"Barni mia, io voglio che
mio figlio nasca qui, terra mia madre di cui conosco risvolti della
memoria, segreti della parola."
Così dice Domenica Axad rivolta all’amatissima
cugina Barni nel momento della loro desiderata riunione dopo un lungo
e doloroso distacco. Legate da un filo invisibile e resistentissimo,
Barni e Domenica Axad, cugine da parte di padre, sono cresciute insieme
a Mogadiscio, bambine spensierate e felici in un mondo compatto di
affetti familiari e radici comuni. Fino a quando Domenica è
partita con la madre per l’Italia. Quando torna a Mogadiscio
il momento è fatale: inizia la guerra civile e, mentre lo scoppio
dei disordini coincide con il trasferimento di Barni a Roma, per Domenica
segna un decennio di smarrimento. Barni, ormai orfana di entrambi
i genitori, si ferma a Roma dove trova un equilibrio nella dedizione
al lavoro di ostetrica. Domenica vaga nel mondo trasportata dai flussi
della diaspora, tentando dolorosamente di riallacciare nessi che restituiscano
un significato alla propria storia. La progressiva ripresa di una
coscienza di sé coincide con l’inizio della relazione
con Taageere, teneramente inconsistente, nomade senza meta: molto
più difficile per gli uomini ritrovare una collocazione dopo
la disintegrazione del proprio mondo. Rientrata a Roma, Domenica Axad
incontra di nuovo Barni e decide di affrontare
accanto a lei la maternità prossima. Suo figlio avrà
lo stesso nome del nonno scomparso nella guerra, Taariikh –
Storia - e Barni - la zia materna - sarà la sua habaryar, madre
piccola.
Sullo sfondo della storia recente della Somalia,
Cristina Ali Farah dà voce appassionata a tre personaggi di
straordinario spessore e autenticità, attraverso le quali riecheggia
il dramma della diaspora. E l’identità in gioco non è
solo quella di chi migra. (Dalla nota editoriale)
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La non-epopea
di un popolo smarrito.
"Madre piccola"
di Cristina Ali Farah
Recensione a cura di
Karim Metref
(www.letteranza.org)
"Madre Piccola" di Cristina
Ali Farah è un libro che viene in un momento particolare. Questa
narrazione dell'erranza del popolo somalo per le vie del mondo arriva
in un momento in cui la Somalia ritorna fortemente ad occupare gli
schermi e le prime pagine dei media internazionali. Questo, venendo
dai nostri paesi, non è mai buon segno. Di noi si parla soltanto
quando il sangue scorre a fiumi. È uno di quei momenti in cui
ci si ricorda di aver dimenticato o fatto finta di dimenticare un
dramma che si svolgeva tuttavia davanti agli occhi di tutti. Uno di
quelli in cui capiamo di non aver capito o di aver rifiutato di capire.
Madre piccola viene in questo momento e ci mette davanti agli occhi
tutto il dramma di questo popolo
Questo libro esce anche in un momento molto intenso di produzione
letteraria ad opera degli immigrati in Italia e dai loro figli (I
così detti figli della seconda generazione).
Questa opera quasi sembra partecipare di una rafforzata volontà
collettiva di raccontarsi, di mettere a nudo la propria umanità,
senza veli e senza difese. Come una mano tesa per essere stretta,
per sigillare un accordo di rispetto reciproco e di convivenza pacifica.
Una mano però che sembra quasi sospesa nel vuoto vista l'aria
che tira nel paese ultimamente.
C'è bastato poco, un incidente di qua, una rissa di là,
voci di ronde notturne, muri che si alzano, dibattiti televisivi,
forum sul Web. Tutti accomunati dalla stessa equazione: immigrazione
eguale criminalità. Ma questa è un'altra storia. Torniamo
al libro!
Madre piccola non è una
epopea, anzi, è una non-epopea, una non-saga! È la storia
recente di un popolo ma raccontata dal punto di vista di chi non conta
nulla, di chi assiste passivamente al saccheggio di tutto ciò
che rappresentava la propria casa, la propria famiglia, il proprio
paese. Donne, bambini e bambine, giovani disarmati e che rifiutano
di armarsi e di entrare nella mischia. Per tanti di loro l'unica salvezza
è nella fuga…
Ma si può veramente chiamare salvezza la fuga continua, da
un esilio all'altro?
La sfilza di città, paesi e continenti si sgrana come un rosario
di speranze mai veramente raggiunte: Mombassa, Kenya, Sanaa, Yemen,
Siria, Roma, Russia, Praga, Sofia, Olanda, Italia, Stati Uniti, Bangkok,
Germania, Emirati Arabi, Arabia saudita… Alcuni naufraghi in
mare e tanti, tantissimi altri sulla terra ferma.
Mi ricordo leggendo queste storie di aver scoperto a Baghdad nel quartiere
Battawin dove lavorai nel 2004, che c'era anche lì una piccola
colonia di Somali. Quanto bisogna essere sfortunato per fuggire dall'inferno
di Mogadiscio e ritrovarsi in quello di Baghdad?
Mi torna in mente la piccola Deeqa, arrivata alla testa di un piccolo
gruppo di bambini del quartiere. "Vogliamo iscriverci alle lezioni
di computer" mi intimò entrando in ufficio, puntandomi
addosso un paio di occhioni neri e penetranti come dei laser. Poi
subito dopo, "Io mi chiamo Deeqa …!". "Deeqa?"
risposi io, stupito da questo nome. "Ana Somaliya!" , Io
sono Somala!
L'avevo capito. Avevo conosciuto prima di lei un'altra Deeqa altrettanto
bella, sveglia e decisa… Ma a Torino, però.
Non erano solo le storie di esilio che mi hanno ricordato la Piccola
Deeqa di Battawin, anche questa importanza dei nomi. Il proprio nome
lanciato come una sfida al mondo circostante; le collane di nomi di
padri, nonni, bisnonni e antenati portati con orgoglio.
Il libro è tutto un intreccio di nomi, di famiglie e di destini
che si incontrano si separano, scompaiono per riapparire più
avanti: Domenica-Axad, Barni, Mahammad , Luul, Shukri, Taageere, Shamsa,
Saced Saliban, Gaandi, Taarikh, Foodcadde, Sharmarke, Hassan, Mariam…
Un intreccio di persone, luoghi,
destini e storie che si chiariscono mano a mano che aumenta il loro
numero. Poco a poco i racconti intrecciati stabiliscono una sorta
di ordine nella confusione …
Funziona come le scatole cinesi, forse per colpa di quello cinese
nato a Mogadiscio che si dichiara Somalo quando è costretto
all'esilio.
È innanzitutto la storia di due bambine Domenica-Axad e Barni,
due cugine-sorelle.
Domenica-Axad è una bimba mezzo gaal (bianca) mezzo somala.
Anche le fortune e le disgrazie del suo paese erano sempre mezzo gaal,
almeno da quando ha subito lo stupro compiuto dalla così detta
avventura (o disavventura, dipende dei punti di vista) coloniale italiana
nel Corno d'Africa. Un po' come quella ditta italiana che da una parte
faceva le strade asfaltate per costruire il futuro del paese ma dall'altra
ci nascondeva rifiuti tossici per avvelenarlo definitivamente.
Barni è la cugina orfana di padre e di madre presa sotto la
protezione della famiglia allargata.
Nella storia, gli uomini, che
in paese hanno rovinato tutto a causa del loro orgoglio smisurato,
si dimostrano deboli e fragili fuori dal loro territorio. Sono le
donne che portano a braccia le famiglie. Le uniche che non perdono
la bussola.
Ma stranamente questa "non-saga" di quel piccolo microcosmo
della società per bene di Xamar, Mogadiscio, esploso per ricomporsi
in miniatura di qua di là, sparso per le città del mondo;
la non-epopea di questo popolo che riesce a portarsi come bagaglio
la sua fierezza e la sua generosità ma anche tutti i suoi difetti
esaltati dalle frustrazioni dell'esilio; questa storia di donne normali
che rimangono l'unica ancora di una nave che va alla deriva…
comincia con un uomo, Taarikh (Storia), simbolo dell'ostinazione di
un popolo ad auto distruggersi per orgoglio, e finisce con la crescita
di un bambino, Taarikh, simbolo, lui, di una generazione che potrà
forse superare le barriere della violenza e dell'odio costruiti sulle
genealogie, sulle origini, sui nomi degli antenati.
Scompare un Taarikh nella melma della guerra civile e nasce un Taarikh
in esilio. Segno che la Storia non ha fine.
Finito il libro, rimango a pensare. Quanto si assomigliano le tragedie
umane! Io che mi sono bevuto la guerra civile per anni nel mio paese
e che conosco i microcosmi schizofrenici della diaspora, mi ci vedo
bene nelle vesti di alcuni personaggi.
Mentre penso a tutto questo mi sorprendo a canticchiare a bassa voce:
"Soomali ban ahay, Soomaali ban ahay" (Io sono somalo, Io
sono somalo…)
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