Imbarazzismi
Quotidiani imbarazzi in bianco e nero
di Kossi Komla-Ebri

Kossi Komla-Ebri
Imbarazzismi
Quotidiani imbarazzi in bianco e nero
EDIZIONE DELL'ARCO
2002, Euro 6,20

Presentazione dell'autore

ImbarazzismiQuotidiani imbarazzi in bianco e nero-

 

Imbarazzismi –Quotidiani imbarazzi in bianco e nero- È un libretto che si legge in una ventina di minuti: una riproposta d’aneddoti già comparsi nell’antologia “La lingua strappata”* con l’aggiunta di nuovi episodi.
Il tema è quello dell’“imbarazzo della differenza”. Diversità -in particolare quella del colore della pelle- che in una società non avvezza ad essa porta spesso migranti e nativi ad affrontarsi nella vita di tutti i giorni, in situazioni al confine fra l’imbarazzo e il razzismo. Appunto d’“imbarazzismi”. Ho scelto di raccontarle con una certa disincantata ironia, per fare sorridere più che ridere aiutando una meditazione sulle nostre relazioni di nativi/migranti piene d’atteggiamenti inconsapevoli rivelatori della spessa corteccia di fraintendimenti e di preconcetti che li avvolge.

                                                                 Kossi KOMLA-EBRI

 

Recensioni 

Café letterario, 6 settembre 2002

Kossi Komla-Ebri
Imbarazzismi
Quotidiani imbarazzi in bianco e nero


Un giorno, in classe, durante un incontro sull'interculturalismo, chiesi ai ragazzi di darmi una definizione del termine "razzismo".
Subito, il più sveglio esclamò:
"Il razzista è il bianco che non ama il nero!"
"Bene!" dissi. "E il nero che non ama il bianco?"
Mi guardarono tutti stupiti ed increduli con l'espressione tipo: "Come può un nero permettersi di non amare un bianco?"

Si leggono in meno di un'ora ma fanno pensare per tanto, tanto tempo. Perché gli "imbarazzi quotidiani" che qui vengono ritratti non coinvolgono tanto i razzisti convinti, quanto la maggioranza di noi italiani "brava gente", ben disposti verso gli altri, volenterosi, pronti a simpatizzare con lo straniero, eppure, in fondo in fondo, provinciali, spesso ignoranti, fondamentalmente razzisti.
Kossi Komla-Ebri, medico italo-togolese, nato in Togo ma in Italia dal 1974, racconta episodi spassosi capitati alla sua famiglia e ai suoi amici: scene di vita quotidiana ambientate nei nostri ospedali, negli uffici pubblici, nei treni locali, nelle cartolerie, ai giardinetti... Episodi apparentemente insignificanti, parole dette senza pensare, talvolta senza aver "collegato il cervello", insomma... situazioni imbarazzanti proposte con leggerezza e senso dell'umorismo.
Ecco allora un giovane togolese, sposato con un'italiana, che passeggia nei giardini pubblici con i due figlioletti e un'anziana signora che, con amorevole compassione, afferma: "Oh, por diavul, ga tucà fa ul baby-sitter!". Perché, certo, quel giovane non può essere il padre dei due bimbi. Identica è la compassione che caratterizza la lezione di geografia che l'autore è costretto a sorbirsi nello scompartimento di un treno locale: "Tu da che paese Africa venire?" (...) "Ah Togo! Nel tuo dialetto forse dire "Togo", ma noi in italiano dire "Congo". Tu capire? Congo!".
Ma c'è anche il signore sulla cinquantina che, incrociando Komla-Ebri con due carrelli davanti al supermercato, emette un fastidioso "ssst" e schioccando le dita gli fa cenno di sistemare anche il suo carrello. Evidentemente ha fatto la somma "negro + carrelli = povero extra-comunitario che sbarca il lunario".
E poi c'è Gratus che, uscito da scuola, cerca di comprare un quaderno in una cartoleria e viene bloccato dal commerciante, affetto da "sindrome da vù-comprà", con un frettoloso "No, grazie, non compriamo niente!".
Ma se gli italiani non fanno una bella figura, stessa sorte capita anche ai nostri vicini europei. Basti citare l'amico tedesco che si dice avido di conoscere altre culture e, dopo pochi giorni di vacanza africana, chiede nervosamente all'autore: "Ma perché camminate così e fate tutto con tanta lentezza? Perdete troppo tempo! Perché mangiate tutti assieme nello stesso piatto? Non è igienico!". A niente valgono le spiegazioni di Kossi che quello è, appunto, il loro modo di camminare e di mangiare, e che non accettarlo significa non accettare la sua cultura.
Bella figura fa anche il "professore di fede liberista-avanguardista" che più volte invita Kossi a passare il fine settimana con la sua famiglia: non riesce "proprio a capire come fa la gente ad essere razzista" ma, all'ipotesi di uno sposo togolese per la figlia, risponde con un imbarazzato: "Beh... questa è un'altra cosa!".

Imbarazzismi. Quotidiani imbarazzi in bianco e nero di Kossi Komla-Ebri
63 pag. Euro 6.20 - Edizioni Dell'Arco-Marna
ISBN 88-7203-174-5

Le prime righe

1
"Bel negro, vuoi guadagnarti 500 lire?"

Un giorno uscivo dal supermercato con mia moglie, che è un'italiana. Avevamo fatto tanta spesa da riempire due carrelli. Dopo aver caricato il tutto nel portabagagli della macchina, mia moglie mi spinse i due carrelli da riportare per recuperare le due 500 lire.
M'incamminavo con i miei due carrelli, quando sentii dietro le spalle un "ssst!" accompagnato da uno schioccare di dita. Mi girai e vidi un signore sulla cinquantina farmi segno con l'indice di avvicinarmi, ed abbozzare il gesto di spingere il suo carrello verso di me. Lo guardai con un'espressione che mia moglie descrisse poi come carica di lampi e fulmini.
Comunque il mio sguardo doveva essere stato eloquente, perché lo vidi trattenersi il suo carrello e portarselo per conto suo.
Senz'altro, visto il colore della mia pelle e il gesto d'affido dei carrelli da parte della mia signora, il "sciur" aveva fatto la somma deduttiva: negro + carrelli = povero extracomunitario che sbarca il lunario.
Tornando alla macchina, vidi la mia dolce metà, che conoscendo la mia permalosità, si contorceva dalle risate. Mi misi poi a ridere anch'io.
Ora ogni volta che andiamo a fare la spesa, lei mi spinge, ammiccando, il carrello con voce scherzosa: "Ehi bel negro, vuoi guadagnarti 500 lire?"

© 2002 Gruppo Solidarietà Come/Edizioni dell'Arco
In coedizione con:
In coedizione con: Marna Edizioni

Di Paola Di Giampaolo

Casa della cultura

La banalità del razzismo
Intervista a Kossi Komla-Ebri
di Agnese Bertello

Siamo razzisti? Sì? No? No, se ci basiamo sugli episodi di violenza a sfondo razzista che ci riporta la cronaca; sempre sporadici, sempre ad opera di gruppetti più o meno noti di xenofobi. Con Kossi Komla-Ebri, medico originario del Togo e scrittore, parliamo del razzismo strisciante e misconosciuto che si manifesta nel nostro modo di parlare, nell'ignoranza che ci impedisce di vedere veramente chi abbiamo di fronte senza ricorrere agli stereotipi tipo vùcumpra o watusso, nei gesti e nelle smorfie in metropolitana. Un tipo di razzismo persino più pericoloso.
Intanto volevo chiederle di raccontarmi un po' la sua storia…
Sono originario del Togo. Approdato in Italia nel '74 per compiere i miei studi di Medicina all'Università di Bologna dove mi sono laureato per venire poi a fare la specializzazione in Chirurgia Generale a Milano. Sono finito ad Erba nell'82 perché l'ospedale cittadino è gestito dall'Ordine dei Fatebenefratelli che hanno un ospedale nel mio paese dove ho lavorato due anni. Sono sposato e ho due figli, lavoro all'ospedale di Erba e mi piace scrivere. Alcuni miei racconti sono stati premiati al concorso Eks&Tra di Rimini e pubblicati in varie antologie, altri su quotidiani e riviste. Un mio romanzo (Neyla) scritto in italiano - purtroppo non ancora pubblicato in Italia - è stato tradotto in America dove vi è una maggiore attenzione alla letteratura della migrazione e verrà pubblicato entro la fine dell'anno. Il mio impegno in associazioni di mediazione interculturale e la mia fede in un futuro d'integrazione in questo paese - quando i migranti passeranno da un ruolo di "oggetti di attenzione" a "soggetti politici"- mi hanno portato a candidarmi per l'Ulivo alle ultime elezioni politiche per dare visibilità ad un nuovo concetto di cittadinanza.
Ho avuto l'opportunità di vivere in Francia. La Francia, come metropoli colonizzatrice è stata svezzata da anni nel confronto con "la gente di colore" così come il Belgio, l'Olanda e l'Inghilterra. Lì il razzismo, quando c'è, si manifesta chiaramente, non subdolamente. In Italia dove sembra che non ci sia, in realtà si presenta sotto forme di razzismo latente spesso inconsce al riparo di paternalismi, di caritatevoli accondiscendenze Gli episodi che lei riporta nel suo libro stupiscono per la loro banalità, come se fossero momenti in cui il cervello dell'interlocutore si è spento, in cui si è lasciato andare a un modo di vivere e sentire così comune, da essere entrato ormai perfino nel nostro linguaggio. Anche persone che non si definiscono razziste e che non sono razziste possono "inciampare" in situazioni o espressioni di questo tipo. Non c'è violenza fisica, ma spesso cattiveria, o indelicatezza, o ignoranza o pressappochismo. Qual è il livello di pericolosità? E come fare a decostruire questo meccanismo?
La pericolosità sta sia nella latenza del fenomeno che nella tendenza a volerlo banalizzare dandogli in qualche modo una giustificazione. Il nostro linguaggio non può essere neutro sopratutto in una società di fatto multietnica e speriamo con un divenire interculturale. Il linguaggio inevitabilmente ha potere escludente o includente. Basta pensare a quella parolaccia di "extracomunitario" che non ci identifica per quello che siamo ma vuole sottolineare a tutti i costi quello che non siamo cioè ospiti non graditi. Vi è una pesante responsabilità nella deriva dei media che porta oggi a coniugare clandestinità con criminalità. Non parliamo poi del linguaggio non verbale (ad esempio la "sciura" che nel metro si stringe la borsetta al fianco appena ti vede salire). La banalizzazione diventa pericolosa perché crea un terreno fertile al virus del razzismo che dalla naturale diffidenza al confronto del "diverso da sé" cresce in intolleranza per sbocciare in vero razzismo.
Quanto è faticoso resistere a certi stereotipi, confrontarsi quotidianamente con loro e ribadire il proprio diritto ad essere considerato per quello che si è?
È faticoso sopratutto per chi non ha un ruolo sociale rimarchevole o riconosciuto come tale. Un certo "classismo" legato al livello sociale esiste di per sé. Si è stranamente più razzisti o paternalisti nei confronti di un venditore ambulante che verso un cantante, un calciatore, un'indossatrice famoso o un medico. Ho potuto notare che il mio camice bianco è uno scudo protettore: in qualche modo mi rende più... bianco.
Mi pare che spesso sappiate trovare l'ironia o il sarcasmo giusto per mettere a bada questo tipo di comportamenti (almeno, appunto, negli episodi che lei riporta), ma quanto costa?
È faticoso specchiarsi costantemente come "diverso" nel linguaggio e nello sguardo altrui. L'ironia, il ridere è un antidoto efficace. La risata accende luce nel buio. Ma non sempre si è "in vena" allora diventa davvero faticoso. Si corre il rischio poi di diventare eterni permalosi, peggio rinchiudersi, diventare aggressivi e... razzisti. Una forma di razzismo anti razzismo anche se l' etnocentrismo porta taluni a stupirsi del fatto che un negro possa non amare un bianco...
Geneviève Makaping, chiude il suo libro "Traiettorie di sguardi" con questa frase: "Il punto, e mi sfiora un sorriso, è che io non so perché la pigmentazione della mia pelle è così, malgrado sappia esattamente la ragione per la quale sono diventata nera". Makaping rivendica il diritto di farsi chiamare "negra" e non "donna di colore" e tanto meno "extracomunitaria", litigando anche con chi si rifiuta di farlo (usare il termine negra ci ricorda in maniera troppo forte le nostre responsabilità, le nostre colpe). Provocatoriamente sostiene di voler essere la coscienza nera dell'uomo bianco. Condivide questo pensiero?
Capisco il pensiero di Makaping ma la condivido solo parzialmente. Lo capisco nel senso che credo che un vero processo di integrazione (la parola detta così non mi piace) non potrà avvenire senza un minimo di conflitto e un certo grado di decostruzione anche verbale. Ma la vera decostruzione deve essere interiore. Bisogna più che sulle parole, invitare la gente a creare dentro di sé lo spazio virtuale per accogliere "l'altro", "il diverso da sé" oltre agli spazi concreti per l'incontro e il dialogo che possono portare ad una vera conoscenza e reciproco rispetto. Solo la conoscenza fa capire che l'alterità è opportunità di ricchezza. La mia poetica è per l'Uomo, il disperatamente umano. La rivendicazione di una "negritrudine" seppure taumaturgica ad una crisi- ricerca d'identità porta ad erigere nuove barriere e ad esasperare vecchi conflitti che non giovano ad un processo di interazione di integrità su una piattaforma di valori condivisi, valori universali: quelli della persona, dell'Uomo punto e basta.

Casa della cultura

Kossi Komla-Ebrizismi - quotidiani imbarazzi in bianco e nero

Il razzismo non si manifesta soltanto con gesti e frasi violente, con aggressioni solitarie o in gruppo. C'è un razzismo sotterraneo, un razzismo che si nasconde tra le pieghe del linguaggio, dei modi di dire, della banalità del quotidiano.
Kossi Komla-Ebri - originario del Togo, in Italia dal 1972, medico all'ospedale di Erba, sposato con una donna italiana e padre di due figli - raccoglie in questo sottile libretto situazioni, gesti, sguardi, frasi di un razzismo che fa male per la sua banalità. La reazione immediata è dire "ma è solo una battuta", "ma sì ormai è un'espressione comune": niente di più vero, purtroppo. La banalità del razzismo è proprio questa: incontrare un nero in spiaggia che stende il suo asciugamano e chiedergli se ha delle collanine; stringersi la borsetta la petto quando sale un immigrato in metropolitana, usare solo verbi all'infinito quando si parla con loro, chiamare vucumpra o watusso chiunque abbia la pelle scura…
Imbarazzismi ci mette finalmente davanti allo specchio nella nostra quotidiana e banale incapacità di vedere l'altro per quello che è.

 

 

 


Torna alla prima pagina