MIHAI MIRCEA BUTCOVAN è nato nel 1969 a Oradea, in Transilvania, Romania. In Italia dal 1991, vive a Sesto San Giovanni e lavora a Milano come educatore professionale nell’ambito del recupero dei tossicodipendenti. Narratore e poeta, alcuni suoi testi sono inseriti nelle antologie A New Map: The Poetry of Migrant Writers in Italy (a c. di Mia Lecomte e Luigi Bonaffini, Los Angeles 2006), Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano (a c. di Mia Lecomte, Firenze 2006), Nuovo Planetario Italiano. Antologia della letteratura italiana della migrazione (a c. di Armando Gnisci, Troina 2006) e sono stati pubblicati sulle riviste «Pagine», «Sagarana», «Kùmà» e «El Ghibli». Nel 2006 ha pubblicato il romanzo Allunaggio di un immigrato innamorato (Besa).

Allunaggio di un immigrato innamorato:

intervista a Mihai Mircea Butcovan


La tua partenza dalla Romania è connessa con il crollo del regime di Ceausescu. Quali ragioni particolari, se ce ne sono, ti hanno portato in Italia?

Già nel 1975 ricevevo il consiglio di papà Gheorghe: “Mihai, se non puoi dire quello che pensi, al-meno evita di pensare cazzate”. Avrei scoperto, strada facendo, che era una sfida di non poco conto.
Sono venuto in Italia per studiare. Ultimo di quattro fratelli, sin da piccolo ero appassionato di lettu-ra, letteratura, storia. Ma per le scuole superiori ho dovuto scegliere di fare un percorso di studi sen-za alcuna motivazione ed interesse. Diciamo che non avevo scelta. Ha scelto mio padre in un conte-sto in cui la situazione economica e politica del paese sceglieva per lui…
Volevo fare il classico e mi sono ritrovato a studiare altro. Quattro anni per studiare cose che mi to-glievano la possibilità di approfondire studi umanistici di cui sentivo un gran bisogno. Subito dopo la maturità il lavoro in un caseificio, poi il giorno del diciottesimo compleanno la partenza – con la valigia di legno – per il servizio militare, il crollo del regime ed ancora lavoro. Segue una scelta spi-rituale che si conclude con l’approdo in Italia, gli studi di filosofia e teologia (incompiuti per difficoltà economiche) e, tra vari lavori, gli studi per il diploma di educatore professionale quindi il lavoro nel sociale. Ho lavorato con i minori, con i tossicodipendenti, con gli immigrati. Ho lavorato e lavoro con il disagio. Anche quello dei lavoratori.

In una tua precedente intervista a proposito della questione della lingua sostenevi che un migrante, dal punto di vista linguistico e culturale, vive in “un regime di partita doppia”. Quando hai cominciato a scrivere in italiano, quali rapporti hai instaurato con la nuova lingua e quali modelli, se ce ne sono, ti hanno accompagnato nel tuo percorso letterario?

Poter studiare in Italia rappresentava per me un’occasione unica. In Romania non avrei potuto per-mettermi di studiare all’università, né mantenuto da mio padre né mantenendomi lavorando. Qui, tra vari lavori, ce l’ho fatta. Poter attingere alla ricchezza di stimoli e spunti che offriva un sistema scolastico, democratico e senza censure, come quello italiano, era per me un’opportunità che andava sfruttata e “spremuta” per intero. Ho approfondito l’italiano e soprattutto ho cercato di capire i risvolti “emotivi” delle parole, la loro risonanza nei ricordi delle persone anziane, nelle canzoni amate dai giovani, nel gergo degli adolescenti, nei giochi dei bambini, nel cuore delle persone. Arrivai ad un punto in cui la lingua del pensiero e dei sogni, ormai l’italiano, diventò anche la lingua della scrittura. Comunque la lingua della relazione quotidiana maggiormente – in quantità e qualità – vissuta in quel momento.
Ma le due lingue, romeno ed italiano – italiano e romeno – si intersecavano spesso, si studiavano a vicenda, si annusavano, si incontravano e si scontravano sui significati (così carichi di storia perso-nale e di storie di popoli) e dibattevano vivacemente per poi trovare espressione nella relazione con le persone.
È il mio viaggio: da un lontano punto di partenza, rappresentato dalle origini linguistiche – alfabeto romeno – attraverso l’apprendimento di una nuova lingua integrata con la lingua madre, verso una meta ancora da definire ma che, nelle sue premesse, ha già lasciato il segno.
Per quanto riguarda i modelli ripeto quanto detto altrove. Avevo un discreto saldo nel bilancio che ho messo in valigia. Tra i poeti – ma nessun romeno può farne a meno – Mihai Eminescu è stato il maestro di “emozioni in metafora”. Devo molto anche a Nichita Stanescu; mi piace chiamarlo “immigrato senza sconfinare”. Ho creduto ai racconti di mio padre sui contadini leggendo Liviu Rebre-anu e Marin Preda. Sono debitore al romanzo di formazione di Mircea Eliade, alle sue Memorie, ma anche ai suoi studi sulle religioni.
L’esperienza di Panait Istrati mi ha insegnato che scrivere in altra lingua è possibile nonostante, nel suo caso, “l’anima romena abbia preso in prestito una faccia francese”. Migrante tra i senza diritti ebbe il coraggio di denunciare crimini contro l’umanità, che spesso si nascondono sotto le mentite spoglie di qualche dichiarata (ahimè, soltanto dichiarata) democrazia.
E poi il percorso esistenziale di Emil Cioran. A mio avviso non negava l’esistenza di Dio; ci metteva soltanto in guardia dal rischio di fraintenderlo. E diceva di se stesso: “niente di quello che ho det-to durante la mia vita può essere separato da quello che ho vissuto. Non ho inventato nulla, sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni”.
In Italia ho scoperto con grande piacere Foscolo, Leopardi, Trilussa, Caproni. E poi Sciascia, Silo-ne, Verga, Moravia, per ricordare solo alcuni classici. Altri “maestri” sono citati qua e là nell’"Allunaggio di un immigrato innamorato".

Nel tuo romanzo Allunaggio di un immigrato innamorato racconti, in forma di diario, la storia di un amore paradossale tra un giovane immigrato e una giovane leghista. Suggerisci di leggere questa storia più come disincantata analisi di una difficile integrazione o piuttosto come ironica e a volte impietosa guida alla riflessione sulla realtà del nostro tempo?

Un amore paradossale ma non impossibile. È una storia vera, realmente vissuta dal sottoscritto, im-perfetto protagonista di una storia apparentemente surreale.
Ho sperimentato in prima persona la valenza curativa dell’autobiografia. Tenere un diario, scrivere un journal che immortalasse il viaggio che stavo intraprendendo, si è rivelato un bisogno ma anche una necessità nel mio cammino. Avvertivo il bisogno di scrivere per fermare i ricordi, archiviarli per un possibile ritorno, perché quanto vivevo andava raccontato, condiviso con altri. Per tenere in-sieme le esperienze fatte, per tenermi insieme laddove era facile perdere le origini e quindi perdersi.
Nell’Allunaggio di un immigrato innamorato ho raccolto appunti sparsi e diaristici, che hanno accompagnato la mia esperienza di immigrato romeno in Italia, ripercorrendo – in forma romanzata – i vari momenti di una storia d’amore.
Ma l’allunaggio rappresenta anche l’approdo su un pianeta diverso, tutto da scoprire, pianeta già sognato nel passato e rivelatosi scoperta. L’immigrato s’innamora non soltanto di una ragazza italiana, ma anche dello stesso pianeta dove la incontra, luogo di cui cerca di cogliere pregi e difetti, luogo di cui vuole far parte, portandovi se stesso e la sua storia precedente. Trattasi di un’esperienza vissuta in prima persona, trattasi di un diario-compagno che mi ha aiutato a rielaborare le esperienze di cui sono stato protagonista.
Suggerirei una lettura come ironica analisi di una difficile integrazione e come disincantata guida alla riflessione sulla realtà del nostro tempo.
La storia d’amore, non impossibile nel suo svolgersi, ma archiviata come tale a posteriori, è soltanto un pretesto per dar voce a riflessioni di più ampio respiro. Fermo restando che i frammenti di vita raccontati e la riflessione esistenziale che li accompagna non possono prescindere dall’ingrediente principe di una vita che voglia evitare l’insipienza. L’amore, nelle sue forme, nei suoi momenti (in-namorarsi, amare, sentirsi amati, disamorarsi) è comunque esercizio di vita. Insieme agli oggetti dei nostri amori e dei nostri disamori – persone, luoghi, ideali, valori – ne diventa parte e storia: desti-nata a rimanere sempre nel ricordo oppure da dimenticare. Per dirla con Faletti (in una emozionante canzone dall’immeritata scarsa diffusione) l’amore è un “assurdo mestiere”. Da vivere appieno.

Il giovane protagonista del romanzo grazie al suo “pensiero immigrato di chi si è rifugiato per necessità e non per turismo”, con disincanto e ironia, e con la forza evocativa dei doppi sensi e dei calembours, ci rivela una società, un po’ ridicola e disgregata, popolata da divinità pagane e padane, neo-feste nazionali d’importazione, gallerie di ex, rituali consumistici, retoriche di “destra” e di “sinistra”. Quanto, secondo te, la condizione di migrante può incidere su questa capacità di sguardo critico sul mondo?

In molte situazioni e relazioni della nostra vita possono arrivare momenti in cui subentra la noia, l’apatia, l’assuefazione agli stimoli, alle sfide. A volte ci si accanisce sulla polvere e la pulizia di un certo (ri)piano e sfuggono altri aspetti o addirittura l’insieme dell’intero scaffale, altre volte si nota l’impercettibile sfregio sui mobili d’altri ma sfugge il graffio sullo schermo del proprio televisore.
Insomma, confrontare la propria erba con quella del vicino non è sempre cosa negativa, se lo sguardo osserva e indaga con curiosità ed interesse e non è accecato dall’invidia o dall’egocentrismo, se lo sguardo riesce ad andare oltre la sterile contestazione.
L’esser migrante non è un privilegio che offre un punto di vista migliore. Viaggiare - sì viaggiare - consente di confrontare il proprio mondo (quello ritenuto fino a quel giorno “proprio”) con il “resto”; solo così riuscirai a ricostruire l’intero. Facendone parte. O facendoti una provvisoria e consapevole idea. Fino al prossimo viaggio.

Nelle poesie della tua raccolta Dal comunismo al consumismo ti interroghi in molti modi sulla tua esperienza passata (“mancava la definizione di libertà”) e presente (“ho vinto l’America in ricevitoria / e non ho niente”). Nella tua simbolica America, quali definizioni di libertà pensi di aver trovato?

Dal comunismo al consumismo raccoglie, in un quaderno, poesie scritte fino al 1999. Già dalla lettura dell’indice si osserva una suddivisione in capitoli che segnano le tappe di un viaggio in cui le fermate sono passaggi, ed i paesaggi sono visti e rivisti di volta in volta attraverso la lente del pelle-grino apparentemente senza meta. Il punto di partenza è il paese d’origine (Republica Socialista România) nei suoi connotati culturali e politici. L’incontro con l’Italia e gli studi sono rielaborati attraverso la lente dell’Osservatore Romeno. Osservazione partecipante dove i sentimenti e le emozioni (solitudine, amore, follia) contribuiscono a rendere vivo il cammino in salita. Il mito dell’eterno ritorno colpisce ancora e la conclusione dei ricordi rappresenta lo slancio verso un futuro ignoto che, come il passato, è ancora tutto da scoprire. E c’è la sospensione tra due (o più) realtà esperite.
Scrivevo che “ho vinto l’America in ricevitoria / e non ho niente” nel 1995, in “Nato senza la camicia”. Descrivevo brevemente quello che sembrava per i più l’ideale morale, sociale, politico: l’America. L’America “col tempo è denaro/ non per i contadini/ ma per i sognatori/ tutto è Disneyland e luci”, l’America simbolo di libertà da conquistare e difendere, da esportare, svendere o regalare, da proporre ed imporre. Per arrivarci si poteva anche concorrere ad una lotteria…
Per molte persone, anche per i romeni, tali ideali sarebbero stati raggiunti anche in un paese europeo.
La libertà non si acquista né si vince con la fortuna; la libertà la acquisisci, la costruisci, prima nella tua mente e poi nella relazione con il mondo. E poi dove finisce la tua e dove inizia la mia?
Viviamo in un mondo che ha moltiplicato le relazioni con gli altri, rubando spazio alla relazione con se stessi. Siamo cittadini di un nuovo, grande ma sempre più stretto, villaggio globale. I nuovi cavalli sono automobili, le nuove diligenze sono traghetti, le nuove navi sono aerei, e partiamo e ritorniamo per la conquista di un nuovo continente nella stessa settimana. Ma le dogane e le frontiere sono ancor più difficili da passare. Eppure non si parte più con la supposizione di nuovi mondi ma con la certezza di “Americhe” da conquistare. Dove le “Americhe” sono, nel nostro immaginario, almeno un’opportunità per vivere meglio.
Nel 1991, entusiasta, ho trovato che in Italia si poteva leggere tutto, perché avevo accesso “libero” a tutto il leggibile del mondo, si poteva dire quello che pensi senza dover sparire per sempre, si pote-va manifestare la propria opinione, ci si poteva difendere dalle accuse e fino alla condanna c’era la presunzione di innocenza, si poteva esercitare la propria creatività ed esprimerla. Tutto nel rispetto della libertà altrui. Il mio pensare aveva spazi per esprimersi ed allargare i suoi confini.
Ma già nel ‘95 mi sembrava che qualcosa mancasse ancora. Incominciavo a sospettare che, persino nei grandi paesi esportatori di democrazia, non tutto il leggibile venisse scritto e pubblicato, che per aver detto quello che pensi nessuno ti farà sparire ma non sempre il coraggio delle proprie opinioni è senza conseguenze. E intuivo che anche le manifestazioni in piazza non fossero poi tutte libere, che alcune bandiere sventolavano “a pagamento”, che la diversione non è poi in uso soltanto nelle dittature, che poi la legge, come la salute, non è uguale per tutti, che la presunzione d’innocenza per alcuni è certezza ed assicura l’immunità, che le opinioni personali potevano essere imbavagliate da qualche “politica aziendale”, che la creatività sfociata in satira non poteva trovare spazio e visibilità neanche coi soldi dei contribuenti.
“E penso albanese o curdo: su questo atlante scaduto troverò mai le mie origini?” Risale al 1994 questa riflessione contenuta nell’Allunaggio.
Se le notizie di conflitti, profughi, fame, povertà ci raggiungono soltanto in base a “indici di ascolto”, “priorità” e “opportunità” forse la concretizzazione di alcune definizioni di libertà, addirittura esportabile, ha subito qualche aberrazione.
Rimane una grande sfida. Di certo non ci farà annoiare: occorre saper tenere aperti i confini del proprio pensare.

a cura di Paolo Trabucco (Ferrara - Milano Aprile 2006)

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L'autore

Borgofarfalla (scheda bibliografica)

Allunaggio di un immigrato innamorato (scheda bibliografica)

Recensione a “Allunaggio di un immigrato innamorato” di Francesca Chiarla

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