Io non posso descrivere il mondo se non vado fuori dalle mie stanze
Di Yousif Jaralla

 

Intanto è fastidioso sentire la propria voce con questo rimbombo, con questa eco che sovrasta la tua voce. E sono sicuro che molte parole, molte frasi, non vengono ben sentite o capite, anche perché questa ripetizione della voce, questo rimbombo, falsificano quello che dici, o quello che pensi. Già per se stesso il microfono crea una distanza, una distanza tra la bocca di chi parla e l'orecchio di chi ascolta. E se la qualità dell'ascolto dipende soprattutto da ciò che si dice, allora tutto l'ascolto sarà falsificato come, in questo momento, viene falsificata la mia voce.
Se io dico una frase e voglio guardare qualcuno negli occhi, non riesco a vedere nessun occhio, qui. E' come entrare in una stanza buia, sperando che, al primo tentativo, tocchi il divano e ti siedi e qualcuno ti ascolti.
Parlare per ultimo, poi, è sempre una fregatura, scusate la franchezza, perché man mano che tu ascolti gli altri, vedi che hanno tracciato, hanno ripreso, tutto quello che pensavi di dire nel tuo intervento.
Venendo da Bologna mi sono detto: "Su cosa interverrò?" Perché io non sono capace di fare il compitino, non sono capace di scrivere il tema, nemmeno sono capace di scrivere le storie. Mi chiamano poeta, ma io non sono poeta. Mi chiamano scrittore e mi assale un senso di imbarazzo, perché mi sembra che chiamino qualcun altro. A me piacerebbe che qualcuno mi dicesse: "L'Iracheno". Sì, mi riconosco: sono iracheno. Che mi chiamasse: " Yousif." Sì, mi riconosco in Yousif. Poeta…a me sembra che mi si stia regalando o donando o concedendo una qualità per poter essere accettato o per essere ascoltato. E questo, in qualche modo, crea quello che si attende dando del poeta ad un immigrato. Tanto ci siamo abituati a queste persone, che vivono nell'ombra, che vivono ai margini o non sono considerati se non come lavoratori E' strano questo pensiero quando vedi queste persone e pensi che la loro capacità consista solo nella capacità di lavorare, mandare avanti una economia, fare i lavori più umili, fare tutto per sopravvivere…ma che non siano capaci di pensare, di raccogliere una emozione, avere una sensazione, e poi restituirla in varie forme, sia in una poesia che in un quadro o in una narrazione. Ecco, io mi identifico con la narrazione, dentro la narrazione.
Ho rifiutato sempre di pubblicare, è più di un quarto di secolo che scrivo, un quarto di secolo che raccolgo impressioni, raccolgo la bellezza e la brutalità del mondo, ma non ho mai sognato di pubblicare. Ogni volta che mi dicono di pubblicare, io subito dico: "No…E' difficile tradurle in italiano!" per dribblare queste pretese. Perché è vero questo, tra l'altro io non scrivo…Io per anni e anni, ho fatto spettacoli di narrazione. Che cosa è? La narrazione è una forma di oralità. E' che cosa? E' una specie di codificazione dei sentimenti e dei pensieri con l'ascolto. Tra l'altro, come si diceva prima, c'è una doppia identità della persona: il suo essere scrittore e il suo essere umano.
Dietro ad un immigrato c'è uno scrittore…Anzi, un immigrato è uno scrittore se noi intendiamo per scrittore quella persona capace di elaborare, raccogliere e raccontare storie, perché scrivere, narrare, esprimere è il prodotto dello spostamento, lo spostamento fisico e mentale. Io non posso descrivere il mondo se non vado fuori dalle mie stanze. Non posso vedere le mie cose, che mi appartengono. Mi viene in mente l'esempio di uno scrittore iracheno che aveva invitato un suo collega tedesco per le vie, per i moli di Bassora. E lì era commosso quello scrittore iracheno. Diceva: "La prima volta mi sembrava di aver conosciuto la mia città da bambino, ma passeggiando con quello scrittore tedesco per le vie, per i moli di Bassora mi è sembrato di scoprire per la prima volta la mia città. Mentre io presentavo la mia città vedevo l'emozione, l'attenzione, quella luce che passa nella curiosità di una faccia, di una persona che vuole scoprire. Vedevo, per la prima volta, cosa vuol dire essere nato in questa città, cosa vuol dire avere un patrimonio dentro e sapere di averlo sempre avuto dentro, ma mai ho saputo dirlo o scriverlo. Ho saputo, forse, viverlo, ma l'atto di buttarlo fuori, di vederlo come uno specchio in quello scrittore tedesco, a me è parsa l'avventura più grande." Per me ha significato tantissimo questo. Cade la pretesa secondo la quale se io nasco in questo paese, in questo paese non ho bisogno degli occhi degli altri per vedere; non ho bisogno del parere o della presenza degli altri per conservare, per mantenere, per portare avanti nella storia e nel tempo questo patrimonio. Al contrario, ho bisogno sempre di un occhio diverso dal mio, un occhio che viene da fuori per distaccarmi, per farmi uscire fuori un attimo, per vedere, perché non si può narrare o raccontare o dire o esprimere delle emozioni a ridosso di un evento. Non puoi descrivere un vestito se non lo metti davanti agli occhi, non lo puoi descrivere mentre ce l'hai addosso. Per lo straniero è lo stesso. Ecco perché poco fa dicevo che la letteratura nasce dallo spostamento. Ci sono degli immigrati - e mi è capitato di vederne tantissimi qui in Italia - che quando arrivano sono persone molto conservatrici, molto rispettose, con tutte le caratteristiche, diciamo, di un arabo conservatore. Li rivedo dopo sei mesi: sono diventati totalmente diversi, non li riconosco, non perché abbiano subito chissà quale cambiamento, ma perché hanno preso consapevolezza di un fatto essenziale della vita di un immigrato. Un immigrato che lascia la sua terra, lascia la sua casa, lascia il suo popolo, lascia la sua cultura, apre una parentesi. Apre una parentesi: non sa quanto durerà questa parentesi. Ci sono, per esempio, tanti immigrati che cambiano nome. Uno si chiama Karim, si fa chiamare Carlo. Uno si chiama Mohamad, si fa chiamare Maurizio. All'inizio, sì, mi faceva ridere, mi sembrava ridicolo questo modo di adattarsi, questa modalità di inserimento dell'immigrato. Io poi l'ho capito, ma dopo tanti anni, invece l'immigrato normale lo capisce subito. Quello che cambia nome lo capisce subito. Appena entra, dopo qualche tempo, cambia nome, cambia anche il modo di vestire. Comincia a bere pesantemente perché prende consapevolezza di questa parentesi - io in Marocco o in Iraq, mi chiamo Mohamad, adesso mi chiamo Maurizio - consapevolezza di avventurarsi in un terreno, in uno spazio, in una identità che non è la sua. Ho visto delle persone conservatrici che pregavano in Marocco e poi, appena arrivavano in Italia, diventavano degli ubriaconi. E tu gli dici : "Ma perché bevi?" E lui ti risponde: "Ma se tu disubbidisci ad una regola - perché i musulmani non bevono - non puoi disubbidire a Dio con un bicchiere: almeno disubbidisci con una bottiglia!"
Lui, tra l'altro, è anche consapevole della prospettiva della strada di ritorno. Sa benissimo che questa parentesi, prima o poi, si chiuderà. E prima o poi tornerà da dove è partito. Prima o poi chiuderà questo cerchio. Prima o poi tornerà come prima o forse anche meglio di prima perché ha aggiunto altra storia, altra identità, altra esperienza. Quel cambio di identità, quella avventura in una esistenza differente, gli ha permesso di vedere tante altre cose che, se lui avesse mantenuto la sua, forse gli sarebbe stata di ostacolo.
Poco fa parlavamo, durante la pausa, del grado di attenzione e di ascolto delle persone e parlavo del fatto che io non posso ascoltare l'altro se non ho due tipi di predisposizione. Primo: quello di far cessare i miei pensieri. Non posso stare ad ascoltare qualcuno se penso ad un'altra cosa. Sarebbe una forma di ipocrisia. Sarebbe una forma di non rispetto della parola dell'altro o del pensiero dell'altro. Inoltre se io ascolto l'altro dovrei - e questo è il secondo tipo di predisposizione - avere la capacità di immedesimarmi. Io non posso, se qualcuno mi parla dell'India o dell'Africa, non posso non diventare o africano o indiano nel momento in cui lui mi sta raccontando, perché, altrimenti, non faccio altro che filtrare…Fare un filtro…Tu mi parli dell'Africa, dell'Africa nera e io mi metto un filtro, bello, giallo, bianco, per accettarlo. Come dire - esageriamo nel paragone - io, per accettare la vista di un africano, gli devo dipingere il volto. Insomma, se tu ascolti la musica africana o la ritmica africana, cerchi anche di muoverti o di danzare in modo da andare a passo con questa ritmica, non danzi il valzer con il tam tam! E' la stessa cosa dell'ascolto, la stessa cosa del pensiero.
Detto questo, forse non ho più niente da dire…Anzi, ringrazio Dio perché, venendo da Bologna, facevo tutta una serie di ipotesi: "su cosa parlerò? Parlerò dell'estraniamento, parlerò di questa storia, parlerò di me, parlerò..." Poi alla fine - io ce l'ho sempre in mente - se non ci si mette lì davanti e non palpita il cuore, non si può dire la cosa vera. Io posso preparare un discorso, una scaletta, ma mi fa piacere quando vado, io per primo, ad interrompere quella scaletta. Anzi, poco fa, avevo preparato qualcosa e mi dico: "Finalmente ho trovato il mio discorso." Io racconterò un pezzo che ho sempre sognato di mandare come curricolo invece di dire: Youssif Jaralla, nato a Bagdad, ha studiato all'Accademia, fa spettacolo di narrazione, ha collaborato con questo e con quello... No, sarebbe bello mandare un foglio con dieci, quindici righe che narrano la storia di un uomo, un pezzo di narrazione. Poi, se ti accettano per quello che hanno letto non l'accettano perché hai il titolo dell'Accademia o hai il titolo di quel laboratorio o hai pubblicato questo o quello. Mi piace che le persone vengano accettate per quello che sono, non per quello che si suppone, perché il titolo dell'Accademia o il titolo di Filosofia non dice, per forza, che sei un pittore o un dottore. Hai la laurea, poi si vedrà se sei capace di essere dottore o se sei capace di essere pittore.

C'è un pezzo ne "Gli amici del Narciso" [1] dove c'è una bambina. In un giorno che sembra il giorno del giudizio, o, forse, il giorno della creazione, c'è tutta l'umanità, tutte la razze, tutti gli uomini di tutte le età, vecchi, donne, religiosi, politici, generali… Ci sono tutti…tutti e c'è una bambina. Una bambina che va da un esercito all'altro, da un'orda all'altra, da una schiera all'altra a chiedere i nomi delle persone: "Tu come ti chiami? Tu come ti chiami?" Oppure vede qualcuno che le piace e dice: "Lei come si chiama?" A un certo punto vede una persona senza faccia e gli chiede: "Ma lei come si chiama? Lei che fa qui?" E lui le risponde in un modo molto bizzarro. Anzi non le risponde…Anzi le risponde facendole una domanda: "E tu che fai qui?" E la ragazzina, all'improvviso, scopre un dilemma…Lei che faceva lì, in quel giorno del giudizio? Allora quello le dice: "Senti bambina, se tu mi dai il tuo volto, la tua faccia, io ti posso rivelare perché sei qui." Allora fanno questo scambio. Lei dà il suo volto a quell'uomo strano. All'improvviso scopre perché lei è venuta qui. Chiedeva a tutti quanti, perché quella bambina, non si sa dove, non si sa quando, ha perso suo padre e cerca suo padre. Cercava il suo nome, il nome degli altri, pensava che qualcuno, forse per corrispondenza di nome o di cognome, le rivelasse che, finalmente, aveva trovato quell'uomo. Lo cerca nei nomi ma poi vede una fila di persone. Hanno la faccia stanca, i vestiti a brandelli, i piedi impolverati. Uno di loro, forse il più vecchio di tutti gli altri, si ferma lì, dove c'era la fonte, allunga la mano e tocca la terra e l'acqua comincia a sgorgare. Ne prende un pugno per bagnarsi il viso, e un pugno per dissetarsi, e quando l'acqua tocca le labbra la sua mano comincia a tremare dalla commozione. E la bambina si avvicina al vecchio e gli tocca la spalla e gli chiede: "Signore, lei come si chiama?" E lui la guarda, allarga le braccia, come per dire: "non so o non me lo ricordo" o come per dire: "Bambina mia, io, una volta, avevo un nome, un volto, e non so quale vento mi ha rubato il volto, non so quale città mi ha rubato il nome." Allarga le braccia come per dire "avevo una casa, una donna e una bambina come te dall'altra parte…Ma non so dove." Lui allargò le braccia come per dire: "Bambina mia, io, una volta avevo un nome e un cognome, ma forse perché nessuno mi ha chiamato con quel nome me lo sono dimenticato." Allargò le braccia come per dire: "Bambina, io sono quello che sono, io sono quello che vedi, chiamami come vuoi, mettimi il nome che ti piace, o se ti va mettimi il tuo nome, comunque grazie, se molti anni fa qualcuno mi avesse chiesto come mi chiamo, tutta la mia solitudine si sarebbe sciolta, tutto il mio esilio sarebbe finito, ma nessuno, nessuno me lo ha chiesto, e adesso è troppo tardi, sono vecchio e debbo andare, comunque grazie."
Il vecchio raggiunge la fila.
La bambina pensava sempre a come potesse chiamarsi quell'uomo, quel vecchio. E poi incontrò quella persona strana che le aveva chiesto il volto e lei dentro vedeva l'immagine di quel vecchio esiliato e la sua mano tremante e cominciò a piangere, cominciò a piangere, cominciò a piangere e a singhiozzare e piano piano a dire: "Signore, perdonami, non ho visto quando avevo gli occhi, e adesso so perché sono venuta alla fonte. Quella mano tremante, quella mano tremante, quella mano tremante, quella mano tremante di quel vecchio… Quel vecchio era mio padre."

[1] La narrazione di Jousif Jaralla "Gli amici del narciso" è comparsa nella raccolta antologica Parole di sabbia, Il Grappolo, 2002, a cura di F.Argento, A. Melandri, P. Trabucco.

 


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