Il pellegrinaggio della voce: esperienze e complessità della scrittura migrante
di Tahar Lamri

 

Premetto che non sono un teorico della letteratura o un critico letterario. Ciò che vi dirò ora riguarda i miei tentativi di scrivere in italiano, i tormenti che governano tale scelta, e qualche mia riflessione d'ordine generale sulla scrittura migrante in Italia, dettata più dai "sentimenti" che dall'analisi scientifica.
Per me, scrivere in Italia, paese dove ho scelto di vivere e con-vivere, vivere nella lingua italiana, convivere con essa e farla convivere con le altre mie lingue materne (il dialetto algerino, l'arabo ed in un certo senso il francese) significa forse creare in qualche modo l'illusione di avervi messo radici. Radici di mangrovia, in superficie, sempre sulla linea di confine, che separa l'acqua dolce della memoria, da quella salata del vivere quotidiano.
Perciò la scrittura non rappresenta per me un mero nomadismo, in cerca di pascoli letterari, ma rappresenta un pellegrinaggio circolare, dove non è assente lo smarrimento, il saccheggio, la meraviglia, il mito, e, forse, il ritorno verso di sé, o in altri termini più precisi l'eterna perdita della mia propria identità, coltivando in segreto, come i marrani nella Spagna della Riconquista, l'identità primordiale, in un luogo al di là dell'errare. Forse si tratta di una ricerca dell'"anima plurima" con le sue implicazioni pagane. Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera.
Ma si può coltivare l'illusione dell'identità primordiale in una lingua già straniera? In una lingua che mi rinvia ancora il mio balbettio in essa, talmente è poco il tempo trascorso fra i tentativi di imparare a parlarla, anche approssimativamente, per uscire dal mio Macondo post-diluviano, di oggetti senza nome e la pretesa di utilizzare questa stessa lingua per descrivere i miei sentimenti profondi, con parole coricate, allineate su diverse righe, ma in uno stato di continua veglia, che parlano all'immaginazione altrui. A volte anche rapinando a piene mani nei ruvidi dialetti delle pianure. Non vi sembra una bella pretesa?
Vivo in Romagna, dal 1987, cioè da quando sono in Italia. In questa zona, specie fra gli anziani, la formula di saluto più affettuosa è "Che ti venga un accidente!".
Mi ricordo, l'anno scorso, in occasione del Festival AzioniInClementi a Malo, stavo fuori della villa Clementi, in attesa di partecipare ad un incontro sulla letteratura dell'immigrazione, vicino a me c'erano due persone, autoctone, che leggevano il programma della giornata, una ha chiesto all'altra spiegazioni su un punto del programma e l'altra ha risposto "Ze una roba di cultura!". Queste sono le cose che mi affascinano e mi spingono a scrivere. Vorrei spingere la mia esperienza migratoria fino ad abbracciare i dialetti e da lì partire per costruire la lingua italiana assieme agli scrittori italiani. Una lingua nuova che mi permetta, finalmente spoglio dalla mia cultura d'origine e dalle culture che mi hanno investito lungo tutti questi anni di peregrinazioni (Libia, Egitto, Francia, Svizzera, Polonia, Inghilterra, India), di compiere finalmente il "Viaggio" - con la "V" maiscula - della visibilità assieme ad altri scrittori italiani, ma al di là della letteratura italiana classica, poiché i miei studi scolastici non sono nutriti dai "Promessi sposi" o dalle poesie del Pascoli, il tutto teso verso una riconciliazione primordiale e forse non è a caso che, per me, il testo che leggo e rileggo spesso sia il "Cantico dei Cantici".

La scrittura migrante
Ho la ferma impressione che la letteratura dell'immigrazione in Italia o i Migrant Writers, come si chiamano da un po' di tempo a questa parte, non parla d'altro che dell'eloquente silenzio dell'immigrato, scrittore esso sia o meno.

C'è in questo silenzio la gravità, senza ostentazione, un fascino sovrano, una grazia raffinata: un modo discreto di parlare delle cose della vita, dell'amore, del "saudade", della "ghurba", della femminilità e dell'infanzia, della morte, della difficoltà e della gioia, e soprattutto del potere di utilizzare le parole - italiane - per esprimere tutto questo con una sorta di indulgenza che fa sì che ci sorprendiamo ad amare tutto, ci cogliamo a perdonare tutto allorché, noi stessi, viviamo situazioni contingenti, malferme, in equilibrio ora su un piede ora sull'altro, mai su entrambi, in perenne stato di sospensione.
Un silenzio privo di polemica, che mai rivendica la lotta fine a se stessa, espresso in modo del tutto personale, in una lingua spesso sussurrata, mai gridata. L'animo umano è il protagonista assoluto, che registra le scosse inflitte all'individuo, ed è attraverso l'animo umano che vengono analizzate le sfortune, a volte, ma raramente, anche le fortune, del popolo immigrato, spesso abbandonato a se stesso.
A tastoni, i personaggi cercano un senso ormai celato, ossessionati dall'idea di andare a vedere sotto la pelle, ciò che ben dissimulano le differenze del colore. I sogni che popolano i racconti, e che tormentano i narratori, sono quelli di una forma di riconciliazione, appartenenti ad uno stato primordiale.

Non si può spiegare altrimenti la scelta della lingua italiana per raccontare con la voce piana della confidenza, ciò che si scrive di solito a se stessi, ciò che si confida ad un caro diario, perché scrivendo, ad esempio, in francese, lingua di un ex potenza coloniale, significa essere letti da molte persone in Francia e fuori dalla Francia, forse suscitare dibattiti o essere contestati e condannati dai propri connazionali, mentre scrivere in italiano significa, per chi scrive, anche se ciò non corrisponde al vero, scrivere a se stessi, cioè in primo luogo ad una cerchia di amici o addirittura per attirare l'attenzione della persona amata, magari italiana.

Attraverso la lingua italiana, dove si coltiva l'illusione, a torto o a ragione, che in essa convivono l'Europa della ragione e il mediterraneo della passione e del cuore - poiché si sa che ogni progetto letterario in una lingua neutra è sempre e prima di tutto un progetto emotivo - passa l'idea che la scrittura potrà forse un giorno, malgrado tutto, riunire ciò che la storia ha separato.

Convinto quindi di non essere letto, o letto comunque da pochi, lo scrittore immigrato s'ingegna a far passare le parole in modo clandestino, ed è questo, forse, il vero progetto. Il risultato, naturalmente, supera ogni aspettativa e ci porta in contrade che la lingua italiana non ha mai visitato prima, in atmosfere quasi rarefatte, dove lo scrittore, fosse solo per un racconto, ci mostra la sua relazione piacevolmente paradossale con il mondo. Infatti non c'è neanche una poesia o un racconto, a differenza di altre letterature del genere in altri paesi, dove possiamo sorprendere l'immigrato prigioniero della propria condizione.

Anzi, questa letteratura ci dice che l'immigrato non esiste, esiste soltanto la parola per indicarlo e quindi ci dà finalmente la prova che la lingua italiana non è un oggetto, né tantomeno un ogetto di culto, ma una passione. Yousef Wakkas e Youssif Jaralla ci dimostrano che essa è una fortezza che bisogna assediare, Gezim Hajdari che è una bellezza che si ha il dovere di ferire e Christiana De Caldas Brito che è una purezza che ha assoluto bisogno di essere contaminata, poiché per lo scrittore immigrato le cose rifiutano l'osservazione e nello stesso tempo la richiedono con insistenza, egli sa che a guardarle da vicino si corre il rischio di complicarli, l'unica via per l'autore diventa allora la curiosità laterale.
Si chiude in una specie di cortesia dolorosa, un desiderio taciturno di lasciare rinchiudersi una vecchia e misteriosa ferita, le poesie di Gezim Hajdari spogliano la poesia italiana dall'efficacia pratica e la rivestono di spirito eretico, ed inventano una nuova poesia italiana, che interrompe il discorso muto e totale. Non una poesia sradicata come si potrebbe frettolosamente concludere, ma una poesia con le orme tagliate, quella del primo gesto sovversivo dei profeti che pronunciando la parola decisiva, ci strappano dal dubbio per avvolgerci con la più affascinante perplessità: "Stringiamo i nostri nomi/ strappati come l'erba/ e non sappiamo da dove ci viene/ questa solitudine/ forse dovevamo stare/ più vicino agli alberi/ o ai marmi riversi/ da anni camminiamo/ nei campi brulli/ senza infanzia" e anche: "Anche i fuochi da dove veniamo/non ci consegnano ai nuovi fuochi/dei quali abbiamo bisogno" e ancora: "Sono la verità/di un viaggio e di una linea d'ombra ... Vivo sospeso/senza appartenere a nessuna dimora/al bivio di un equilibrio" e infine: "Sottile diventa anche il muro/che mi difende e mi divide".

Tuttavia, l'immigrato non ignora le distanze e nemmeno le minimizza. Sa che andando dritto alla meta egli può perdere il sapore della sua complessità, l'ombra della sua luce. E allora sceglie di accamparsi in questa distanza, e cioè prendere i suoi simili come modello per meglio schizzare il proprio ritratto. Sa anche e soprattutto che scrivere è soprattutto entrare in se stessi, imparare a considerare se stessi come un mondo di simboli, di messaggi codificati, di rebus insondabili.

Perciò ci sembra di trovarci di fronte ad una "autonarrazione" molto vicina alla realtà autobiografica. Qualcuno, riducendo questa letteratura a variazioni linguistiche e riformulando analisi già fatte, ha già frettolosamente sostenuto che ci troviamo di fronte ad una "pre-letteratura"! e qualcun altro facendogli eco ha già parlato di letteratura etnica o della periferia, ma si sa che il bisogno di classificare - per meglio anestetizzare - dà l'illusione di liberarsi dei sensi di colpa dell'eurocentrismo come del filooccidentalismo. Ma questo è un altro discorso e a dire il vero ci interessa poco o niente.

Fino ad ora assistiamo a testi che si guardano, si rispondono, si contraddicono, si rettificano. Il lettore vede l'opera mentre prende corpo, vede la mano esitante e insicura sulla scelta delle parole da allineare l'una accanto all'altra, vede l'idea che si sottrae qui per essere meglio precisata altrove, vede infine i capitoli cambiare continuamente posto nella disposizione d'insieme. Lo stesso tema, la stessa sequenza di oggetti e di fatti sono ripresi sotto un'altra angolazione, sotto un'altra luce, con altre tonalità: senegalesi, marocchine, venezuelane, algerine, abissine, poi malgasce, slave, siriane, tunisine ... Tutte queste tonalità in lingua italiana! La società di accoglienza ispira allo scrittore immigrato soltanto stupore e bisogno di renderla ancora più provvisoria e incoerente di quanto non è, nei sui confronti s'intende, nella sua natura. Vivendo spesso in condizioni precarie, egli teme di vivere nel pressappoco, e si comporta con la lingua come il maniaco ossessionato dall'idea di aver dimenticato il gas aperto o di perdere le chiavi.
No, lo scrittore immigrato non è un autoesebizionista compiaciuto che non sa parlare d'altro che di sé. Ma intende per "autonarrazione" il riflesso di un'espressione interiore sempre aperta al dialogo e cioè il confronto sull'umana esperienza, una continua ricerca della verità, lungi dai "vasti palazzi della memoria" e rivolta al sempre mutevole presente, incalzante e imperativa, dunque l'esperienza di tutti gli uomini.
Egli quindi costruisce un doppio immaginario del mondo reale, e così ci accorgiamo che la scrittura altro non è che un immenso cantiere, mai compiuto, le città italiane non assomigliano alle città italiane e gli italiani non assomigliano agli italiani e neanche gli stranieri assomigliano agli stranieri.
Memore del primo impatto con la società italiana, impatto che disintegra la memoria, vieta talvolta, quando si vuole ricostruire il racconto cronologico, la narrazione misurata e lineare, lo scrittore immigrato, armato con un "Io" più sparpagliato dell'oceano mare, tenta, attraverso la scrittura, di non perdersi mai nella società italiana come "l'acqua nell'acqua", e cerca di far corrispondere a questo scoppio di ricordi, troppo intensi, brucianti, una costellazione di sequenze, di cronache, spiagge di dolcezza dove è possibile riconciliarsi con il mondo, e quando rientra in possesso di ciò che è naturalmente suo, si sente meno legato a se stesso di quanto una parola è legata all'infinito dei suoi significati possibili, e poiché l'immigrato comincia a parlare italiano balbettando, sente qui il bisogno di vedere le sue parole stampate, definitive, indelebili e prova finalmente la gioia di essere ascoltato, solo che ha l'impressione che dire le cose una sola volta non basta, che bisogna ripeterle in diversi modi per essere sicuro di essere stato capito.

Ripetere, ci dice il Gabrielli, è confermare, iterare, reiterare, rifare, ridire, ribadire, ma anche ribattere, replicare, riaffermare, ma possiamo dire che è anche riferire, diffondere, divulgare con il segreto che conviene ad ogni trasmissione essenziale. E' anche ricominciare il gesto, l'azione, l'esperienza. Tentativi molteplici per giungere ad un unico scopo, la rappresentazione di sé sulla scena di un teatro che è la cultura italiana, quindi occidentale, e la cultura d'origine.



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