Madre piccola

di Cristina Ali farah

 

Cristina Ali Farah
Madre piccola
Frassinelli, 2007
pag. 320, Euro 16,00

 

"Barni mia, io voglio che mio figlio nasca qui, terra mia madre di cui conosco risvolti della memoria, segreti della parola."

Così dice Domenica Axad rivolta all’amatissima cugina Barni nel momento della loro desiderata riunione dopo un lungo e doloroso distacco. Legate da un filo invisibile e resistentissimo, Barni e Domenica Axad, cugine da parte di padre, sono cresciute insieme a Mogadiscio, bambine spensierate e felici in un mondo compatto di affetti familiari e radici comuni. Fino a quando Domenica è partita con la madre per l’Italia. Quando torna a Mogadiscio il momento è fatale: inizia la guerra civile e, mentre lo scoppio dei disordini coincide con il trasferimento di Barni a Roma, per Domenica segna un decennio di smarrimento. Barni, ormai orfana di entrambi i genitori, si ferma a Roma dove trova un equilibrio nella dedizione al lavoro di ostetrica. Domenica vaga nel mondo trasportata dai flussi della diaspora, tentando dolorosamente di riallacciare nessi che restituiscano un significato alla propria storia. La progressiva ripresa di una coscienza di sé coincide con l’inizio della relazione con Taageere, teneramente inconsistente, nomade senza meta: molto più difficile per gli uomini ritrovare una collocazione dopo la disintegrazione del proprio mondo. Rientrata a Roma, Domenica Axad incontra di nuovo Barni e decide di affrontare accanto a lei la maternità prossima. Suo figlio avrà lo stesso nome del nonno scomparso nella guerra, Taariikh – Storia - e Barni - la zia materna - sarà la sua habaryar, madre piccola.

Sullo sfondo della storia recente della Somalia, Cristina Ali Farah dà voce appassionata a tre personaggi di straordinario spessore e autenticità, attraverso le quali riecheggia il dramma della diaspora. E l’identità in gioco non è solo quella di chi migra. (Dalla nota editoriale)

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La non-epopea di un popolo smarrito.
"Madre piccola"
di Cristina Ali Farah

Recensione a cura di Karim Metref

(www.letteranza.org)

"Madre Piccola" di Cristina Ali Farah è un libro che viene in un momento particolare. Questa narrazione dell'erranza del popolo somalo per le vie del mondo arriva in un momento in cui la Somalia ritorna fortemente ad occupare gli schermi e le prime pagine dei media internazionali. Questo, venendo dai nostri paesi, non è mai buon segno. Di noi si parla soltanto quando il sangue scorre a fiumi. È uno di quei momenti in cui ci si ricorda di aver dimenticato o fatto finta di dimenticare un dramma che si svolgeva tuttavia davanti agli occhi di tutti. Uno di quelli in cui capiamo di non aver capito o di aver rifiutato di capire.
Madre piccola viene in questo momento e ci mette davanti agli occhi tutto il dramma di questo popolo
Questo libro esce anche in un momento molto intenso di produzione letteraria ad opera degli immigrati in Italia e dai loro figli (I così detti figli della seconda generazione).
Questa opera quasi sembra partecipare di una rafforzata volontà collettiva di raccontarsi, di mettere a nudo la propria umanità, senza veli e senza difese. Come una mano tesa per essere stretta, per sigillare un accordo di rispetto reciproco e di convivenza pacifica.
Una mano però che sembra quasi sospesa nel vuoto vista l'aria che tira nel paese ultimamente.
C'è bastato poco, un incidente di qua, una rissa di là, voci di ronde notturne, muri che si alzano, dibattiti televisivi, forum sul Web. Tutti accomunati dalla stessa equazione: immigrazione eguale criminalità. Ma questa è un'altra storia. Torniamo al libro!

Madre piccola non è una epopea, anzi, è una non-epopea, una non-saga! È la storia recente di un popolo ma raccontata dal punto di vista di chi non conta nulla, di chi assiste passivamente al saccheggio di tutto ciò che rappresentava la propria casa, la propria famiglia, il proprio paese. Donne, bambini e bambine, giovani disarmati e che rifiutano di armarsi e di entrare nella mischia. Per tanti di loro l'unica salvezza è nella fuga…
Ma si può veramente chiamare salvezza la fuga continua, da un esilio all'altro?
La sfilza di città, paesi e continenti si sgrana come un rosario di speranze mai veramente raggiunte: Mombassa, Kenya, Sanaa, Yemen, Siria, Roma, Russia, Praga, Sofia, Olanda, Italia, Stati Uniti, Bangkok, Germania, Emirati Arabi, Arabia saudita… Alcuni naufraghi in mare e tanti, tantissimi altri sulla terra ferma.
Mi ricordo leggendo queste storie di aver scoperto a Baghdad nel quartiere Battawin dove lavorai nel 2004, che c'era anche lì una piccola colonia di Somali. Quanto bisogna essere sfortunato per fuggire dall'inferno di Mogadiscio e ritrovarsi in quello di Baghdad?
Mi torna in mente la piccola Deeqa, arrivata alla testa di un piccolo gruppo di bambini del quartiere. "Vogliamo iscriverci alle lezioni di computer" mi intimò entrando in ufficio, puntandomi addosso un paio di occhioni neri e penetranti come dei laser. Poi subito dopo, "Io mi chiamo Deeqa …!". "Deeqa?" risposi io, stupito da questo nome. "Ana Somaliya!" , Io sono Somala!
L'avevo capito. Avevo conosciuto prima di lei un'altra Deeqa altrettanto bella, sveglia e decisa… Ma a Torino, però.
Non erano solo le storie di esilio che mi hanno ricordato la Piccola Deeqa di Battawin, anche questa importanza dei nomi. Il proprio nome lanciato come una sfida al mondo circostante; le collane di nomi di padri, nonni, bisnonni e antenati portati con orgoglio.
Il libro è tutto un intreccio di nomi, di famiglie e di destini che si incontrano si separano, scompaiono per riapparire più avanti: Domenica-Axad, Barni, Mahammad , Luul, Shukri, Taageere, Shamsa, Saced Saliban, Gaandi, Taarikh, Foodcadde, Sharmarke, Hassan, Mariam…

Un intreccio di persone, luoghi, destini e storie che si chiariscono mano a mano che aumenta il loro numero. Poco a poco i racconti intrecciati stabiliscono una sorta di ordine nella confusione …
Funziona come le scatole cinesi, forse per colpa di quello cinese nato a Mogadiscio che si dichiara Somalo quando è costretto all'esilio.
È innanzitutto la storia di due bambine Domenica-Axad e Barni, due cugine-sorelle.
Domenica-Axad è una bimba mezzo gaal (bianca) mezzo somala.
Anche le fortune e le disgrazie del suo paese erano sempre mezzo gaal, almeno da quando ha subito lo stupro compiuto dalla così detta avventura (o disavventura, dipende dei punti di vista) coloniale italiana nel Corno d'Africa. Un po' come quella ditta italiana che da una parte faceva le strade asfaltate per costruire il futuro del paese ma dall'altra ci nascondeva rifiuti tossici per avvelenarlo definitivamente.
Barni è la cugina orfana di padre e di madre presa sotto la protezione della famiglia allargata.

Nella storia, gli uomini, che in paese hanno rovinato tutto a causa del loro orgoglio smisurato, si dimostrano deboli e fragili fuori dal loro territorio. Sono le donne che portano a braccia le famiglie. Le uniche che non perdono la bussola.
Ma stranamente questa "non-saga" di quel piccolo microcosmo della società per bene di Xamar, Mogadiscio, esploso per ricomporsi in miniatura di qua di là, sparso per le città del mondo; la non-epopea di questo popolo che riesce a portarsi come bagaglio la sua fierezza e la sua generosità ma anche tutti i suoi difetti esaltati dalle frustrazioni dell'esilio; questa storia di donne normali che rimangono l'unica ancora di una nave che va alla deriva… comincia con un uomo, Taarikh (Storia), simbolo dell'ostinazione di un popolo ad auto distruggersi per orgoglio, e finisce con la crescita di un bambino, Taarikh, simbolo, lui, di una generazione che potrà forse superare le barriere della violenza e dell'odio costruiti sulle genealogie, sulle origini, sui nomi degli antenati.
Scompare un Taarikh nella melma della guerra civile e nasce un Taarikh in esilio. Segno che la Storia non ha fine.
Finito il libro, rimango a pensare. Quanto si assomigliano le tragedie umane! Io che mi sono bevuto la guerra civile per anni nel mio paese e che conosco i microcosmi schizofrenici della diaspora, mi ci vedo bene nelle vesti di alcuni personaggi.
Mentre penso a tutto questo mi sorprendo a canticchiare a bassa voce: "Soomali ban ahay, Soomaali ban ahay" (Io sono somalo, Io sono somalo…)


L'autrice

 

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