Merore

o

un amore senza impiego

di Arnold de Vos

 

Arnold de Vos
Merore o un amore senza impiego
Cosmo Iannone, 2005
a cura di Mia Lecomte - Postfazione di Franca Sinopoli
 
 
 
 

 

 

“Quest’antologia raccoglie sessantuno testi, di cui tre in coda in lingua francese, del poeta di origine olandese Arnold de Vos. Il titolo ci provoca nella sua apparente impenetrabilità erudita, ma ci dà allo stesso tempo una chiave per provare ad entrare in un labirinto di scrittura e di passioni. Merore è l’esser mesto, la mestizia in una forma letteraria antiquata, non la tristezza però. Proviamo ad interpretare la “mestizia” o meglio l’esser mesto come lo status del soggetto che parla attraverso questi versi, ma anche di colui o colei che lo ascolti leggendolo. La voce che parla ci introduce al suo mondo attraverso questa particolare forma dell’essere al mondo che è la mestizia...”.
(dalla Postfazione Arnold de Vos e madonna materia di Franca Sinopoli)

 

Nota del curatore


"Come ogni vero poeta, Arnold de Vos è costretto a scrivere, vittima indifesa e indifendibile di una scrittura automatica che lo rende vate a se stesso, e che lui cerca disperatamente di tradire. Ma da ogni tradimento – con il dio padre/figlio, spirito, e carne del suo amore omoerotico – sortisce invece una fedeltà sacrilega e consacrante: al ruolo, ai versi, al corpo, ai sentimenti. Scomposti, tutti, dal vento che nel mitico antro tutto solleva e tutto depone, a rovescio: ruoli, versi, corpi, sentimenti. Il vento nell’antro, il canto – “Dio, perché mi hai creato uccello/ che vado ripetendo sempre lo stesso verso…” – costretto nei cunicoli dell’essere – “Vico torto, tu che mi abiti…” – che soffia instancabile, guidando e confondendo le parole: in olandese, in inglese, in francese, e dal 1967, anno dell’arrivo di de Vos a Roma, in italiano.
La forza di questa poesia sta proprio nella sua ineluttabilità oracolare, nell’impossibilità di trovare un’uscita dal vortice dei sé, una formula di accomiatamento per sedare le voci e ripristinare il vuoto – “Con uno straccio cancello le mie orme/ alle calcagna di ogni passo…” –, l’immobilità placata di ogni superficie specchiante – “Sparpaglio corpi, case/ nei fondali della memoria, / e dall’acqua arrivano/ i loro riflessi galleggianti…” –, di fermarsi in un istante semplice, anche se provvisorio, che riscatti la pace: “Dormo al mio fianco/ come una veste scivolata/ dal corpo sognato…” .
Scegliendo tra le innumerevoli versioni della scrittura affannosamente quotidiana di de Vos – “Scrittura è tortura…” –, che ogni giorno ho il piacere di leggere grazie ai suoi invii diligenti e ansiosi, ho voluto alternare versi liberi e gabbie metriche chiuse ispirate alla poesia sufi, lascito della tradizione arabo-persiana da lui approfondita nelle varie lingue di traduzione, seguendo il percorso rigorosamente biografico indicato dal poeta, che va modulando l’intermittenza ossessiva dei segni sul proprio commercio sentimentale con l’uomo e il suo dio; senza ripetizioni né accumuli, ma cercando se mai di affrancare, disbrogliare le voci, per amplificare il canto sovrapposto delle infinite cicale che da quell’antro, al buio, tutte insieme “…stridono/ come se stessero regolando il traffico verso la luna…”.

Mia Lecomte

 

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