Allunaggio
di un immigrato innamorato:
intervista
a Mihai Mircea Butcovan
La tua partenza dalla Romania è connessa con il crollo
del regime di Ceausescu. Quali ragioni particolari, se ce ne sono, ti
hanno portato in Italia?
Già nel 1975 ricevevo il consiglio di papà Gheorghe: “Mihai,
se non puoi dire quello che pensi, al-meno evita di pensare cazzate”.
Avrei scoperto, strada facendo, che era una sfida di non poco conto.
Sono venuto in Italia per studiare. Ultimo di quattro fratelli, sin da
piccolo ero appassionato di lettu-ra, letteratura, storia. Ma per le scuole
superiori ho dovuto scegliere di fare un percorso di studi sen-za alcuna
motivazione ed interesse. Diciamo che non avevo scelta. Ha scelto mio
padre in un conte-sto in cui la situazione economica e politica del paese
sceglieva per lui…
Volevo fare il classico e mi sono ritrovato a studiare altro. Quattro
anni per studiare cose che mi to-glievano la possibilità di approfondire
studi umanistici di cui sentivo un gran bisogno. Subito dopo la maturità
il lavoro in un caseificio, poi il giorno del diciottesimo compleanno
la partenza – con la valigia di legno – per il servizio militare,
il crollo del regime ed ancora lavoro. Segue una scelta spi-rituale che
si conclude con l’approdo in Italia, gli studi di filosofia e teologia
(incompiuti per difficoltà economiche) e, tra vari lavori, gli
studi per il diploma di educatore professionale quindi il lavoro nel sociale.
Ho lavorato con i minori, con i tossicodipendenti, con gli immigrati.
Ho lavorato e lavoro con il disagio. Anche quello dei lavoratori.
In una tua precedente intervista a proposito
della questione della lingua sostenevi che un migrante, dal punto di vista
linguistico e culturale, vive in “un regime di partita doppia”.
Quando hai cominciato a scrivere in italiano, quali rapporti hai instaurato
con la nuova lingua e quali modelli, se ce ne sono, ti hanno accompagnato
nel tuo percorso letterario?
Poter studiare in Italia rappresentava per me un’occasione
unica. In Romania non avrei potuto per-mettermi di studiare all’università,
né mantenuto da mio padre né mantenendomi lavorando. Qui,
tra vari lavori, ce l’ho fatta. Poter attingere alla ricchezza di
stimoli e spunti che offriva un sistema scolastico, democratico e senza
censure, come quello italiano, era per me un’opportunità
che andava sfruttata e “spremuta” per intero. Ho approfondito
l’italiano e soprattutto ho cercato di capire i risvolti “emotivi”
delle parole, la loro risonanza nei ricordi delle persone anziane, nelle
canzoni amate dai giovani, nel gergo degli adolescenti, nei giochi dei
bambini, nel cuore delle persone. Arrivai ad un punto in cui la lingua
del pensiero e dei sogni, ormai l’italiano, diventò anche
la lingua della scrittura. Comunque la lingua della relazione quotidiana
maggiormente – in quantità e qualità – vissuta
in quel momento.
Ma le due lingue, romeno ed italiano – italiano e romeno –
si intersecavano spesso, si studiavano a vicenda, si annusavano, si incontravano
e si scontravano sui significati (così carichi di storia perso-nale
e di storie di popoli) e dibattevano vivacemente per poi trovare espressione
nella relazione con le persone.
È il mio viaggio: da un lontano punto di partenza, rappresentato
dalle origini linguistiche – alfabeto romeno – attraverso
l’apprendimento di una nuova lingua integrata con la lingua madre,
verso una meta ancora da definire ma che, nelle sue premesse, ha già
lasciato il segno.
Per quanto riguarda i modelli ripeto quanto detto altrove. Avevo un discreto
saldo nel bilancio che ho messo in valigia. Tra i poeti – ma nessun
romeno può farne a meno – Mihai Eminescu è stato il
maestro di “emozioni in metafora”. Devo molto anche a Nichita
Stanescu; mi piace chiamarlo “immigrato senza sconfinare”.
Ho creduto ai racconti di mio padre sui contadini leggendo Liviu Rebre-anu
e Marin Preda. Sono debitore al romanzo di formazione di Mircea Eliade,
alle sue Memorie, ma anche ai suoi studi sulle religioni.
L’esperienza di Panait Istrati mi ha insegnato che scrivere in altra
lingua è possibile nonostante, nel suo caso, “l’anima
romena abbia preso in prestito una faccia francese”. Migrante tra
i senza diritti ebbe il coraggio di denunciare crimini contro l’umanità,
che spesso si nascondono sotto le mentite spoglie di qualche dichiarata
(ahimè, soltanto dichiarata) democrazia.
E poi il percorso esistenziale di Emil Cioran. A mio avviso non negava
l’esistenza di Dio; ci metteva soltanto in guardia dal rischio di
fraintenderlo. E diceva di se stesso: “niente di quello che ho det-to
durante la mia vita può essere separato da quello che ho vissuto.
Non ho inventato nulla, sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni”.
In Italia ho scoperto con grande piacere Foscolo, Leopardi, Trilussa,
Caproni. E poi Sciascia, Silo-ne, Verga, Moravia, per ricordare solo alcuni
classici. Altri “maestri” sono citati qua e là nell’"Allunaggio
di un immigrato innamorato".
Nel tuo romanzo Allunaggio di un immigrato
innamorato racconti, in forma di diario, la storia di un amore paradossale
tra un giovane immigrato e una giovane leghista. Suggerisci di leggere
questa storia più come disincantata analisi di una difficile integrazione
o piuttosto come ironica e a volte impietosa guida alla riflessione sulla
realtà del nostro tempo?
Un amore paradossale ma non impossibile. È una storia vera, realmente
vissuta dal sottoscritto, im-perfetto protagonista di una storia apparentemente
surreale.
Ho sperimentato in prima persona la valenza curativa dell’autobiografia.
Tenere un diario, scrivere un journal che immortalasse il viaggio che
stavo intraprendendo, si è rivelato un bisogno ma anche una necessità
nel mio cammino. Avvertivo il bisogno di scrivere per fermare i ricordi,
archiviarli per un possibile ritorno, perché quanto vivevo andava
raccontato, condiviso con altri. Per tenere in-sieme le esperienze fatte,
per tenermi insieme laddove era facile perdere le origini e quindi perdersi.
Nell’Allunaggio di un immigrato innamorato ho raccolto appunti sparsi
e diaristici, che hanno accompagnato la mia esperienza di immigrato romeno
in Italia, ripercorrendo – in forma romanzata – i vari momenti
di una storia d’amore.
Ma l’allunaggio rappresenta anche l’approdo su un pianeta
diverso, tutto da scoprire, pianeta già sognato nel passato e rivelatosi
scoperta. L’immigrato s’innamora non soltanto di una ragazza
italiana, ma anche dello stesso pianeta dove la incontra, luogo di cui
cerca di cogliere pregi e difetti, luogo di cui vuole far parte, portandovi
se stesso e la sua storia precedente. Trattasi di un’esperienza
vissuta in prima persona, trattasi di un diario-compagno che mi ha aiutato
a rielaborare le esperienze di cui sono stato protagonista.
Suggerirei una lettura come ironica analisi di una difficile integrazione
e come disincantata guida alla riflessione sulla realtà del nostro
tempo.
La storia d’amore, non impossibile nel suo svolgersi, ma archiviata
come tale a posteriori, è soltanto un pretesto per dar voce a riflessioni
di più ampio respiro. Fermo restando che i frammenti di vita raccontati
e la riflessione esistenziale che li accompagna non possono prescindere
dall’ingrediente principe di una vita che voglia evitare l’insipienza.
L’amore, nelle sue forme, nei suoi momenti (in-namorarsi, amare,
sentirsi amati, disamorarsi) è comunque esercizio di vita. Insieme
agli oggetti dei nostri amori e dei nostri disamori – persone, luoghi,
ideali, valori – ne diventa parte e storia: desti-nata a rimanere
sempre nel ricordo oppure da dimenticare. Per dirla con Faletti (in una
emozionante canzone dall’immeritata scarsa diffusione) l’amore
è un “assurdo mestiere”. Da vivere appieno.
Il giovane protagonista del romanzo grazie al suo “pensiero
immigrato di chi si è rifugiato per necessità e non per
turismo”, con disincanto e ironia, e con la forza evocativa
dei doppi sensi e dei calembours, ci rivela una società, un po’
ridicola e disgregata, popolata da divinità pagane e padane, neo-feste
nazionali d’importazione, gallerie di ex, rituali consumistici,
retoriche di “destra” e di “sinistra”. Quanto,
secondo te, la condizione di migrante può incidere su questa capacità
di sguardo critico sul mondo?
In molte situazioni e relazioni della nostra vita possono arrivare momenti
in cui subentra la noia, l’apatia, l’assuefazione agli stimoli,
alle sfide. A volte ci si accanisce sulla polvere e la pulizia di un certo
(ri)piano e sfuggono altri aspetti o addirittura l’insieme dell’intero
scaffale, altre volte si nota l’impercettibile sfregio sui mobili
d’altri ma sfugge il graffio sullo schermo del proprio televisore.
Insomma, confrontare la propria erba con quella del vicino non è
sempre cosa negativa, se lo sguardo osserva e indaga con curiosità
ed interesse e non è accecato dall’invidia o dall’egocentrismo,
se lo sguardo riesce ad andare oltre la sterile contestazione.
L’esser migrante non è un privilegio che offre un punto di
vista migliore. Viaggiare - sì viaggiare - consente di confrontare
il proprio mondo (quello ritenuto fino a quel giorno “proprio”)
con il “resto”; solo così riuscirai a ricostruire l’intero.
Facendone parte. O facendoti una provvisoria e consapevole idea. Fino
al prossimo viaggio.
Nelle poesie della tua raccolta Dal comunismo al consumismo
ti interroghi in molti modi sulla tua esperienza passata (“mancava
la definizione di libertà”) e presente (“ho
vinto l’America in ricevitoria / e non ho niente”). Nella
tua simbolica America, quali definizioni di libertà pensi di aver
trovato?
Dal comunismo al consumismo raccoglie, in un quaderno,
poesie scritte fino al 1999. Già dalla lettura dell’indice
si osserva una suddivisione in capitoli che segnano le tappe di un viaggio
in cui le fermate sono passaggi, ed i paesaggi sono visti e rivisti di
volta in volta attraverso la lente del pelle-grino apparentemente senza
meta. Il punto di partenza è il paese d’origine (Republica
Socialista România) nei suoi connotati culturali e politici. L’incontro
con l’Italia e gli studi sono rielaborati attraverso la lente dell’Osservatore
Romeno. Osservazione partecipante dove i sentimenti e le emozioni (solitudine,
amore, follia) contribuiscono a rendere vivo il cammino in salita. Il
mito dell’eterno ritorno colpisce ancora e la conclusione dei ricordi
rappresenta lo slancio verso un futuro ignoto che, come il passato, è
ancora tutto da scoprire. E c’è la sospensione tra due (o
più) realtà esperite.
Scrivevo che “ho vinto l’America in ricevitoria / e non ho
niente” nel 1995, in “Nato senza la camicia”. Descrivevo
brevemente quello che sembrava per i più l’ideale morale,
sociale, politico: l’America. L’America “col tempo è
denaro/ non per i contadini/ ma per i sognatori/ tutto è Disneyland
e luci”, l’America simbolo di libertà da conquistare
e difendere, da esportare, svendere o regalare, da proporre ed imporre.
Per arrivarci si poteva anche concorrere ad una lotteria…
Per molte persone, anche per i romeni, tali ideali sarebbero stati raggiunti
anche in un paese europeo.
La libertà non si acquista né si vince con la fortuna; la
libertà la acquisisci, la costruisci, prima nella tua mente e poi
nella relazione con il mondo. E poi dove finisce la tua e dove inizia
la mia?
Viviamo in un mondo che ha moltiplicato le relazioni con gli altri, rubando
spazio alla relazione con se stessi. Siamo cittadini di un nuovo, grande
ma sempre più stretto, villaggio globale. I nuovi cavalli sono
automobili, le nuove diligenze sono traghetti, le nuove navi sono aerei,
e partiamo e ritorniamo per la conquista di un nuovo continente nella
stessa settimana. Ma le dogane e le frontiere sono ancor più difficili
da passare. Eppure non si parte più con la supposizione di nuovi
mondi ma con la certezza di “Americhe” da conquistare. Dove
le “Americhe” sono, nel nostro immaginario, almeno un’opportunità
per vivere meglio.
Nel 1991, entusiasta, ho trovato che in Italia si poteva leggere tutto,
perché avevo accesso “libero” a tutto il leggibile
del mondo, si poteva dire quello che pensi senza dover sparire per sempre,
si pote-va manifestare la propria opinione, ci si poteva difendere dalle
accuse e fino alla condanna c’era la presunzione di innocenza, si
poteva esercitare la propria creatività ed esprimerla. Tutto nel
rispetto della libertà altrui. Il mio pensare aveva spazi per esprimersi
ed allargare i suoi confini.
Ma già nel ‘95 mi sembrava che qualcosa mancasse ancora.
Incominciavo a sospettare che, persino nei grandi paesi esportatori di
democrazia, non tutto il leggibile venisse scritto e pubblicato, che per
aver detto quello che pensi nessuno ti farà sparire ma non sempre
il coraggio delle proprie opinioni è senza conseguenze. E intuivo
che anche le manifestazioni in piazza non fossero poi tutte libere, che
alcune bandiere sventolavano “a pagamento”, che la diversione
non è poi in uso soltanto nelle dittature, che poi la legge, come
la salute, non è uguale per tutti, che la presunzione d’innocenza
per alcuni è certezza ed assicura l’immunità, che
le opinioni personali potevano essere imbavagliate da qualche “politica
aziendale”, che la creatività sfociata in satira non poteva
trovare spazio e visibilità neanche coi soldi dei contribuenti.
“E penso albanese o curdo: su questo atlante scaduto troverò
mai le mie origini?” Risale al 1994 questa riflessione contenuta
nell’Allunaggio.
Se le notizie di conflitti, profughi, fame, povertà ci raggiungono
soltanto in base a “indici di ascolto”, “priorità”
e “opportunità” forse la concretizzazione di alcune
definizioni di libertà, addirittura esportabile, ha subito qualche
aberrazione.
Rimane una grande sfida. Di certo non ci farà annoiare: occorre
saper tenere aperti i confini del proprio pensare.
a cura di Paolo
Trabucco (Ferrara - Milano Aprile 2006) |