La letteratura della migrazione in Italia
Francesco Argento  

A partire dagli anni Ottanta l'Italia diventa luogo di approdo di migliaia di immigrati che abbandonano i cosiddetti “mondisud” alla ricerca di una vita migliore.
Naturalmente, gli studiosi italiani colgono subito la novità e la rilevanza del fenomeno, ma si limitano a sottolinearne gli aspetti più comuni, legati per lo più alla vita e all'esistenza dei nuovi arrivati. Ben presto però, l’indagine si allarga e investe l’ambito culturale, coinvolgendo direttamente gli stessi immigrati che cominciano a raccontare le proprie esperienze con l’aiuto di giornalisti o scrittori italiani. Nasce così la letteratura della migrazione - definizione mutuata dall'inglese migrant writers – con cui si indica la produzione letteraria di scrittori stranieri che vivono in Italia e hanno scelto di esprimersi nella lingua del paese “ospitante”.
In Italia il fenomeno si afferma in ritardo rispetto ad altri paesi europei, dove esiste una tradizione consolidata (basti pensare, in Francia, a Tahar Ben Jelloun, o in Inghilterra, a Rushdie e Kureishi), eredità di un passato coloniale che se da un lato ha prodotto un processo di acculturazione forzata e di depauperamento delle culture dei paesi sottomessi, dall'altro ha dato luogo a forme nuove di aggregazione culturale caratterizzate da un rapporto di interscambio tra 'differenti identità'. Ma, paradossalmente, è proprio la mancanza di una significativa storia coloniale che rende particolare e originale la situazione italiana: "L'inglese - afferma lo scrittore brasiliano Julio Monteiro Martins - è oggi una lingua letteraria dell'India o dello Sri Lanka, mentre l'italiano non è lingua letteraria in nessun altro paese se non in Italia. Ecco che allora le persone che vengono presentano un più ampio ventaglio di origini, non ci sono regioni privilegiate…trovi sudamericani come maghrebini, scrittori dell'Africa occidentale, orientale, e sono tutti uomini che hanno scelto questa cultura e non l'hanno ereditata per 'vie coloniali'. Ciò fa una grande differenza, perché in questo caso la conoscenza e l'approccio nei confronti di una lingua nascono da un'empatia, da un elemento amoroso, da una forte dose di affettività."[1]
La letteratura della migrazione nasce nel 1990 con la pubblicazione di tre libri, scritti a quattro mani: Chiamatemi Alì del marocchino Mohamed Bouchane, Immigrato del tunisino Salah Methnani e Io venditore di elefanti del senegalese Pap Khouma; segue nel 1991 La promessa di Hamadi del senegalese Saidou Moussa Ba, una sorta di 'viaggio interiore' attraverso l'Italia dei pregiudizi razziali e del disagio sociale. Si tratta della cosiddetta letteratura di testimonianza, nata dal bisogno degli intellettuali migranti di "farsi ascoltare", di comunicare, attraverso la scrittura, direttamente con il pubblico italiano. Sono testi, spesso autobiografici, che parlano di violenza e di razzismo, di solitudine e integrazione impossibile tra immigrati e società italiana.
In un momento successivo, come sostiene Armando Gnisci - docente di Letterature comparate  e creatore, insieme a Franca Sinopoli, della Banca Dati Basili - "gli scrittori dell'immigrazione hanno incominciato ad emanciparsi dalla scrittura in collaborazione con adiutori italiani, mostrando il bisogno  di volersi costituire e presentare come scrittori in senso pieno."[2] Sono nate così opere, diverse per valore letterario, ma tutte accomunate dalla necessità di superare l'autobiografismo testimoniale della prima fase. E' proprio in questo momento che molti autori decidono di scrivere direttamente nella nostra lingua, come avviene per il tunisino Moshen Melliti che, dopo un libro (Pantanella. Canto lungo la strada), tradotto in italiano dall'arabo, scrive direttamente in italiano il romanzo I bambini delle rose. Siamo dunque al di là della fase autobiografica e di testimonianza, ma le case editrici non pubblicano più libri di immigrati, perché il mercato impone scelte diverse, e così la letteratura prodotta da immigrati rimane quasi "invisibile"; circola soltanto grazie all'impegno di piccole case editrici (Fara, Sinnos, Sensibile alle foglie, Datanews), di associazioni (La tenda), di riviste (Mani Tese,  Terre di mezzo), di studiosi, all'interno e all'esterno del mondo universitario (Armando Gnisci, Matteo Taddeo) o di premi letterari, come Exs&Tra, organizzato da Roberta Sangiorgi insieme all'editore Fara.
All'inizio del nuovo millennio ritorna l'interesse della grande editoria: la Fiera del libro di Torino 2000 dedica due eventi alla letteratura della migrazione; vengono recuperate opere di scrittori migranti (Verrà la vita e avrà i tuoi occhi, L'essenziale è invisibile agli occhi, Requiem per tre padri di Jarmila Ockayovà, Il ballo tondo, La moto di Scanderbeg di Carmine Abate) che avevano avuto un discreto successo editoriale al momento della pubblicazione e, soprattutto, se ne pubblicano di nuove: La straniera di Younis Tawfik (1999), Fiamme in paradiso (2000), Racconti italiani di Julio Monteiro Martins (2000), Il sole d'inverno (2001) di Muin Madih Masri, Va e torna (2000) e M (2002) di Ron Kubati, Rometta e Giulieo di Jadelin Gangbo (2001), Neyla di Kossi Kobla-Ebri (2002), Tra due mari (2002) di Carmine Abate, Stigmate (2002) del poeta albanese G
ëzim Hajdari, vincitore, nel 1997, del prestigioso premio Montale di poesia. 
Sono tutti autori che, pur richiamandosi alla poetica della migrazione - intesa come migrazione interiore - hanno sviluppato percorsi letterari differenziati, alcuni con esperienze significative nel paese d'origine (Gëzim Hajdari, Julio Monteiro). Ma ci sono anche scrittori migranti che sperimentano forme di comunicazione letteraria e artistica diverse da quella del romanzo o del racconto classico. E' il caso di Yousif Jaralla, di origine irachena, che intreccia, nelle sue performance, tradizione mediorientale e siciliana, creando un linguaggio modellato su quello della narrazione orale sufi; o di Tahar Lamri, scrittore algerino, che mescola dialetti della pianura padana con il linguaggio dei meddah maghrebini: o ancora di Santino Spinelli (musicista compositore, poeta, scrittore, titolare della cattedra di Lingua e Cultura Zingara all’Università di Trieste, collaboratore del Centro di Ricerche Zingare della Sorbonne di Parigi, membro della Romani Union Internazionale), che ripercorre il viaggio del popolo Rom, a cui orgogliosamente appartiene, recuperando espressioni musicali della tradizione romanì in una prospettiva di cultura cosmopolita e transnazionale.
Un discorso a parte merita la produzione letteraria di Carmine Abate, scrittore italiano ma di origine arbëresh, figlio di emigranti e a sua volta con un passato di emigrazione in Germania. L'esperienza dell'emigrazione costituisce un momento importante e decisivo per la sua formazione di uomo e di scrittore: "Io in Germania - spiega nell'intervento al convegno - vivendo a contatto con gli emigranti, vedendo le condizioni di vita degli emigranti - parlo soprattutto della prima generazione dei Germanesi, che si può paragonare alla generazione degli immigrati oggi in Italia - ho sentito la necessità di scrivere. Ecco, la mia voglia di scrivere mi è venuta lì. Ho cominciato a scrivere in Germania, proprio per denunciare l’ingiustizia dell’emigrazione. Io l'avevo vissuta sulla mia pelle, però ho riflettuto - ero giovane, allora - su questa costrizione: costringere qualcuno a vivere altrove era per me, allora, la più grave delle ingiustizie. Oggi so che ci sono ingiustizie ancora più gravi, però in quel periodo mi sembrava la più grave in assoluto e ho cominciato quindi a scrivere poesie e racconti usando spesso lo stesso linguaggio degli emigranti, e li ho pubblicati in Germania."[3]
Le sue opere - romanzi e racconti, ma anche poesie - sono capitoli diversi di una lunga storia di migrazioni: la migrazione degli albanesi, arrivati in Italia dopo la morte del mitico condottiero Scanderbeg, e quella degli italiani all'estero, una esperienza che ha lasciato pochissime tracce nella letteratura italiana, se si esclude Libera nos a Malo di Meneghello. Eppure, esiste una vasta produzione di letteratura dell'emigrazione di lingua italiana, o prodotta da scrittori di origine italiana (John Fante, Jo Pagano, Pascal D'Angelo, Pietro Di Donato, Nino Ricci, Helen Barolini) che andrebbe recuperata e studiata in "coppia di comparazione" con quella degli scrittori migranti italiani, se non altro per verificarne i punti di contatto. Non solo. Potrebbe essere anche l'occasione per approfondire la storia del passato migratorio italiano, rimosso troppo in fretta dalla nostra coscienza, perché si tratta di una storia dolorosa e per molti aspetti non diversa da quella di tanti immigrati senegalesi, albanesi, nigeriani, cinesi ecc., come ha evidenziato Gian Antonio Stella nel suo bellissimo libro L'orda, pubblicato recentemente dalla Casa Editrice  Rizzoli.
"Avendo noi alle spalle una lunga storia di emigrazioni - sottolinea  Carmine Abate - dovremmo essere più solidali con chi viene da fuori. Ma sta proprio qui la spina. Chi viene da fuori ci ricorda troppo chi eravamo, chi erano i nostri padri, i nostri nonni. E noi invece vorremmo dimenticarlo. Forse se riuscissimo a rivalutare la nostra emigrazione e i nostri emigranti, a vederne gli aspetti positivi, il nostro atteggiamento nei confronti degli stranieri in Italia cambierebbe."[4]

 

[1] Intervista Sagarana
[2] Basili, presentazione a cura di Armando Gnisci
[3] Convegno "Culture della migrazione e scrittori migranti", Ferrara 19-20 aprile 2002
[4] Intervista Voci dal silenzio  


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