Metodi Storie e Annunci
Armando Gnisci

Ringrazio chi mi ha invitato e chi mi ha ospitato e chi oggi, come voi, è venuto qui ad occupare il suo tempo ed ascoltarci. Io spero, mi riferisco ai ragazzi che sono i più numerosi nel pubblico, che queste ore che passerete con noi siano altrettanto utili di quelle che avreste passato con i vostri professori in classe.
    Accademicamente, il mio intervento ha il titolo di relazione introduttiva. Io non farò alcuna relazione ma introduzione sì, per il fatto che ho la responsabilità di parlare per primo. Vi presenterò una specie di contenitore dentro il quale ho infilato delle storie: vi racconterò delle storie e poi alla fine vi darò degli annunci. Per raccontarvi queste storie e per arrivare alla fine del mio discorso all'inizio ci sarà, sta per esserci, una dichiarazione metodologica, cioè la dichiarazione delle carte che vi permettono di giocare oggi questa partita con noi.

Metodologia

Sostengo che raccontare storie sia una delle attività fondamentali degli umani, come singoli, come tradizione, come popoli. Raccontiamo storie sempre, ogni giorno, diverse volte durante il giorno: per esempio quando qualcuno ci chiede: "Hai dormito bene?" Dormire, attraversare il sonno, non è forse la stoffa di una storia? Una storia che non conosciamo e che, se qualcuno ce la chiede,  - hai dormito bene? - noi in qualche modo siamo costretti a tirar fuori dal tessuto di ombra e di luce della nostra notte.

E anche se ci limitiamo a dire, "sì, ho dormito bene" abbiamo riassunto una storia. E ancora, quando torniamo a casa se siamo giovani come voi nostra madre chiede: "com'è andata oggi?"; nostra moglie chiede: "com'è andata oggi?"; nostro marito chiede: "com'è andata oggi?": non si tratta di storie che qualcuno sta invocando da noi? Rispondiamo "bene" e passiamo oltre. Quel "bene" copre tonnellate di storie che non diciamo.  Oppure, se siamo dei chiacchieroni, cominciamo a dire "oggi ho fatto quello e quell'altro", "Ti ricordi quando?…Ti ricordi quella volta…?". Raccontiamo un sacco di storie fino a che nostra moglie, nostro marito, nostra figlia, nostro nipote dice: "A papà, basta…datte 'na calmata" come dicono a Roma.
   Le storie ci attraversano, ci trapassano, ci costituiscono, eppure non ce ne accorgiamo. Raccontare storie è l'atto con il quale ci prendiamo la responsabilità di dare un senso al tempo, ai frammenti di tempo dai quali noi siamo costituiti; all'insensato dal quale la nostra giornata è fatta. Allora, come dice un grande filosofo francese che si chiama Paul Ricoeur (eviterò le citazioni erudite: solo all'inizio ve ne do alcune): scrivere una storia, raccontare una storia significa dare un senso ai frammenti di tempo dai quali noi siamo costituiti, dare senso al  nostro tempo e nello stesso tempo dare tempo, una temporalità al senso.
    Questo è il primo avviso metodologico che volevo darvi.
Il secondo è che dobbiamo imparare a pensare a noi stessi non  come ci insegnano qui - siamo in un liceo classico - i maestri della filosofia occidentale, soprattutto Cartesio, e cioè che io esisto se penso. Ma dobbiamo imparare a pensare e a vivere pensando che io esisto se qualcuno mi pensa;  e ancor meglio, se qualcuno mi pensa e me lo dice,  perché se qualcuno mi pensa e non me lo dice io non lo so, non esisto, non sto bene. Sto bene se qualcuno mi pensa e me lo dice. È chiaro che mi deve pensare bene, perché se pensa male di me e me lo dice ci starò male; ma se pensa bene di me io mi sento esistere; e se me lo dice io mi sento esistere bene.
  
Questa è, a mio vedere, una delle pochissime possibilità della gioia tra gli umani, insieme alla musica (ma della musica non posso parlare qui: mi manca il tempo).
    Quando noi costituiamo con l'altro -  che sia un bambino e io  un adulto, che sia un nero e io  un bianco, che sia una donna e io  un maschio: tutta la diversità dell'umano,  e anche gli animali, come diceva San Francesco, e il pianeta di cui facciamo parte - Quando stabiliamo con l'alterità e i testi che ci vengono dall'antichità – Omero o Dante, sono altro rispetto a noi – quando stabiliamo con l'alterità, qualunque essa sia, un rapporto dobbiamo pensarlo come un rapporto di assecondamento reciproco.
  
L'assecondamento reciproco, che sembra un concetto troppo complicato, corrisponde a quello che vi ho detto prima rispetto all'ascolto reciproco: Io sto bene se voi mi ascoltate, se sento che voi mi state ascoltando e voi state bene se quello che sto dicendo interessa il vostro ascolto, perché se io vi sto annoiando voi, a vostra volta, reagite facendomi vedere la vostra noia e io sto male a mia volta.
   Stiamo insieme in un doppio vincolo; ed è importante che questo doppio legame non diventi una trappola infernale; al contrario, che noi riusciamo a trasformarlo in un assecondamento reciproco: io assecondo voi, vengo per secondo dopo di voi, voi venite per secondi dopo di me e insieme ci assecondiamo.
   Ancora un altro avvertimento metodologico sul metodo stesso.
  
Che cos'è un metodo? È la strada mentre la percorriamo, ha scritto un grande poeta spagnolo, Antonio Machado. La strada, il cammino più esattamente, il cammino mentre lo stiamo facendo. Non è quello che sta prima; sta avvenendo ora, invece. Il mio metodo, che io vi sto esplicitando,  è lo stesso avvenire del nostro incontro, l'avvenire adesso, qui.
  
Il metodo, ancora, oltre che la strada mentre la facciamo è la strada quando ci volgiamo a guardarla dopo averne fatto un pezzo. Guardiamo indietro e vediamo dove, come, quando siamo passati: quello è il metodo.
   Il terzo avviso, e questa secondo definizione di metodo l'ha data un grande storico delle religioni francese che si chiama Georges Dumezil.
   La terza citazione che vi faccio, poi vi prometto che non ve ne faccio più, è invece di un grande pedagogista brasiliano che si chiama Paulo Freire, il quale dice: "il mondo non è; il mondo si va facendo".
A questa, chiamiamola, teoria fa riferimento tutto quello che ho detto fino ad ora.

E adesso vi racconto le storie.

La prima storia è che io conosco gli scrittori migranti da più o meno  dodici anni. Conosco i loro scritti e conosco loro, alcuni sono miei amici. Con gli scrittori migranti, coloro i quali sono venuti in Italia come stranieri per venire a vivere tra di noi e sono diventati in qualche modo come noi, per esempio usando la nostra lingua e addirittura decidendo di scrivere i loro racconti e le loro poesie nella nostra lingua, con questi stranieri e non stranieri che vivono in una specie di zona d'ombra tra l'identità italiana e un'altra identità o altre identità -  come Carmine Abate che sta al mio fianco, che è nello stesso tempo italiano, calabrese, arberesh, migrante, ex germanese e chissà quante altre cose, che ha tre lingue madri: chi può dire di avere tre lingue madri? Non una e le altre due perfettamente conosciute. No, tre lingue madri, cioè tre madri - io con loro, con gli scrittori migranti,  ho imparato a coevolvere, ad assecondarli nella reciprocità, a coevolvere, a trasformarmi.
  
Ho innanzitutto cominciato a capire che cosa significa essere europeo. Ho imparato, e se non  li avessi conosciuti e non fossi in un "commercio" continuo  con loro, in un commercio di idee, in un commercio di amicizia e di sentimenti, in un commercio di azione reazione reciproca, non avrei mai capito come sto capendo da allora, cioè da per lo meno una decina d'anni, che cosa significa essere europeo e che cosa significa essere “nativi” europei. Ma su questo non posso dilungarmi, potete trovare sul banchetto in fondo alla sala delle copie di un mio libro recente, del 2001, che ha per titolo Una storia diversa. Anche lì si scrive una storia, quella della letteratura europea dal punto di vista della colonizzazione e della decolonizzazione. Attraverso il rapporto con gli scrittori migranti, e spero anche loro attraverso il rapporto con me, ho cominciato a capire che cosa significa essere cresciuti dentro la comunità europea ed essere responsabili di questa novità.
   Responsabili, ricordate, significa essere capaci di rispondere, non solo essere i sovrintendenti, gli amministratori,  di una  questione (tu sei responsabile di questo ufficio, di questo compito…); significa soprattutto, essere in grado di rispondere se interrogati su quello che stai facendo, che hai fatto, di cui hai l’impegno di rispondere.
   Adesso devo decidere stando con voi quale delle mie storie raccontarvi e poi, se le mie storie vi interessano potete restare in contatto con me, chiedendomi l'indirizzo e-mail, inseguendomi, leggendo i miei libri.
  
Vi racconterò per prima la storia di due ragazzi africani, due ragazzi della Guinea, di 14 uno e 15 anni l'altro, che un giorno si imbarcarono su un aereo della Sabena che partiva dall'aeroporto internazionale di Bamako la capitale del Mali, loro venivano da Conakry, la capitale della Guinea, che non ha un aeroporto internazionale e quindi arrivarono fino a Bamako, presero l’aereo per l’Europa, ma non acquistando due biglietti, ma infilandosi dentro il vano dei carrelli delle ruote. E lì, quando l'aereo arriva a 10.000 metri si fanno -56° e un essere vivente muore assiderato.
  
Arrivato l'aereo a Bruxelles, coloro i quali sono adibiti alla revisione immediata delle apparecchiature trovarono morti assiderati i due ragazzi, questi due bambini della Guinea, e trovarono nelle loro tasche una lettera con la quale si presentavano, venendo come clandestini in Europa. Si presentavano a noi, gli europei.
   La lettera fu pubblicata dai giornali belgi, se ne ebbe una eco anche in Italia, se ne parlò per un giorno; la storia di due bambini della Guinea che muoiono a -56° può interessare, forse, più di un giorno noi europei abitanti di Eurolandia? Ci commuoviamo un attimo, un attimo solo, un giorno, poi una storia del genere ci annoia.
In Italia ne parlò "Il Manifesto" e basta. Nel settembre del '99 l’ evento, che era accaduto il 3 agosto del '99; nel settembre del '99, quindi con una grande tempestività, il mensile "Nigrizia", stampò come editoriale, cioè come primo articolo, il testo della lettera dei due ragazzi africani tradotta in italiano. Adesso ve la leggo prendendola appunto da "Nigrizia". Sostengo che questa lettera dovrebbe essere testo di studio in ogni scuola italiana ed europea, perché è diretta a noi, e noi siamo i responsabili. Ognuno di noi europei di Eurolandia dovrebbe rispondere a questi bambini.
   Cercate di fare per qualche minuto il vuoto dentro di voi, il vuoto è come una mandorla aperta e vuota dove dentro non c'è la mandorla. Pensate di creare dentro di voi questa mandorla vuota, aperta dentro di voi e fate sì che io entri, che la mia voce entri in questa mandorla vuota, proviamo:

  Conakry, 29 luglio

Eccellenze, Signori membri e responsabili d'Europa, abbiamo l'onore, il piacere e la grande fiducia di scrivervi questa lettera per parlarvi dell'obiettivo del nostro viaggio e della nostra sofferenza di bambini e giovani dell'Africa. Voi siete per noi, in Africa, coloro a cui chiedere soccorso. Noi vi supplichiamo, per amore del vostro continente, in nome dei sentimenti che nutrite per il vostro popolo e soprattutto per l'amore che avete per i vostri figli che amate per la vita. Inoltre, per l'amore del nostro creatore Dio onnipotente che vi ha dato tutte le buone esperienze, ricchezze e potere per ben costruire e organizzare il vostro continente e farne il più bello e ammirabile tra tutti. Signori membri e responsabili d'Europa, è per la vostra solidarietà e gentilezza che noi vi chiediamo soccorso in Africa. Aiutateci, noi in Africa soffriamo enormemente, abbiamo dei problemi e alcune mancanze a livello di diritti. Abbiamo la guerra, le malattie, la penuria di cibo, ecc. Quanto ai diritti dei bambini, e' in Africa e soprattutto in Guinea che abbiamo troppe scuole ma una gran mancanza di istruzione e insegnamento. Salvo nelle scuole private dove si può avere una buona istruzione e buon insegnamento, ma ci vogliono forti somme di denaro. Ora, i nostri genitori sono poveri e ci devono nutrire. Inoltre non abbiamo neanche scuole sportive dove praticare il foot-ball, il basket o il tennis. Per questo noi, bambini e ragazzi dell'Africa, vi chiediamo di fare una grande, efficace organizzazione per l'Africa per permetterci di progredire. Dunque se vedete che ci sacrifichiamo e mettiamo a repentaglio la nostra vita e' perché in Africa si soffre troppo e c'e' bisogno di lottare contro la povertà e mettere fine alla guerra in Africa. Infine, vi preghiamo di scusare molto per aver osato scrivere questa lettera a Voi, i grandi personaggi a cui dobbiamo molto rispetto. E non dimenticate che è con voi che dobbiamo lamentarci per la debolezza della nostra forza in Africa.


Yaguine Koita e Fodé Tounkara

 

L'ultima frase nel tono dolce, gentile, leggero di tutto il testo, appare più intensa. Il francese era ottimo, dissero i giornalisti di Le Soir, il giornale di Bruxelles.
  
Nell'ultima frase i due ragazzi ci ricordano le nostre responsabilità: " E non dimenticate che è con voi che dobbiamo lamentarci per la debolezza della nostra forza in Africa".
   Noi europei occidentali, noi grandi colonizzatori, gli illuminati, coloro che hanno portato la luce in tutti i mondi, la luce della ragione, del progresso e della tecnica, e la luce di Cristo, della fede e della verità in Dio. Coloro i quali possedevano e possiedono le armi più sofisticate, gli argomenti più potenti, le opere più grandi mai costruite. Noi non costruiamo capanne di fango, noi costruiamo con il granito, con la pietra. Siamo i più potenti del mondo e per questo siamo andati in Africa e nelle Americhe, in Asia e in Australia. Gli inglesi addirittura fecero dell'Australia il loro carcere, un intero continente, serviva per mandarci i malfattori: perché tenerli a Londra? o a Birmingham? Mandiamoli dall’altra parte del mondo. A questa gara per portare la luce della nostra civiltà, abbiamo partecipato anche noi italiani. Mi viene da raccontarvi la storia di Adua, ve la racconto in breve: nel 1896 occupammo l'Etiopia, nel 1896, il 2 marzo, il generale Baratieri si schierò con 20.000 italiani contro 60/70.000 etiopi, però il generale Baratieri aveva una grande artiglieria ed era un discendente di Giulio Cesare, dei grandi condottieri dell'occidente europeo, di quelli che sanno schierare in battaglia le truppe, di quelli che hanno fatto scuole di guerra per millenni e avevano di fronte un'orda di selvaggi.
   Ad Adua morirono 5.000, secondo alcuni storici, 7.000 secondo altri, italiani. Che siano 5.000 - accettiamo pure la stima più bassa - ; 5.000 italiani morti ad Adua  significa più di tutti gli italiani morti durante le guerre risorgimentali. Eppure voi, sui manuali di storia studiate certamente il Risorgimento. Per quanto? 80 pagine? 100? E la battaglia di Adua per quanto la studiate? C'è scritta sui vostri manuali? E dove sta scritta? E quanto se ne parla?  E noi italiani chi siamo? Noi siamo buoni, brava gente. In Africa abbiamo portato luce, strade, acqua, telefono, gas.
   Noi italiani abbiamo dimenticato, abbiamo rimosso la nostra responsabilità coloniale, per cui quando i due ragazzini della Guinea dicono "non dimenticate che è con voi che dobbiamo lamentarci" non tiriamoci indietro come facciamo sempre.
   Non diciamo che questa è una storia che riguarda i belgi, i francesi, gli inglesi; quelli sì che sono stati dei colonialisti e dei pessimi colonialisti; noi lo siamo stati per pochissimo tempo e siamo stati buoni.

Non è vero! Questa è una storia che dobbiamo ancora raccontarci, per bene, noi italiani.

Adesso vi racconto un'altra storia, e poi smetto. Questa volta è una poesia, una poesia di Derek Walcott, un grande poeta caraibico, premio Nobel, nero, quindi di origine schiava, di quei neri che gli europei e gli arabi, ma più gli europei, deportarono dalla costa atlantica per centinaia di anni nelle Americhe e in Europa. In Europa facevano i camerieri nelle case dei nobili e dei borghesi.  Nelle Americhe gli schiavi.
  
A La Havana c'era il più grande mercato di schiavi. A La Havana venivano venduti o per i grandi facenderos  dell'America del Sud, del Brasile in particolare, oppure per i grandi agrari dell'America del Nord, e diventavano schiavi nelle piantagioni di cotone del nord e di cacao del sud.

Derek Walcott è un discendente di questi infelici, ma come tutti i caraibici ha trasformato il dolore, l'infelicità in gioia, in capacità di vivere gioiosamente la vita. Beati loro, noi europei siamo così tristi.
   Derek Walcott dice di sé “io sono un nero con i capelli rossi". Perché è un nero i cui antenati si sono incrociati con gli olandesi e gli inglesi.
   Questa poesia è stata scritta  da Derek Walcott il 16 giugno del 2000, in onore del grande fotografo brasiliano Sebastiano Salgado. Sebastiano Salgado ha fatto una delle sue ultime grandissime, bellissime  mostre fotografiche, forse la più bella, almeno secondo me, che si chiama "In cammino". Essa è dedicata ai migranti di tutto il mondo, non soltanto ai migranti che affrontano l'avventura della migrazione per cercare un mondo migliore, anche ai rifugiati, anche a quelli che fuggono dagli stermini e che sono costretti a scappare dalla loro patria come i Kurdi, un popolo che non ha una terra, ha soltanto una diaspora, e che quindi, visto che è assediato e sterminato da tutti, deve fare ricorso alla lotta armata.
   Ricordatevi che la lotta armata nonostante quello che dicono le televisioni italiane ogni sera -  di essere dei bravi pacifisti,  e soprattutto,  se si è pacifisti,  che nella situazione attuale bisogna essere pacifisti pro Israele, perché Israele ha il diritto di esistere e i palestinesi sono dei terroristi - ricordatevi che vi stanno ingannando.  Il diritto alla lotta armata è sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell'ONU del 1948. Procuratevelo questo libriccino e leggetelo a scuola. Sono pochissime pagine. Nel terzo paragrafo del preambolo, i popoli della Terra, il 10 dicembre del 1948 scrissero:

"E' indispensabile che i diritti dell'uomo siano protetti da norme giuridiche se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere come ultima istanza alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione".

E la IV Convenzione di Ginevra dell'83 ha ancora sancito questo principio. E' giusto ribellarsi contro il tiranno, come diceva l'Alfieri, un poeta che voi studiate.
Vi leggo questa poesia per addolcirci e salutarci. Prima degli annunci finali. Ve ne lascio il testo, così potete fare delle fotocopie.

L'onda della marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche
selvatiche, gli occhi di carbone nei vagoni merci, le facce
smunte, e in particolare lo sguardo fisso dei bambini
emaciati, gli enormi fardelli che traversano i ponti, gli assali
che cricchiano con un suono di giunture e di ossa, la macchia scura
che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme,
come succede ai corpi dei morti dentro le fosse di calce, o come
fa il pacciame luccicante che si disfa sotto i piedi in autunno nel fango, mentre il fumo di un cipresso segnala Sachsenhausen,
e quelli che non stanno sopra il treno, che non hanno
muli o cavalli,
quelli che hanno messo la sedia a dondolo e la macchina
per cucire
sul carretto a mano perché da tempo le bestie
hanno lasciato i loro campi al galoppo per tornare alla mitologia
del perdono,
alle campane di pietra sui ciottoli della domenica
e al cono
della guglia del campanile aranciato che buca
le nubi sopra i tigli,
quelli che appoggiano la mano stanca sulla sponda
del carro
come sul fianco del mulo, le donne con la faccia di selce
e gli zigomi di vetro, con gli occhi velati di ghiaccio
che hanno
il colore degli stagni dove posano le anitre,
e per le quali
c'è un solo cielo e una sola stagione
nel corso di un anno
ed è quando il corvo come un ombrello rotto sbatte le ali,
si sono tutti ridotti alla comune e incredibile lingua
della memoria, e questa gente che non ha una casa e nemmeno
una provincia parla delle fonti limpide e parla delle mele,
e del suono del latte in estate dentro le zangole piene,
e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco
quel lago e anche le locande, la birra che si beve,
e quelle sono le montagne dove riponevo la mia fede,
ma adesso sulla carta, che è simile a un mostro, altro non si vede
che una rotta che ci porta verso il Nulla, anche se sul retro
c'è la veduta di un posto che si chiama la Valle del Perdono,
dove il solo governo è quello dell'albero di pomi e le forze
schierate dell'esercito sono gli striscioni di orzo
all'interno di umili tenute, e questa è la visione
che a poco a poco si restringe dentro le pupille
di chi muore e di chi si abbandona in un fosso,
rigido e con la fronte che diventa fredda e grigia come le nuvole
che, quando il sole si leva, si trasformano subito in cenere
sotto i pioppi e sopra le palme, nell'ingannevole aurora
di questo nuovo secolo che è il vostro.

Santa Lucia, Caraibi 16 giugno 2000

 

Il poeta ha lasciato al secolo che viene, che entra, il XXI, il destino di essere il secolo dei migranti, di coloro che si muovono, di coloro che non stanno fermi, di coloro che cambiano aria, cambiano lingua, cambiano mente.
    I migranti sono quelli che cambiano il mondo, non quelli che stanno seduti davanti alla TV, non quelli che restano lì, lì dove capitano, dove possono.
   I migranti sono, siamo tutti noi che ci muoviamo all'interno della storia della specie umana e la specie umana è una specie di migranti nata milioni di anni fa nella Rift Valley, tra il Kenya e l'Etiopia. E una specie dispersa, nella diaspora. La parola greca "diaspora" significa disperdersi, ma anche inseminare, ricordatevelo, non significa soltanto esser perduti nell'altrove, nei tanti altrove, ma significa anche quegli altrove dove si va a perdersi per inseminarli.
   L'uomo, la specie umana, è non stanziale: si mosse dalla Rift Valley e attraverso il passaggio di Malta, che allora nel Mediterraneo era un ponte di pietra di cui oggi resta solo il piccolo arcipelago maltese, attraverso il Medioriente, la Palestina ecc. andavano in Asia e dall'Asia attraverso lo stretto di Bering invasero 30.000 anni fa le Americhe e arrivarono fino alla Terra del Fuoco. E dall'Oceania andarono in Australia.
  
     Noi siamo una diaspora in cammino, non lo dimentichiamo.

Gli annunci: per la fine di giugno, dal 21 al 28, su iniziativa dell'Istituto di Cultura Tedesca in Italia, e insieme ad altri istituti di cultura, lo svizzero, l'austriaco e il francese, con il Comune di Roma e la mia cattedra stiamo organizzando il primo festival europeo degli scrittori migranti, e quindi siete tutti invitati. Se volete notizie di quest'iniziativa potete scrivermi all’indirizzo armando.gnisci@uniroma.it; e potete leggere la rivista on line che tratta gli argomenti dei quali vi ho parlato: www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html
        Si chiama Kuma, che vuol dire “Parola”, nella lingua barbara, dell’Africa occidentale.

 


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