Una conchiglia nella valigia
Julio Monteiro Martins

Innanzitutto vorrei ringraziare per questo prestigioso invito e grazie soprattutto a voi, alla vostra attenzione, alla vostra presenza qua, ora. Io sono un uomo che racconta storie, non sono un teorico, non sono uno studioso, piuttosto sarei oggetto di studio più che uno studioso. Un uomo che racconta storie, allora quello che vorrei portare a voi sono una o due storie, ma soprattutto una testimonianza personale vissuta, un po' della mia esperienza che è un'esperienza caratteristica di questi nostri tempi, tempi di grandi cambiamenti storici che hanno raggiunto la mia vita personale.
Infatti io non riesco più a distinguere cosa è vita da cosa è letteratura e vorrei introdurre questa testimonianza facendo prima una dichiarazione d'amore.
Io amo la letteratura e credo nella letteratura. Fernando Pessoa, un grande poeta portoghese dell'inizio del Novecento, diceva 'la mia patria è la lingua portoghese' e io dico come l'ho sempre sentita: la mia patria è la letteratura, ma la mia letteratura è il mondo della letteratura, è il mondo dove sempre mi sono sentito a casa. Allora, siccome questo mondo, la percezione dello sviluppo di questo mondo, è stato per me una priorità assoluta, ho sacrificato la patria geografica…
Nella mia vita personale la mia esperienza è che loro sono entrate in conflitto, in uno scontro così assoluto che io sacrificavo una o sacrificavo l'altra: ho sacrificato la lingua e perché l'ho fatto? L'ho fatto perché non ho della letteratura una nozione utilitaria; la letteratura, la creazione letteraria, questo gigantesco mondo alternativo delle storie non è uno strumento, un mezzo per fare una persuasione politica, per difendere delle idee sociali oppure per fare dei movimenti di avanguardia estetica. Può anche servire a questo, ma è soprattutto fine a se stessa, cioè secondo me la letteratura è l'unico vero linguaggio che è rimasto per opporsi all'omologazione di tutti gli altri linguaggi, parlo di quella tremenda cosa che è il linguaggio pubblicitario, il linguaggio globalistico, il linguaggio giornalistico. C'è rimasta la letteratura. La lingua per me, la mia lingua madre - guarda che in quest'espressione 'lingua madre' c'è dentro come parte strutturale costitutiva la parola madre, tradire la lingua madre, ciò che vuol dire qualcosa come tradire la madre. Non vedo la lingua in modo strumentale ma se dovessi scegliere di fare strumentale una di queste due lo farei per la lingua, piuttosto utilizzo diverse lingue purché la letteratura sia salva. Forse questa parola, tradire, può sembrare troppo forte, ma probabilmente è questo il sentimento dei miei lettori tradizionali brasiliani. Prima di venire a vivere in Europa ho pubblicato nove libri, il mio primo libro brasiliano è del 1975, allora avevo una vita letteraria lunga più di 20 anni, tutti quei lettori mi dicono, a volte mi scrivono, amici, o ex ragazze che accompagnarono il mio sviluppo letterario della gioventù e mi dicono: ma non posso più leggere i tuoi libri? I miei cugini, per esempio, non possono più leggere le mie storie, perché non capiscono l'italiano
Pensate a questo, pensate che io li ho tutti abbandonati, ho abbandonato i lettori che, più che lettori, hanno accompagnato il mio percorso, per cambiare lingua, per costruire un altro scrittore con una sensibilità diversa, nella lingua madre di altri. Questo è il mio percorso personale. 
Ognuno ha la sua storia, il suo processo, il suo percorso e le sue rotture. Io ho avuto queste spaccature nella mia vita e ora cerco di gestirle al meglio.
Cos'è il migrante? La professoressa che ha parlato stamattina secondo me ha espresso un concetto che mi è molto caro, che io condivido: che ci sono oggigiorno diverse figure, c'è la figura del migrante che scrive le sue esperienze di migrazione e ci sono le persone che emigrano al servizio della letteratura stessa. Allora di questo secondo caso il fenomeno che conta, quello che interessa, quello che definisce la vita non è l'immigrazione, anche se essa è molto forte, ma è la letteratura, la scrittura. Che cos'è il migrare? Il migrare è l'esperienza umana più vicina alla morte che un individuo può vivere, può passare. E' una sorta di morte addomesticata, una morte che risparmia solo il corpo delle persone, perché allo stesso modo della morte uno che emigra non ha più storia: tutto quello che era, tutto quello che ha vissuto, tutte le persone che ha conosciuto, la sua infanzia, la sua infanzia che è parte della sua breve avventura personale. Una volta hanno chiesto a Flannery O'Connor se lei credeva di dover fare dei grandi viaggi, delle grandi avventure per poter avere argomenti su cui scrivere e lei ha risposto: chi è riuscito a sopravvivere all'infanzia può scrivere di qualunque cosa. Ha parlato dell'infanzia come se fosse una vera esperienza di guerra. E tutto questo è lasciato indietro da chi emigra, butta nel fosso del suo passato, nella sua tomba fino all'ultima parola della sua madrelingua, fino all'ultimo capo di vestito, per poi poter immigrare nudo, e nudo fare tutta questa esperienza, che è l'emigrazione. Una volta facevo un giro in Toscana, Armando Gnisci era presente, e in una riunione uno scrittore africano del Senegal mi ha raccontato che prima di fare quest'emigrazione, di fare questo viaggio in Europa per viverci, anche se la valigia era già piena - perché c'è questo rito della valigia, c'è la valigia, fare la valigia e fare la valigia per un viaggio turistico è una cosa, fare una valigia e scegliere cosa portare con sé, che cosa puoi portare per sempre, mettere in quella valigia quello che rimarrà di te stesso, costruire in quelle ore prima della partenza dell'aereo una sorta di fossile di te stesso che rimarrà dopo nella forma di qualche CD, nella forma di qualche scarpa, nella forma di qualche libro, di qualche vecchia fotografia. Questa è una delle esperienze più sconvolgenti che un essere umano può passare - questo scrittore del Senegal ha detto che l'ultima cosa che ha messo nella sua valigia era una conchiglia della spiaggia di fronte a casa sua. Sapete che sono rabbrividito? Perché anch'io l'ultima cosa che ho messo nella valigia è stata una conchiglia della spiaggia di fronte al mio palazzo, una conchiglia che mi è stata regalata da una bambina che giocava. E allora ho pensato 'ma che cosa, che cosa è una conchiglia, si parla di una conchiglia come di una cosa bella, ma che cosa è veramente una conchiglia?' Una conchiglia è un pezzo di scheletro, cioè un morto totale, è una cosa che non c'è più, è un animale che non c'è più. Io credo che inconsciamente, tanto lui quanto io, abbiamo fatto questa metafora accidentale di mettere questo scheletro vuoto dentro la valigia prima di emigrare nella speranza che l'essere mancante dentro la conchiglia possa riempirsi dopo, altrove. E ora scrivendo, parlando a voi, convivendo insieme a voi, io sto cercando di riempire un'altra volta quello scheletro vuoto di conchiglia.
Si parla molto, si domanda molto su cosa noi scrittori migranti - scrittori tout-court, scrittori punto e basta - potremmo significare per l'Europa di oggi e per la letteratura europea contemporanea, e questa è una domanda importante. Ma io farei anche la domanda vera: che cosa l'Europa significa per noi, che cosa ha sempre significato. Quei due ragazzi di cui Armando Gnisci ha letto la lettera, una lettera straordinaria, quei due ragazzi che sono morti in viaggio per l'Europa non sono venuti qui per caso, avevano una potente idea di Europa che gli ha fatto rischiare di perdere la vita. Che idea di Europa è questa? Che Europa è questa? Milan Kundera, in un discorso fatto a Gerusalemme qualche anno fa, ha fatto una dichiarazione molto curiosa, molto interessante. Lui ha detto: secondo me l'Europa, la vera Europa è un desiderio di essere Europa, non sono di fatto le persone che vivono tra gli Urali e il Portogallo, è un desiderio. C'è più Europa laddove questo desiderio è più forte. E concludeva: secondo me la vera Europa, la vera letteratura europea è stata fatta nell'ultimo secolo nelle Americhe, negli Stati Uniti prima e nell'America latina dopo, nell'Est europeo, nel Giappone, nel Nord dell'Africa, nell'Africa. Allora, che cosa siamo noi sudamericani? Noi siamo soprattutto quest'Europa piena di saudade, saudade è una delle parole più belle che ho mai conosciuto e che tanto voglio che sia una parola della mia lingua madre, anche se ho tradito la madre. Questa parola, saudade, che significa una sorta di sentimento agrodolce, il ricordo che ferisce ma che consola allo stesso tempo, una parte dell'esistenza già abbandonata e persa. Questa saudade è il sentimento potente che esiste tra noi europei, perché è questo che siamo, europei, siamo stati messi dalla storia, la storia con la S maiuscola, in quella parte del mondo che è sotto la linea dell'Equatore. Se voi non credete in me, se voi non credete che questo è il vostro più profondo e sincero e potente sentimento allora ascoltate un tango di Astor Piazzola, ascoltate Adios Nonino... E per me quest'Europa è un'Europa che voglio aiutare a riprendere i suoi migliori valori; noi siamo sopravvissuti dentro circostanze quasi indegne, dentro un ambiente oppressivo di violenza, violenza che continua a crescere e della quale siamo tutti, in America Latina, causa e anche conseguenza. Noi siamo sopravvissuti a quel tempo, a quelle circostanze per poter riprenderci altri valori in cui crediamo, sono i valori costruiti nell'Europa del passato ma che non necessariamente e purtroppo sempre meno esistono nell'Europa del presente. 
Allora chi sono io e come mi vedo? Io mi vedo come un europeo che ha passato 200 anni lontano dall'Europa, perché la mia famiglia, i Monteiro, sono andati in Brasile nel 1808 quando Napoleone ha invaso, il fratello di Napoleone ha preso il controllo di Lisbona e tutta la famiglia reale si è spostata a Rio de Janeiro. Per 200 anni sono rimasti lì; ora, penso, ho sentito dentro di me questo richiamo: era il mio momento di ritornare. Avevo il potere di scomparire nel buio. Io dico a volte che questa è la cosa che più mi affascina: se devo pensare ad una metafora sull'uomo io penso a una cometa, perché la cometa compare da un punto assoluto, dal nulla, proprio dal nero e sparisce dopo nel nulla assoluto. Però mentre esiste un sole, questo è, che siamo noi tra la nascita e la morte, questo sole. Al contrario delle comete però non abbiamo l'obbligo di tornare, in questo senso siamo diversi dalle comete. Allora prima che io scomparissi nel buio sentivo che avevo qualcosa da fare e questa cosa da fare era scrivere storie cercando di dare un piccolo contributo personale all'Europa, che un'altra volta riconoscesse se stessa nel suo meglio, non nel suo peggio. Perché l'Europa riprendesse nuovamente il suo antico profondo senso di giustizia e di generosità, senso che ha aiutato storicamente a creare. 
E questo quasi seminario ci dà un grande contributo. Questa non sarà una cultura di esclusione. L'Europa deve rifarsi come una splendida, la più grande cultura d'inclusione che il mondo può costruire; l'Europa dev'essere fertile di nuove idee, di sentimenti che aiutino a vivere gli uomini, le donne e i bambini, e per questo ho fatto questo sacrificio. Spero che possa valere la pena il sacrificio di abbandonare la mia lingua madre e spero che con la mia nuova lingua - perché io sono senz'altro uno scrittore italiano, anche se nato a Niterói, perché scrivo in italiano, e sull'Italia - spero che come scrittore italiano io possa dare a questa mia nuova lingua, la vostra lingua, qualcosa di nuovo, qualcosa di originale, un po' più di conoscenza profonda sulla vera natura dei nuovi esseri umani.

 


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