Il
pellegrinaggio della voce: esperienze e complessità della scrittura migrante
di Tahar Lamri
Premetto
che non sono un teorico della letteratura o un critico letterario.
Ciò che vi dirò ora riguarda i miei tentativi di scrivere
in italiano, i tormenti che governano tale scelta, e qualche mia
riflessione d'ordine generale sulla scrittura migrante in Italia,
dettata più dai "sentimenti" che dall'analisi scientifica. La scrittura
migrante C'è
in questo silenzio la gravità, senza ostentazione, un fascino
sovrano, una grazia raffinata: un modo discreto di parlare delle
cose della vita, dell'amore, del "saudade", della "ghurba",
della femminilità e dell'infanzia, della morte, della difficoltà
e della gioia, e soprattutto del potere di utilizzare le parole
- italiane - per esprimere tutto questo con una sorta di indulgenza
che fa sì che ci sorprendiamo ad amare tutto, ci cogliamo
a perdonare tutto allorché, noi stessi, viviamo situazioni
contingenti, malferme, in equilibrio ora su un piede ora sull'altro,
mai su entrambi, in perenne stato di sospensione. Non si può spiegare altrimenti la scelta della lingua italiana per raccontare con la voce piana della confidenza, ciò che si scrive di solito a se stessi, ciò che si confida ad un caro diario, perché scrivendo, ad esempio, in francese, lingua di un ex potenza coloniale, significa essere letti da molte persone in Francia e fuori dalla Francia, forse suscitare dibattiti o essere contestati e condannati dai propri connazionali, mentre scrivere in italiano significa, per chi scrive, anche se ciò non corrisponde al vero, scrivere a se stessi, cioè in primo luogo ad una cerchia di amici o addirittura per attirare l'attenzione della persona amata, magari italiana. Attraverso la lingua italiana, dove si coltiva l'illusione, a torto o a ragione, che in essa convivono l'Europa della ragione e il mediterraneo della passione e del cuore - poiché si sa che ogni progetto letterario in una lingua neutra è sempre e prima di tutto un progetto emotivo - passa l'idea che la scrittura potrà forse un giorno, malgrado tutto, riunire ciò che la storia ha separato. Convinto quindi di non essere letto, o letto comunque da pochi, lo scrittore immigrato s'ingegna a far passare le parole in modo clandestino, ed è questo, forse, il vero progetto. Il risultato, naturalmente, supera ogni aspettativa e ci porta in contrade che la lingua italiana non ha mai visitato prima, in atmosfere quasi rarefatte, dove lo scrittore, fosse solo per un racconto, ci mostra la sua relazione piacevolmente paradossale con il mondo. Infatti non c'è neanche una poesia o un racconto, a differenza di altre letterature del genere in altri paesi, dove possiamo sorprendere l'immigrato prigioniero della propria condizione. Anzi,
questa letteratura ci dice che l'immigrato non esiste, esiste soltanto
la parola per indicarlo e quindi ci dà finalmente la prova
che la lingua italiana non è un oggetto, né tantomeno
un ogetto di culto, ma una passione. Yousef Wakkas e Youssif Jaralla
ci dimostrano che essa è una fortezza che bisogna assediare,
Gezim Hajdari che è una bellezza che si ha il dovere di ferire
e Christiana De Caldas Brito che è una purezza che ha assoluto
bisogno di essere contaminata, poiché per lo scrittore immigrato
le cose rifiutano l'osservazione e nello stesso tempo la richiedono
con insistenza, egli sa che a guardarle da vicino si corre il rischio
di complicarli, l'unica via per l'autore diventa allora la curiosità
laterale. Tuttavia, l'immigrato non ignora le distanze e nemmeno le minimizza. Sa che andando dritto alla meta egli può perdere il sapore della sua complessità, l'ombra della sua luce. E allora sceglie di accamparsi in questa distanza, e cioè prendere i suoi simili come modello per meglio schizzare il proprio ritratto. Sa anche e soprattutto che scrivere è soprattutto entrare in se stessi, imparare a considerare se stessi come un mondo di simboli, di messaggi codificati, di rebus insondabili. Perciò ci sembra di trovarci di fronte ad una "autonarrazione" molto vicina alla realtà autobiografica. Qualcuno, riducendo questa letteratura a variazioni linguistiche e riformulando analisi già fatte, ha già frettolosamente sostenuto che ci troviamo di fronte ad una "pre-letteratura"! e qualcun altro facendogli eco ha già parlato di letteratura etnica o della periferia, ma si sa che il bisogno di classificare - per meglio anestetizzare - dà l'illusione di liberarsi dei sensi di colpa dell'eurocentrismo come del filooccidentalismo. Ma questo è un altro discorso e a dire il vero ci interessa poco o niente. Fino
ad ora assistiamo a testi che si guardano, si rispondono, si contraddicono,
si rettificano. Il lettore vede l'opera mentre prende corpo, vede
la mano esitante e insicura sulla scelta delle parole da allineare
l'una accanto all'altra, vede l'idea che si sottrae qui per essere
meglio precisata altrove, vede infine i capitoli cambiare continuamente
posto nella disposizione d'insieme. Lo stesso tema, la stessa sequenza
di oggetti e di fatti sono ripresi sotto un'altra angolazione, sotto
un'altra luce, con altre tonalità: senegalesi, marocchine,
venezuelane, algerine, abissine, poi malgasce, slave, siriane, tunisine
... Tutte queste tonalità in lingua italiana! La società
di accoglienza ispira allo scrittore immigrato soltanto stupore
e bisogno di renderla ancora più provvisoria e incoerente
di quanto non è, nei sui confronti s'intende, nella sua natura.
Vivendo spesso in condizioni precarie, egli teme di vivere nel pressappoco,
e si comporta con la lingua come il maniaco ossessionato dall'idea
di aver dimenticato il gas aperto o di perdere le chiavi. Ripetere,
ci dice il Gabrielli, è confermare, iterare, reiterare, rifare,
ridire, ribadire, ma anche ribattere, replicare, riaffermare, ma
possiamo dire che è anche riferire, diffondere, divulgare
con il segreto che conviene ad ogni trasmissione essenziale. E'
anche ricominciare il gesto, l'azione, l'esperienza. Tentativi molteplici
per giungere ad un unico scopo, la rappresentazione di sé
sulla scena di un teatro che è la cultura italiana, quindi
occidentale, e la cultura d'origine.
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