dopo aver preso fiato, disse alla folla: “Signore e signori.
Vi prego, un attimo di attenzione. Sono il commissario Cuconato –
e lì partì un applauso inaspettato – ehm…volevo
darvi la mia garanzia personale che faremo il possibile per trovare
questo Robin Dream. Appena sapremo qualcosa sarete tutti avvertiti,
abbiamo i vostri dati – altro scrosciare di mani – perciò
vi chiederei gentilmente di tornare alle vostre abitazioni, in modo
da lasciar libera la circolazione sulla strada.”
Pochi secondi e tutta la canuta folla, dopo aver salutato educatamente
il commissario, si mosse e si allontanò in buon ordine, come
un’enorme scolaresca dietro alla propria amata o temuta maestra.
Cuconato rimase sorpreso dalla facilità con cui aveva ottenuto
il primo risultato e richiuse la finestra meccanicamente. In quel momento
cominciò veramente quella particolare giornata. Essa nasceva
con una promessa e quando la si fa a così tanta gente, che ripone
in noi tanta fiducia, credetemi, per quanto cerone si possa mettere
sul proprio viso è difficile stare tranquilli.
E Cuconato, il cerone, neanche lo usava. Non aveva altra scelta: doveva
trovare Robin Dream.
Dalla mente di un solerte poliziotto:
Prima domanda: come si fa ad arrestare un ladro che non si crede reale
?
Questa è la questione più difficile da affrontare. E sì,
perché stiamo parlando di un solerte poliziotto. Non ho mica
detto poliziotto e basta. Fino a prova contraria, solerte ha come sinonimi,
tra gli altri: zelante, premuroso, indefesso, tutta roba tosta.
Il manuale e l’esperienza decennale non suggerivano alcun precedente
ed insegnamento di sorta. Occorreva improvvisare, dare vita a nuove
strategie. Ed in fondo questo affascinava e stimolava immensamente il
Cuconato. Ma voi ci pensate a cosa provava un commissario di un quartiere
tranquillo come Alberoide ogni volta che accendeva la televisione ed
assisteva alle coraggiose gesta di ispettori ed investigatori di ogni
arma possibile mentre sventavano pericolose rapine e svelavano intricatissimi
misteri con acume straordinario ? Perfino un cane pastore tedesco ci
si era messo a fare il commissario ed era ormai un eroe, soprattutto
per Pierpaolo, suo figlio di nove anni.
Cosa provava ? Rosicava.
Sì, avete capito benissimo. Rosicava alla grande ed era anche
un po’ arrabbiato con la tv.
Perché non raccontavano mai la vera realtà di una stazione
di polizia ?
Da loro non c’erano certo eroismi tutti i giorni ma non per questo
la sua squadra era meno degna di attenzione e rispetto. Tuttavia, stavolta
l’occasione era allettante, eccitante, splendidamente fuori dall’ordinario.
Fu per questo che la mente di Cuconato scelse proprio l’alternativa
meno logica ma esattamente secondo la procedura: Robin Dream esisteva
perché qualcuno, anzi molti, l’avevano denunciato.
Seconda domanda: Come inizia un’indagine su un ladro che non esiste
ma a cui si vuole teneramente credere ?
A questo punto la strada si fa più semplice. Già perché
in un certo qual modo, nonostante qualche brandello della sua ragione
si ostinava a gridargli: ’Attenzione, non lasciarti ingannare,
resisti!’ ed anche con un pizzico di rabbia: ‘Sei un cretino
? Un mezzo scemo ?! Esigiamo rispetto!!!’ ma soprattutto con uscite
piuttosto umilianti, tipo: ‘Non puoi abbandonarci così.
Senza di te siamo come morti…’, egli, la sua scelta, l’aveva
già fatta.
Cuconato aveva imboccato l’altra, di strada, quella di casa.
Come si comincia quest’indagine, allora ? E’ banale: si
va ad interrogare i testimoni del fatto criminoso. Incredibile, o reale
che esso fosse, essi erano sempre dei testimoni e questi sono sempre
i compagni di viaggio migliori per arrivare alla verità.
“Donato. Mi dia l’elenco
dei derubati” disse con palese fretta. “Subito” rispose
l’agente porgendoglielo. “Io esco” aggiunse il commissario
leggendo il foglio che aveva in mano.
“Vuole che l’accompagno ?”
“No, grazie. Ne avrò per molto, credo…”
Cuconato prese la macchina ed iniziò la caccia al ladro più
strana della sua carriera.
Testimone numero due: Andrea Ghebellini,
commercialista, classe 1926:
“Signor Ghebellini, è la polizia. Sono il commissario Cuconato”
disse alla porta del secondo testimone. Il primo della lunga lista,
Mirko Parisi, se l’era lasciato per ultimo. Così, senza
un motivo preciso. Lo aveva fatto e basta.
“Un attimo…” rispose dopo un paio di minuti l’anziano
inquilino dell’appartamento di vastissimi sessanta metri quadrati
nel cuore di Alberoide.
Vastissimi perché erano a disposizione di tutto e solo il tempo
di Andrea, la cui moglie aveva accelerato improvvisamente dieci anni
prima, durante la loro armonica corsa, a causa di un dannato tumore
al seno.
“Buongiorno – disse il commissario vedendo aprire la porta
– sono Cuconato, le volevo fare qualche domanda sul furto da lei
denunciato questa mattina.”
Il viso dell’uomo si illuminò, per quanto poteva farlo
ulteriormente. Sì, perché Ghebellini aveva aperto la porta
con un viso già di suo acceso ed emozionato.
“Prego, Cuconato, si accomodi, prego, le faccio strada in salotto.”
“Ma lei stava stirando, l’ho disturbata, mi scusi”
disse il poliziotto notando la tavola con il ferro ancora caldo.
“Ma no, non si preoccupi. E poi ho già finito. Guardi,
è ancora come nuova!” disse Andrea, mostrando al nuovo
arrivato la sua maglietta. La mitica numero quattro.
Sul numero quattro:
Ci sono tanti modi per vivere da numero quattro. C’è il
centrale davanti alla difesa, un vero responsabile del centrocampo,
un uomo di frontiera, che raccoglie direttamente la sfera dal libero,
il capo dei difensori, per offrirla ai registi, coloro che creano il
gioco, che danno la giusta forma alla palla, affinchè rotoli
il più lontano possibile dalla propria porta.
Poi c’è il mediano di spinta. Lo stantuffo, il pistone,
il portatore d’acqua, l’uomo di trincea dimenticato dai
riflettori che strenuamente e stoicamente sacrifica ogni centimetro
delle sue robuste gambe per la causa, la vittoria, unicamente essa,
altro che sportiva partecipazione.
Infine c’era Ghebellini: il trattore, il frangiflutti, il frullatore
di ossa fragiline, la valanga di fango e scarpini, l’amante della
scivolata maligna, quella senza toccare terra, per intenderci. Poteva
riempire un’intera collezione di francobolli ma con al posto di
essi cartellini gialli e rossi, raccolti su tutti i campi della città.
“Ma non se la ricorda ? La
S.C.S., Scuola Calcio Sant’abete! Sono passati più di sessant’anni.
E sa la novità ? Questa mattina ci siamo ritrovati tutti e alle
due di questo pomeriggio sfideremo i nostri eterni rivali: la D.F.S.,
Dopolavoro Ferrovie dello Stato o almeno quelli che ne facevano parte.
Ci hanno sempre battuti. Lo credo, all’arbitro gli promettevano
viaggi gratis per un anno…”
Cuconato, effettivamente, sentiva un impulso irresistibile a lasciar
andare una risata di fronte a quel vecchietto che sfidava le leggi di
gravità per quanto tremava, mentre, con la maglietta che danzava
necessariamente tra le sue mani malferme, come una bandiera rossa che
segnala mare agitato, annunciava il suo imminente ritorno al calcio
giocato.
Eppure, qualcosa lo aiutò a rimanere serio.
La stessa, probabilmente, gli fece trovare la giusta e sincera attenzione
per chiedere all’uomo: “Senta, mi racconta quello che è
successo stanotte ?”
Ghebellini sorrise, si mise sulle spalle la gloriosa maglia ed invitò
il poliziotto a sedersi sul divano. “Prego, commissario. Io ho
tutto il tempo che vuole per ricordare stanotte.
"Tutto il tempo per ripensare a ciò che potrà farmi
stare meglio ora e più che mai domani.”
Circa quindici minuti più tardi Cuconato era fuori del portone
del palazzo. Si era fermato lì, con la porta, una storia ed una
vita alle spalle.
E quel giorno, in quell’attimo, quei tre doni erano pronti per
essere scartati nel cuore del commissario. Una vita, una storia ed una
porta, dietro alla quale egli aveva trovato il primo indizio su uno
strano ladro chiamato Robin Dream.
Testimone numero tre: Elena Palmiri,
commerciante in pensione, classe 1924:
La porta di casa della signora Elena era aperta.
Erano aperte anche tutte le finestre e perfino il vecchio lucernario
era dischiuso.
Ma non solo. Erano spalancate le ante degli armadi, i cassetti del bellissimo
comò marrone erano tutti in bella esposizione, svelando ogni
segreto dimenticato.
Il frigorifero stesso illuminava la cucina, con le fauci affamate che
sbavavano su un misero yogurt magro mentre il forno si apriva al mondo
senza necessariamente doversi esibire nella sua arte cuocitoria. E così
via, ritrovavano la luce scatole di scarpe rubate al loro scopo d’origine,
lettere imprigionate da buste ormai in pensione, segnalibri finalmente
risparmiati da centinaia di pesanti pagine.
Cuconato entrò lentamente nell’appartamento, in cui, a
causa della corrente creata dalle numerose aperture, tirava una brezza
non indifferente. Eppure non faceva freddo, era un’aria fresca,
pulita, scivolava addosso come una carezza.
Elena si trovava fuori al balcone, seduta su una sedia, con i capelli
grigi svolazzanti ed un sorriso negli occhi, e finalmente con le spalle
al suo caro e sicuro appartamento.
“Buongiorno signora – disse il poliziotto a pochi metri
da lei – mi scusi se sono entrato ma la porta era aperta. E non
solo quella, ho visto…”
Elena, settantanove anni tra una settimana, rispose senza voltarsi:
“Vieni qua fuori. Cosa fa lì ? Prenditi una sedia e accomodati
vicino a me.”
Il commissario si guardò in giro e scelse un piccolo sgabello
di legno. Quindi uscì e si sedette ai piedi dell’anziana
signora. Lei lo guardò con tenerezza e gli strinse la mano con
forza. “Come ti chiami ? Dove abiti ? Cosa fai nella vita ? Che
ti piace fare ?” La donna avrebbe continuato ma Cuconato la interruppe
prontamente: “Sono un commissario di polizia. Sto indagando sul
furto da lei denunciato. Robin Dream, si ricorda ?”
Elena non appena sentì quel nome rimase per un attimo immobile,
come quando si ritrova in un vecchio cassetto un qualcosa che ci ricorda
quanta vita abbiamo fatto, tra quell’oggetto e noi. Ma poi riprese
la giusta velocità: “Lo sa quanto tempo è che non
esco su questo balcone ? Saranno anni. Mi sembra di aver cambiato casa,
non la riconosco più, o forse è il contrario. Ho sempre
abitato qui, ho sempre voluto vivere qui.
"Ho sempre desiderato che la vita fosse qui, che fosse di casa,
che non avesse avuto il bisogno di telefonare per venirmi a trovare.
Ricordo solo adesso quante parole ci metteva mio marito, quando ci conoscemmo,
per darmi un bacio. E quanti passi dovevo fare io stessa per raggiungere
la guancia di mio padre e fare altrettanto. Quanti chilometri pensavo
fosse lunga la serranda di questa finestra, quanta luce ed aria sarebbero
potute entrare in casa mia senza aver bisogno di rubare nulla. Se non
fosse stato per Robin quale altra possibilità avrei avuto per
averti qui, vicino a me, ora ?”
La donna sorrise con dolcezza e poggiò la mano rugosa ma morbida
sulla guancia del commissario. Quest’ultimo era in palese imbarazzo
e con tempismo da vero timido professionista ruppe immediatamente il
silenzio: “Le andrebbe di raccontarmi del suo incontro con il
ladro ?”
“Certamente. Tu devi assolutamente aiutarmi a ritrovarlo. Lui
ha aperto la porta.
Se non lo avesse fatto io non avrei nemmeno scoperto di averne una.”
Stavolta fu una porta aperta quella che Cuconato lasciò alle
spalle. E quando è una storia ad uscire da essa centinaia di
altre se ne aprono dentro di noi, come se all’improvviso scattassero
delle serrature invisibili e permettessero ai pensieri di circolare
finalmente liberi, senza ordini ed ordine, senza dover aspettare la
benedetta ora d’aria.
Si può vivere anche solo per un’ora ?
Una vita non lo so, non saprei dirlo ma sicuramente un pensiero si era
liberato definitivamente nel cervello del Cuconato: l’ora appena
passata, quella mattina, valeva già l’intero giorno che
l’avvolgeva.
Testimone numero quattro: Don Maurizio
Martini, parroco, classe 1927:
Il commissario non si poteva certo definire uno stinco di santo. Non
era ateo ma nemmeno un fervente fedele. Apparteneva a quella strana
e misteriosa setta che viene di solito chiamata I Cattolici non praticanti.
Appena arrivò in prossimità di San Plumbeo, la chiesa
del quartiere, venne subito fermato da due maturi chierichetti: “Non
entri là dentro”, disse uno.
“Don Maurizio ha ‘sbroccato’ ”, aggiunse l’altro.
Il commissario non ne fu sorpreso in quanto era proprio questa la ragione
che aveva attribuito a tutta la storia del furto. Ma, effettivamente,
le due testimonianze appena ascoltate stavano creando in lui una certa
confusione. In ogni caso entrò nella chiesa con estrema curiosità.
La scena era apocalittica. Il vecchio sacerdote stava ammucchiando tutte
le panche destinate ai fedeli sui lati della sala ed aveva ormai sgomberato
l’intero spazio creando con le sedie un grande cerchio. Aveva
tutti i capelli spettinati, la barba lunga ed indossava un jeans, una
maglietta ed era senza scarpe.
“Ehm… mi scusi padre. Posso disturbarla ?” disse facendo
rimbombare la sua voce nella chiesa. Altrettanto tonante arrivò
quella del prete: “Disturbarla ?! Ma ti prego. Questa è
la tua casa” rispose Maurizio che improvvisamente si era dimenticato
delle panche ed aveva trasferito ogni sua attenzione sul nuovo arrivato.
“Mi chiamo Cuconato, sono commissario di polizia. Vorrei chiederle
qualcosa sul furto da lei denunciato, se è possibile”,
disse avvicinandosi e porgendo la mano.
Maurizio gliela agguantò e trascinandolo con forza su una panca
si sedette vicino a lui e gli disse: “Robin Dream. Sì,
dobbiamo parlarne. Di questo parleremo alla messa oggi, seduti in cerchio.
Di questo parlerò tutto il giorno con chiunque entrerà
in chiesa. Non è quello per il quale sono qui ? Dimmi. Non è
questa la ragione per cui tu mi vuoi ? Non sono qua dentro per parlare
con te ed ascoltarti ? E qual è l’argomento migliore se
non la vita stessa, con tutto quello che comporta ? E quanta di essa
ci sfiora ogni giorno e prima di andarsene ci supplica di raccontare
ed ascoltare a nostra volta ?”
Cuconato non sapeva che dire. Tuttavia, meccanicamente, si sentì
rispondere:
“Sì, padre. Io sono qui proprio per ascoltare. Mi parli
di Robin.”
“Volentieri. Non puoi immaginare quanto, volentieri.”
Testimone numero cinque, sei, sette fino al…primo, Mirko Parisi,
ex maestro elementare, colui che fu salvato da un abete, classe 1927:
Era ormai sera, ore diciannove ed un quarto, in quel momento della giornata
che preferisco. Quando il cielo si colora di quella luce azzurro opaco,
con venature di un blu gentile, non invadente, con il silenzio che si
crea in strada perché ormai sono quasi tutti rientrati in casa,
le famiglie si ritrovano e tutto rallenta, non si ferma perché
sarebbe chiedere troppo, tale privilegio è concesso solo alla
notte. No, in quell’istante, seppure così breve, è
ancora giorno eppure la corsa prende fiato, si può finalmente
parlare con calma, guardarsi con calma. Fino a quell’ora Cuconato
aveva ascoltato una storia con centinaia di voci diverse, condita con
ogni tipo di memoria, intrisa di vita vissuta e di voglia di viverne
ancora, con una miscela di euforie scatenate da un inarrestabile desiderio
di ringraziare sempre la stessa persona: Robin Dream, di professione
ladro.
Il commissario non sapeva più cosa pensare, con quale nome incasellare,
nella sua di memoria, le informazioni che aveva incamerato quel giorno.
Ogni tanto la sua mente si soffermava sul rapporto che avrebbe dovuto
redigere al mattino seguente e, puntualmente, fuggiva via, terrorizzata.
La cosa che lo impressionava di più era la più temibile.
E cioè che, dopo una giornata come quella, cominciava a credere
che Robin Dream esistesse realmente. Fu con questo stato d’animo
che suonò a casa di Mirko Parisi. “Signore, è inutile
che suoni. – disse un bimbetto alle sue spalle mentre lo tirava
per la giacca –
il signor Mirko non c’è.”
Cuconato si voltò e, senza dire niente, accarezzò i capelli
del ragazzino e si allontanò dal portone, indietreggiando. Dov’era
andato Mirko Parisi ? Dove poteva essere andato un vecchietto di settantasei
anni dopo aver vissuto una notte simile a quella che il commissario
aveva udito raccontare in cento lingue diverse ? Ma ormai anche quest’ultimo
era stato infettato da quella storia. Pensandoci bene il commissario
sapeva dov’era Mirko. Fu così che in pochi minuti raggiunse
un orribile mostro di metallo che un tempo era stato uno splendido albero.
Mirko si era arrampicato su di esso e da lassù osservava il fiume
correre.
“Buonasera” disse il commissario. Parisi non rispose. Cuconato
salutò di nuovo e idem come sopra.
Ma ve l’ho detto. Il poliziotto era ormai spacciato. Quindi, senza
pensarci su troppo, anche se con estrema goffaggine, salì anch’egli
su quello che avrebbe dovuto sembrare un albero.
Pochi secondi dopo e con una voce completamente diversa disse al compagno
di postazione: “Come è bello il fiume visto da qui. Mi
sembra di guardarlo per la prima volta.” Fu così che il
vecchietto si voltò per un attimo e poi disse: “Io è
la seconda. L’avevo dimenticato. Avevo dimenticato che per ben
tre giorni ho avuto questa possibilità. E non solo quella di
vedere un fiume. Davide e Mauro, i miei fratelli, ora non ci sono più
e da allora non abbiamo più parlato di quello che ci siamo detti
in quei giorni.
Sai ? Davide voleva essere come Mauro. Il primo era timido e piuttosto
pauroso mentre l’altro era veramente quello che ti aspetti da
un fratello maggiore: sicuro di sé, forte, anche fisicamente
parlando, il che non guastava mai se qualche ragazzetto più grande
voleva farci dei dispetti.
E Davide, quando Mauro parlava, stava fermo in ascolto, registrando
tutto. Anche io ero piuttosto silenzioso, ma non per timidezza. Semplicemente
avevo tanto da pensare ed ogni volta che mi si chiedeva qualcosa avevo
il timore di non trovare le parole giuste per rendere quello che passava
per la mia testa.
Ma in quei giorni, tutti e tre abbiamo avuto un’occasione irripetibile.
Sopra un abete, con il diluvio ed un fiume finalmente libero di correre
dove voleva, non c’erano differenze d’età, di ruolo
sociale o familiare, di semplice grandezza muscolare. Proprio Davide,
l’introverso Davide, diede il via alle danze:
Su un abete, 1933:
Davide: “Che facciamo Mauro ?”
Mauro: “Aspettiamo che l’acqua scende.”
Davide: “E se non scende ?”
Silenzio.
Mauro: “Ma sì che scende, non aver paura.”
Davide: “Se non scende lo so io che facciamo.”
Mauro: “ Ah sì ? E che cosa facciamo ?”
Davide: “Diventiamo dei pesci e nuotiamo fino a casa.”
Il bambino disse ciò con una tale serietà che tutti e
tre scoppiarono in una grande risata.
Mirko: “Non è meglio se diventiamo uccelli e voliamo via
? Non facciamo prima ?”
Mauro: “E’ vero, così non ci bagniamo!”
Davide: “Ma siamo già bagnati! E se non c’era l’ombrello
mio…”
Mauro: “Ma se diventiamo uccelli o pesci che te ne fai dell’ombrello
?”
Davide: “Già, lo lasciamo qua.”
Mirko: “Sicuro. Sarà la nostra prova.”
Mauro: “La prova di che ?”
Mirko: “La prova che tre bambini, nel 1933, sono diventati degli
uccelli.”
Davide: “O dei pesci.”
“Vedi, la cosa che più
mi addolorò, quando seppi che l’albero non c’era
più, non era per l’abete in sé ma per l’ombrello,
il nostro ombrello. Il giorno dopo venni qui e trovai il manico, con
l’intelaiatura tutta bruciacchiata. Eccolo – porgendolo
al commissario – lo avevo messo sopra un armadio, dentro una vecchia
scatola piena di cianfrusaglie.”
Cuconato, con la prova in mano, rifece la domanda che oramai sapeva
alla perfezione: “Le andrebbe di parlarmi del furto di stanotte
?”
“Anche tu vuoi trovare Robin Dream, eh ? E’ un fatto personale,
ora, no ?” disse tenendo intensamente i suoi occhi grigi su quelli
del poliziotto.
“Sì…” rispose quest’ultimo, inevitabilmente.
“Allora sentimi bene. Perché ti dirò qualcosa che
tutti gli altri sicuramente non ti hanno ancora detto.”
Un testimone in più, Pierpaolo,
figlio di un normale commissario, classe 1994:
Cuconato rientrò in casa per le venti, tutto bagnato fradicio,
sorpreso da una pioggia improvvisa, sorridente e con un prezioso manico
d’ombrello in mano.
La moglie gli venne incontro, palesemente preoccupata e lo aiutò
in silenzio a levarsi di dosso gli abiti zuppi. Nulla però le
permise di fargli posare quel pezzo di metallo e plastica che un tempo
era stato una prova. Suo figlio, Pierpaolo, era seduto per terra davanti
alla televisione e rispose al suo ciao senza smettere di guardare lo
schermo. Proprio in quell’istante un fulmine decise di colpire
ancora.
Sì, qualcuno non ci crederà, ma a volte ritornano.
I fulmini, intendo. E un intero quartiere a cui fu rubato il nome rimase
al buio. La signora Cuconato si impegnò ad accendere e sistemare
candele in tutte le stanze, partendo proprio dal soggiorno, dove Pierpaolo
era rimasto immobile e seduto per terra. Mentre la donna era in giro
per la casa, in quella luce soffusa, Francesco si avvicinò al
figlio, si sedette di fronte a lui e, con la prova in grembo, disse
lentamente: “Ti va di ascoltare una storia ?”
Chissà, forse con la tv accesa sarebbe stata un’impresa
ardua, forse col favore della luce elettrica, la tv, quel mostro orribile
che è il nulla che uccide i silenzi avrebbe impedito ad un bambino
di nove anni di fidarsi del proprio padre. Ma, in quel momento, la situazione
era quanto mai propizia: “Sì, papà.” Si limitò
a rispondere Pierpaolo. E Francesco, con la gioia nel cuore ed i resti
di un ombrello stretti fra le mani, cominciò così:
“Ti racconterò la storia di Robin Dream. Che rubò
i sogni ai vecchi per donarli ai bambini.”
La notte che seguì, la corrente
non tornò. Si fece viva quando era ormai mattina.
Almeno per una notte, tutto un quartiere di Roma fece lo stesso sogno:
di essere di nuovo Sant’abete.
Tutti tranne uno. Un commissario di polizia di nome Francesco Cuconato.
E fu la prima volta che un poliziotto sognò di ringraziare un
ladro.