Qui di seguito troverete storie, racconti, voci di scrittori, intellettuali, ragazzi Rom che alzano la testa e la voce per dire che una giustizia senza umanità è la peggiore delle ingiustizie.

 

Parole di sostegno e solidarietà al popolo degli uomini in cammino

 

 

 



 

«Quando i nazisti vennero a prendere i comunisti, non dissi niente, non ero mica comunista.

Quando rinchiusero i socialdemocratici, non dissi niente, non ero mica socialdemocratico.

Quando vennero a prender i sindacalisti, non dissi nienti, non ero mica sindacalista.

Quando vennero a prendere gli ebrei, non ho protestato; non ero mica ebreo.

Quando vennero a prendere me, non c'era rimasto più nessuno a protestare».

Martin Niemoeller

 

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

Cosa sta succedendo in Italia?

Sono rimasto sconvolto ieri quando la televisione ha mostrato le immagini della polizia presentandosi nella notte nei campi nomadi di Roma, per fare dei "controlli". No ho potuto fare a meno di approcciare quest'immagini con quelle degli anni bui della dittatura nel Cile, quando le forse della repressione si presentavano, anche loro nel buio

della notte, per "controllare" i cosiddetti insorgenti.

 

Non c'è anche un certo odorino a diritti umani calpestati dietro di tutto questo?

 

José Luis Pizarro - Roma, 16 maggio 2008.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Io chiedo scusa

Don Luigi Ciotti

 

 

Cara signora,

ho visto questa mattina, sulle prime pagine di molti quotidiani, una foto che La ritrae.

Accovacciata su un furgoncino aperto, scassato, uno scialle attorno alla testa.

Dietro di Lei si intravedono due bambine, una più grande, con gli occhi sbarrati, spaventati, e l’altra, piccola, che ha invece gli occhi chiusi: immagino le sue due figlie.

Accanto a Lei la figura di un uomo, di spalle: suo marito, presumo.

Nel suo volto, signora, si legge un’espressione di imbarazzo misto a rassegnazione. Vi stanno portando via da Ponticelli, zona orientale di Napoli, dove il campo in cui abitavate è stato incendiato.

Sul retro di quel furgoncino male in arnese - reti da materasso a fare da sponda - una scritta: "ferrovecchi".

 

Le scrivo, cara signora, per chiederLe scusa.

Conosco il suo popolo, le sue storie. Proprio di recente, nei dintorni di Torino, ho incontrato una vostra comunità: quanta sofferenza, ma anche quanta umanità e dignità in quei volti.

Nel nostro Paese si parla tanto, da anni ormai, di sicurezza.

È un’esigenza sacrosanta, la sicurezza. Il bisogno di sicurezza ce lo abbiamo tutti, è trasversale, appartiene a ogni essere umano, a ogni comunità, a ogni popolo.

È il bisogno di sentirci rispettati, protetti, amati. Il bisogno di vivere in pace, di incontrare disponibilità e collaborazione nel nostro prossimo.

Per tutelare questo bisogno ogni comunità, anche la vostra, ha deciso di dotarsi di una serie di regole. Ha stabilito dei patti di convivenza, deciso quello che era lecito fare e quello che non era lecito, perché danneggiava questo bene comune nel quale ognuno poteva riconoscersi. Chi trasgrediva la regola veniva punito, a volte con la perdita della libertà. Ma anche quella punizione, la peggiore per un uomo - essendo la libertà il bene più prezioso, e voi da popolo nomade lo sapete bene - doveva servire per reintegrare nella comunità, per riaccogliere.

Il segno della civiltà è anche quello di una giustizia che punisce il trasgressore non per vendicarsi ma per accompagnarlo, attraverso la pena, a un cambiamento, a una crescita, a una presa di coscienza.

 

Da molto tempo questa concezione della sicurezza sta franando. Sta franando di fronte alle paure della gente. Paure provocate dall’insicurezza economica - che riguarda un numero sempre maggiore di persone - e dalla presenza nelle nostre città di volti e storie che l’insicurezza economica la vivono già tragicamente come povertà e sradicamento, e che hanno dovuto lasciare i loro paesi proprio nella speranza di una vita migliore.


Cercherò, cara signora, di spiegarmi con un’immagine. È come se ci sentissimo tutti su una nave in balia delle onde, e sapendo che il numero delle scialuppe è limitato, il rischio di affondare ci fa percepire il nostro prossimo come un concorrente, uno che potrebbe salvarsi al nostro posto.

La reazione è allora di scacciare dalla nave quelli considerati "di troppo", e pazienza se sono quasi sempre i più vulnerabili. La logica del capro espiatorio - alimentata anche da un uso irresponsabile di parole e immagini, da un’informazione a volte pronta a fomentare odi e paure - funziona così. Ci si accanisce su chi sta sotto di noi, su chi è più indifeso, senza capire che questa è una logica suicida che potrebbe trasformare noi stessi un giorno in vittime.

 

Vivo con grande preoccupazione questo stato di cose. La storia ci ha insegnato che dalla legittima persecuzione del reato si può facilmente passare, se viene meno la giustizia e la razionalità, alla criminalizzazione del popolo, della condizione esistenziale, dell’idea: ebrei, omosessuali, nomadi, dissidenti politici l’hanno provato sulla loro pelle.

 

Lo ripeto, non si tratta di "giustificare" il crimine, ma di avere il coraggio di riconoscere che chi vive ai margini, senza opportunità, è più incline a commettere reati rispetto a chi invece è integrato. E di non dimenticare quelle forme molto diffuse d’illegalità che non suscitano uguale allarme sociale perché "depenalizzate" nelle coscienze di chi le pratica, frutto di un individualismo insofferente ormai a regole e limiti di sorta.

Infine di fare attenzione a tutti gli interessi in gioco: la lotta al crimine, quando scivola nella demagogia e nella semplificazione, in certi territori può trovare sostenitori perfino in esponenti della criminalità organizzata, che distolgono così l’attenzione delle forze dell’ordine e continuano più indisturbati nei loro affari.

Vorrei però anche darLe un segno di speranza. Mi creda, sono tante le persone che ogni giorno, nel "sociale", nella politica, nella amministrazione delle città, si sporcano le mani. Tanti i gruppi e le associazioni che con fatica e determinazione cercano di dimostrare che un’altra sicurezza è possibile. Che dove si costruisce accoglienza, dove le persone si sentono riconosciute, per ciò stesso vogliono assumersi doveri e responsabilità, vogliono partecipare da cittadini alla vita comune.

La legalità, che è necessaria, deve fondarsi sulla prossimità e sulla giustizia sociale. Chiedere agli altri di rispettare una legge senza averli messi prima in condizione di diventare cittadini, è prendere in giro gli altri e noi stessi. E il ventilato proposito di istituire un "reato d’immigrazione clandestina" nasce proprio da questo mix di cinismo e ipocrisia: invece di limitare la clandestinità la aumenterà, aumentando di conseguenza sofferenza, tendenza a delinquere, paure.

Un’ultima cosa vorrei dirLe, cara signora. Mi auguro che questa foto che La ritrae insieme ai Suoi cari possa scuotere almeno un po’ le nostre coscienze. Servire a guardarci dentro e chiederci se davvero questa è la direzione in cui vogliamo andare. Stimolare quei sentimenti di attenzione, sollecitudine, immedesimazione, che molti italiani, mi creda - anche per essere stati figli e nipoti di migranti - continuano a nutrire.

 

La abbraccio, dovunque Lei sia in questo momento, con Suo marito e le Sue bambine. E mi permetto di dirLe che lo faccio anche a nome dei tanti che credono e s’impegnano per un mondo più giusto e più umano.

 


Presidente del «Gruppo Abele» e di «Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie»


Rispondo inviando a tutti in allegato un breve testo non scritto da me, ma da un gruppo di giovani Rom che vivono nel campo di via Germagnano, a Torino.

Sono miei amici, ho trascorso al campo molte ore, ci siamo raccontati le nostre vite, e alcune cose le abbiamo scritte.

Ho scelto di spedirvi queste righe perchè dicono molto più di mille pagine che avrei potuto scrivere su di loro. Piuttosto che discutere SU qualcuno, credo sia più giusto parlare CON quel qualcuno, starlo ad ascoltare, riconoscergli il diritto alla parola.

Dunque chiedo a tutti di ascoltare queste due pagine, e di diffonderle. In allegato trovate anche alcune foto dei giovani autori del testo.

 

Francesco Vietti (Torino)

 

 

Io vivo al campo

 

Torino, 18 giugno 2007

 

Forse molti gagè pensano che il campo nomadi, come lo chiamano, sia il solaio di Torino, o il ripostiglio, e infatti l’hanno messo tra il canile e la discarica, dove si butta via l’immondizia.

Invece per me è la mia casa, e ve la voglio descrivere. Innanzitutto devo dire che ci siamo trasferiti qui in via Germagnano nel 2003, quattro anni fa. Prima vivevamo all’Arrivore. All’Arrivore si stava meglio che qui, si stava più larghi e c’era più libertà. Il campo era vicino a una vecchia miniera, che noi chiamavamo la Kula, e che era il simbolo degli zingari di Torino. L’Arrivore era comodo, ci si arrivava facilmente a piedi e in macchina, ed era nel verde, come in un parco. Là era tutto molto gagliardo!

Poi ci siamo spostati qui, ed è stato molto triste perché là eravamo nati e i nostri genitori e i nostri nonni erano invecchiati là. I miei nonni sono arrivati dalla Bosnia nel 1968. A quell’epoca non c’erano campi a Torino, si girava e ci si spostava di continuo, due giorni qui, dieci giorni là, e così sempre.

Comunque il giorno del trasloco è stato molto triste, come dicevo. Ogni famiglia ha caricato le sue cose su un furgoncino e siamo venuti qui in via Germagnano.

Il campo è composto da 30 case, più alcune roulotte. La prima cosa che voglio dire è che le case sono troppo piccole: ci vivono famiglie con molti bambini, e le case all’interno hanno una sola camera per dormire, cucinare e fare tutto. È pericoloso questo, e infatti d’estate appena è possibile apriamo degli ombrelloni e spostiamo la cucina fuori, all’aperto. E poi le case sono tutte troppo attaccate, non c’è spazio tra una e l’altra. Secondo me dentro dovrebbero esserci almeno tre stanze, e qualche finestra. Quelli che vivono nelle roulotte comunque stanno peggio, perché d’inverno fa molto freddo.

 

Quando siamo arrivati era tutto nuovo, bello e pulito. Ma adesso è rovinato.

Comunque la vita al campo è molto tranquilla: la mattina mi alzo, mi lavo e faccio le pulizie di casa, poi al pomeriggio vado a lavorare, faccio la giardiniera. I ragazzi più piccoli e i bambini invece alla mattina vanno a scuola, per loro c’è un pulmino che li porta, o vanno a piedi. Gli adulti invece da qui si spostano in modo diverso… le donne vanno con il pullman 51 a chiedere l’elemosina, gli uomini vanno con i furgoni a vendere nelle fabbriche e a recuperare i rottami di ferro.

La domenica spesso si fa la grigliata tutti insieme e si lavano i vestiti.

Ogni famiglia qui ha degli animali. Noi ad esempio abbiamo un gallo, 3 galline, 6 pulcini, un coniglio e 2 papere… anzi, adesso una sola, perché l’altra è scappata.

In casa ho lo stereo e la televisione, che mi piace molto e la guardo sempre. Poi una cosa importante è l’armadio dei vestiti: da una parte ho i vestiti da rom, dall’altra quelli da gagè. Quando vado a lavorare come giardiniera o quando devo incontrare dei gagè mi vesto da gagè, con i pantaloni, i jeans, le magliette. Quando invece sto al campo mi vergogno a vestirmi così, e allora sto con la gonna e gli altri vestiti rom. Anche quando il sabato mattina vado con mio nonno a vendere i vestiti al Balon mi vesto da zingara, perché là è meglio così, con la gonna.

A me piace lavorare. Da quando ho 11 anni aiuto mio nonno a vendere, e da quando ne ho 16 faccio la giardiniera. È un mestiere molto gagliardo!

La cosa che invece proprio non mi piace qui è che tutto il campo è circondato da una rete, come una prigione. Una settimana fa è entrato qui un signore che credeva che fosse il canile!

Un altro problema è che ci sono troppi piccioni morti. Girano vicino alla discarica e poi cadono morti dentro il campo e portano le malattie.

Per finire c’è ancora una cosa che vi voglio raccontare: quando viene buio, e scende la notte, qui al campo c’è una sola luce accesa. È il grande riflettore che c’è proprio in mezzo alle case, alto, alto, con la luce fortissima. Noi lo chiamiamo “l’Occhio”, e diciamo sempre che noi qui siamo 30 famiglie, ma lui vede e sa più di tutti noi messi insieme.

Elisabetta, con Veronika, Sterlina, Zoriza, Sara e Brenda

 

 

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

 

Una Pentax e il bambino violinista

 

 

 

Cinque anni fa, entrando a studio la mattina, la scena del furto: finestre spalancate, freddo cane, l’agognato schermo piatto del computer, la radiolina satellitare, l’agenda elettronica (porca vacca, tutti i numeri di telefono!), la macchina fotografica, tutto sparito. Fortuna ci hanno lasciato la colonna del computer. Vengono i carabinieri per il verbale: “Probabilmente sono rom, ci sono molti furti nel quartiere. Pure voi però, a stare così, senza inferriate e niente…” Certo, pure noi.

Rom, non rom, quel giorno i ladri si sono portati via la mia vecchia Pentax MX 10, teleobiettivo e grandangolo incluso. Me la ero comprata a diciassette anni con la paga di tre settimane di fabbrica di cioccolata: lavoro da tempi moderni ai nastri, dove scorreva incessante l’incubo di migliaia di conigli di pasqua e di fiumi di tavolette fondenti, al latte, alle nocciole, alle mandorle, all’uvetta… una nausea che neanche incinta! Nelle pause ho conosciuto le “operaie” - italiane, spagnole, portoghese, jugoslave… solo la “caporeparto” era svizzera. E all’uscita c’erano i “controlli”, pene severe previste per i ladri di cioccolata. Ci tenevo molto alla mia Pentax. È grazie a lei che ho scoperto la “classe operaia” in patria: donne invisibili altrove, con cui non riuscivo a parlare, che entravano in fabbrica all’alba e al fischio della sirena sparivano nel nulla. La mia Pentax aveva odore di cioccolata. Chissà se i ladri se ne sono accorti?

I carabinieri ci dissero: “Probabilmente sono rom”. I rom, per me i roma, un popolo mitico. Allora esistono ancora, sono sopravissuti a Hitler dietro la cortina di ferro! Ho cominciato a fare caso a questa gente che, chissà da quando, era sbarcata a Roma. Prima c’erano i barboni, i mendicanti e le zingare che ti volevano leggere la mano a Termini. Poi, un anno fa, ho smesso di andare in motorino, ho iniziato a prendere il tram. Da un anno “i rom” fanno parte della mia giornata: musicisti che suonano cose più o meno strazianti, donne e ragazze con bambini piccoli in braccio che chiedono soldi con un biberon vuoto, un’anziana magrissima vestita tutta di nero e piegata in quattro su un bastone, un uomo con un assortimento di santi e padri pii in una scatola di cartone… A turni ben organizzati (la concorrenza uccide il business!) salgono alla stazione di Trastevere, svolgano il loro numero per cinque fermate e scendono a Piazza Mastai, cambiano banchina e riprendono il tram in direzione opposta.

E tra loro, verso ottobre, tra le quattro meno cinque e le quattro, il pomeriggio ha cominciato a salire sul mio 8 il bambino violinista, forse ha nove anni. Sale per ultimo, violino in mano, custodia in spalle e rimane discretamente con la schiena rivolto verso la porta. Appena si muove il tram si mette a suonare i suoi due tre pezzi di musica zigana. È bravissimo, è serissimo, è un professionista! Non sorride a nessuno, non guarda in faccia nessuno, fissa un punto invisibile nella sua melodia. A piazza Nievo smette, s’incammina lungo il corridoio, incassa le mance e sparisce. Mai sentito che pronunciasse neanche un grazie. Sono sicura che va a scuola, la mattina non c’è mai. Due volte, con lui c’era il padre. Suonavano insieme e suonando con il padre, lo sguardo del bambino aveva un appiglio: si guardavano negli occhi, sorridendo.

Mio figlio vedendo suonare il bambino violinista ha voluto imparare a suonare il violino: “Così anch’io posso guadagnare dei soldini!”.

Gli ho trovato un maestro, caso vuole sia un esperto di musica zigana. Quando incontriamo il bambino violinista insieme, passo gli spicci a mio figlio che mi dice: “Ancora è più bravo di me!”

In settimana sono cominciati i “controlli” nei campi abusivi, Alemanno ha deciso di separare “il grano dal miglio”.

È da mercoledì che non vedo il bambino violinista. Non so come si chiama, non so se è rom, non so se vive in questi campi. Ma so che nessun computer e nessuna Pentax valgono il desiderio di suonare che questo bambino ha suscitato a mio figlio.

Sono avvilita, devo ancora ringraziare il bambino violinista e non so dov’è sparito!

 

Roma, 18 maggio 2008

Susanne Portmann

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------


“Partiamo dalla realtà e smettiamola di fare i poeti. La maggioranza dei rom delinque.”
(Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, del Pd,
La Repubblica 19.5.08)

 

 

L’Italia non ha il problema delle scuole che cadono a pezzi, degli insegnanti poveri ed esauriti, del bullismo e della droga a scuola

L’Italia non ha il problema del pessimo rendimento scolastico

L’Italia non ha il problema dei laureati che trovano lavoro solo nei call center

L’Italia non ha il problema della fuga dei cervelli

Per l’Italia non è un problema che le lingue “altre” non si sappiano

L’Italia non ha il problema della maggioranza che legge meno di un libro all’anno

 

Partiamo dalla realtà, smettiamola di fare i poeti!

 

L’Italia non ha il problema della giustizia che va lenta,

dei giudici che non hanno i soldi per fare una fotocopia, dei poliziotti senza benzina nelle gazzelle

Per l’Italia gli indagati e condannati in parlamento non sono mica un problema

L’Italia non ha il problema della mafia

L’Italia non ha il problema della camorra

In Italia non c’è alcun problema di spazzatura

 

Partiamo dalla realtà ragazzi, l’Italia ha il problema dei rom che rubano,

e noi dobbiamo smetterla di fare i poeti!

 

L’Italia non ha il problema della gente che non arriva a fine mese

L’Italia non ha il problema del lavoro minorile

L’Italia non ha il problema degli schiavi nei campi di pomodoro

L’Italia non ha il problema delle donne che non possono permettersi un figlio

L’Italia non ha il problema delle donne che non possono decidere se vogliono un figlio

L’Italia non ha il problema delle donne che guadagnano il 30% in meno degli uomini

L’Italia non ha il problema delle donne che ricoprono una minima parte dei posti di decisione

L’Italia non ha il problema delle donne maltrattate e ammazzate dai mariti e dai fidanzati

L’Italia non ha il problema degli incidenti mortali del sabato sera

Gli italiani non sono maschilisti

Gli italiani non sono razzisti

 

In Italia nessuno è depresso!

Dobbiamo smetterla di fare i poeti!

 

 

Susanne Portmann

19 maggio 2008

 

Per completezza allego anche l’articolo con le interessantissime dichiarazioni del sindaco De Luca

 

Repubblica 19.5.08

Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, del Pd:

"Smettiamola di fare i poeti la gran parte dei rom delinque"

Stato inesistente La rivolta di Ponticelli? I criminali vanno espulsi dall’Italia

NAPOLI - In due anni ha smantellato gli accampamenti Rom all’esterno dello stadio Arechi, ha cancellato i lavavetri, ha setacciato le aree occupate dalle prostitute, ha fornito i vigili di manganelli. Così Vincenzo De Luca, sindaco del Pd di area Ds, guida Salerno, seconda città della Campania. Sindaco, il suo pugno di ferro dimostra che si può difendere una città anche senza lo Stato? «Il Comune può essere presente sul territorio ma da solo non basta. Il governo deve procedere rapidamente con decreti legge. Parcheggiatori abusivi, prostitute, extracomunitari. Oggi c’è il solo foglio di via, violato il quale non accade nulla. Per avviare l’espulsione occorre una condanna penale. Occorrono decreti legge e finanziamenti».

Si sente isolato?

«La drammatizzazione estrema di oggi è causa dei ritardi di uno Stato inesistente. I cittadini hanno percepito una situazione di abbandono, di non protezione rispetto alle esigenze elementari. Questa la realtà. Uno Stato che non c’è. Una diffusione della violenza a livelli mai visti, una sensazione di impotenza del cittadino normale in un clima di frustrazione delle forze dell’ordine per un’inadeguatezza di mezzi rispetto agli obiettivi».

Parla dei due anni di governo del centrosinistra?

«Negli ultimi due anni c’è stato un aggravamento ma i comportamenti anche prima non sono stati all’altezza. Anche l’operazione del poliziotto di quartiere della destra è stata propagandistica e inutile. Ultracinquantenni che scendevano dalle auto per fare cento metri a piedi e sedere da qualche parte».

E l’ex ministro Giuliano Amato?

«Con lui c’era la consapevolezza nuova del problema ma il quadro politico non ha consentito di intervenire per aumentare la sicurezza nelle città. Uno dei motivi della sconfitta elettorale del centrosinistra».

Come giudica la rivolta contro i rom di Ponticelli alla periferia di Napoli?

«Partiamo dalla realtà e smettiamola di fare i poeti. La maggioranza dei rom delinque. Come vivono? La mia verifica sul territorio dice che rubano auto, rubano nelle auto, rubano negli appartamenti, rubano anche i tombini nelle strade periferiche. Oltre, ovviamente, ai reati più gravi, dalle aggressioni ai tentativi di rapimento. Questi criminali vanno espulsi dall’Italia».

E i rom onesti?

«I rom che vogliono vivere onestamente devono entrare nei percorsi di inserimento sociale e scolastico dei propri figli con il massimo di attenzione da parte dello Stato per favorirne l’acquisizione di moduli di vita civile».

(o. l.)

 

 

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

Infatti. Smettiamola di fare i poeti perché Piazza Africa non la vuole più nessuno.

Smettiamola di fare i poeti perché i bambini rom o zingari che si voglia non devono stare sugli autobus a suonare il violino o la fisarmonica ma devono andare a scuola e il pomeriggio fare i compiti e giocare con la play station tre. Smettiamola di fare i poeti perché l'Europa semplicemente non esiste più in quanto rifiuta gli unici veri europei quali sono i rom. Smettiamola di fare i poeti perché l'Europa multiculturale non esiste più in quanti gli unici davvero multiculturali e interculturali sono i rom. Smettiamola di fare i poeti perché il genocidio dei rom ad opera dei nazisti, il tristemente famoso "parrajamos" (divoramento) nel quale perirono "scientificamente" oltre cinquecentomila rom sui settecentomila che viveano allora in Europa non lo ricorda nessuno. Smettiamola di fare i poeti perché a Norimberga non era presente neanche un Rom. Smettiamola di fare i poeti perché nessuno vuole vedere in questi camminatori, i precursori della società di domani. Smettiamola di fare i poeti perché già nel 2004 il ministro dell'interno romeno (lo scrivo con la "o" e non con la "u") Iona Rus aveva dichiarato: « Le bande armate, di zingari o romeni, i criminali, gli stupratori e i ladri che acquistano armi per terrorizzare le città devono sparire", stabilendo così la differenza fra rom e romeni. Smettiamola di fare i poeti perché, secondo il rapporto di Amnesty International "l'80% dei bambini rom in Ungheria e in Romania frequentano scuole speciali, cioè per handicappati mentali col pretesto che non parlano la lingua nazionale".

Smettiamola di fare i poeti perché l'Unione europea ha ordinato l'abbattimento del muro di Usti nad lebem nella Repubblica Ceca che separava dal 1999 le palazzine abitate dai rom dagli altre. Smettiamola di fare i poeti perché il problema rom non è un problema sociale e economico ma è un problema di persecuzione razziale. Smettiamola di fare i poeti perché ai rom, ai sinti, ai camminanti non è mai stato accordato storicamente il nome "diaspora" benché si tratti di "diaspore". Smettiamola di fare i poeti perché i rom sono vittime dei diritti dell'uomo e della democrazia.

Smettiamola di fare i poeti perché i rom che ci fanno capire definitivamente a chi appartiene la città: al capitalismo selvaggio se non peggio alle camorre e alle mafie. Smettiamola di fare i poeti perché è in atto da molto tempo una specie di genocidio bianco, democratico, ordinato del popolo rom e di tutti i popoli con "scarso senso del possesso" come disse qualcuno.

Smettiamola di fare i poeti altrimenti i rom, i sinti e i camminanti obbligheranno l'Europa a riflettere sui diritti delle minoranze. Smettiamola di fare i poeti perché Zingaro viene dal greco "athiganoi" che vuol dire

semplicemente: intoccabile. Paria. Rom invece significa "uomo". Smettiamola allora di fare i poeti fino al momento in cui quando diciamo rom non pensiamo zingaro.

 

Tahar Lamri

Scrittore algerino

 

-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

 

Piazza Africa

 

 

Come le persone anche i luoghi raggiungono una loro felicità

e quella piazza dimenticata e sconnessa

 esprimeva la pace dei tempi che non tornano

 

Ennio Flaiano – Tempo di uccidere

 

 

Tutto era iniziato per caso un caldo pomeriggio di maggio. Come ogni sabato mattina, Idrissa, Saar e Mohammed si erano incontrati davanti al call center “Call Tyrone” e avevano iniziato a discutere animatamente su chi fosse il venditore migliore. “Io sono così bravo che potrei vendere gelati agli eschimesi!” esclamò Idrissa. “I miei cd sono così uguali agli originali che un giorno, quando lavoravo sul lungomare a Rimini, si è fermato Nek in persona a farmi i complimenti!” aveva replicato Saar, suscitando le risate di compassione dei due amici. “Beh, sapete cosa vi dico – sobbalzò Mohammed – mi sono stancato dei vostri discorsi. Sono mesi che ci ritroviamo qui il sabato pomeriggio a raccontarci che venditori fenomenali siamo, ma intanto rimaniamo seduti su questo muretto, senza un euro e con la lingua gonfia di cazzate. Perché, se siamo tutti così bravi, nessuno di noi è ancora riuscito a fare i soldi? Beh, io dico, è ora di cambiare registro. Vi ho sempre detto che a Agadir ero uno dei migliori commercianti del mio quartiere, no? Beh, adesso vi dimostrerò che non racconto balle, io” e così dicendo si alzò e se ne andò, lasciando i due amici a guardarsi a vicenda, rapiti da un sentimento di incredulità e indifferenza nei suoi confronti.

Saar e Idrissa rimasero seduti fuori dal “Call Tyrone” a fare il rendiconto dei fatti salienti della settimana finché, alcune ore più tardi, la Passat nera station wagon di Moulay, il fratello di Mohammed, comparve nella piazza e parcheggiò proprio davanti a loro. Mohammed uscì dall’auto seguito a vista dagli occhi stupefatti degli amici rimasti di stucco, in silenzio, e si diresse verso il bagagliaio. Lo aprì e immediatamente dal suo interno si propagò un profumo di spezie, mais e carne di montone che pervase tutta l’aria circostante. Idrissa e Saar si alzarono per andare a controllare cosa stesse succedendo e videro che il bagagliaio dell’auto di Mohammed era stracolmo di spiedini fumanti, pannocchie bollite calde, cous cous alle verdure e dolci al miele.

“E questo cosa significa?” domandò esterrefatto Saar.

“Il tempo delle parole è finito, amici miei. Da oggi in poi vi farò vedere io cosa significa vendere!” rispose Mohammed, sedendosi sul bordo del bagagliaio e accendendosi una sigaretta. E infatti non passò molto tempo prima che i profumi provenienti dalla sua auto cominciassero ad attirare l’attenzione degli habitué della piazza, i quali, protagonisti fin dalle prime ore del mattino della kermesse alcolica del sabato, cominciavano ad accusare fastidiosi gorgoglii intestinali da fame chimica.

Quel pomeriggio, la sfida ludica ai propri amici si trasformò in un successo commerciale per Mohammed, che vendette in poche ore tutto il cibo che aveva preparato. Questo inaspettato trionfo non solo suscitò l’invidia di Saar e Idrissa, ma innestò un processo emulativo tra i presenti che avevano assistito alla scena, che avrebbe cambiato il volto di Piazza Torino. Bastarono poche settimane infatti perché il parcheggio di Piazza Torino si trasformasse dal venerdì pomeriggio al sabato sera in un mercato gastronomico africano a cielo aperto, composto da utilitarie, familiari, fiorini, furgoncini e camioncini, ognuno con la proprie specialità esposte in bella mostra nel retro. Dai bagagliai spuntavano tutti i tipi di pietanze. Ce n’era veramente per tutti i gusti: uova sode, salsicce piccanti, pollo alle verdure, riso con fagioli, patate fritte, frutta fresca... E c’erano anche le macchine dei più giovani, ventenni dallo sguardo truce nascosto dietro occhiali neri come il fondo del mare, vestiti con pantaloni larghi, maglie da football sgargianti e cappellini con visiere storte, che parcheggiavano le auto solo per sparare a tutto volume le ultime novità dal mondo hip hop scaricate in settimana su Emule.

L’unica legge non scritta alla quale tutti avevano senza bisogno di consultazioni obbedito fin da subito, era che in questo nuovo mercato si poteva vendere solo e soltanto cibo. Niente oggettistica, vestiti e soprattutto niente bevande, né analcoliche, né alcoliche. Questo perché nessuno voleva fare le scarpe ai fratelli che già avevano le loro attività commerciali sulla piazza. A Piazza Torino c’erano l’“All Liberian”, l’African shop di Charles (che vendeva ricariche per telefonini, crema per le mani, patate dolci, estensioni per capelli, ma soprattutto era l’unica rivendita di birra della piazza), la macelleria islamica “Touareg” di Samir, il call center “Call Tyrone” di Dipesh, ma nessun ristorante, fast food, né rivendite di pizza al taglio o kebab. Insomma, niente cibo pronto per placare gli appetiti di chi si ritrovava in piazza per scambiare quattro chiacchiere e magari bere qualche bottiglia di birra acquistata da Charles. I cuochi-piloti del parcheggio avevano così semplicemente colmato una palese mancanza di servizi ai cittadini, rendendo la piazza un punto di ristoro accogliente ed economico.

Ma il mercatino che aveva fatto la felicità dei frequentatori della piazza non era visto di buon occhio da tutti. Questo carosello di ristoratori ambulanti africani aveva finito per sollevare le rimostranze dei negozianti delle vie adiacenti a Piazza Torino (o, come essi l’avevano sprezzantemente ribattezzata, “Piazza Africa”), i quali avevano avanzato alle autorità competenti lamentele ufficiali sui “rumori e odori molesti” provenienti da auto di “extracomunitari”, “parcheggiate irregolarmente”, e avevano denunciato un “preoccupante calo” nelle loro entrate mensili. Indignato dal “vergognoso spettacolo” di quel mercato nero, un gruppo di inquilini locali aveva addirittura formato un comitato, il “Comitato Piazza Pulita”, un nome dal suono sinistro, che evocava epoche torve, di croci infuocate e cappucci triangolari, e che ben presto divenne noto sulle pagine di cronaca dei giornali locali con l’acronimo “CPP”. Il comitato era composto da “commercianti onesti”, da “lavoratori che pagano le tasse” e da “simpatizzanti” che protestavano contro quello “scempio”, quel “mercato “indecente” che – così affermava un comunicato ufficiale del Comitato – “sottraeva loro potenziali clienti” e che, dal momento in cui si era instaurato, “aveva degradato in modo considerevole le condizioni socio-sanitarie della piazza”.

 

Nagib osservava divertito, in silenzio, le vicende che stavano recentemente scuotendo la tradizionale calma di Piazza Torino. Passava ore intere seduto su una sedia di fronte all’entrata della sua piccola abitazione, un monolocale al pian terreno di un palazzone costruito negli anni della speculazione edilizia, e che era stato abitato per quasi quarant’anni dal portiere del residence, Franco, un pugliese emigrato al Nord poco dopo la guerra. Franco, che aveva deciso di abbandonare l’appartamento alla fine degli anni ottanta quando il quartiere era diventato “invivibile” perché “invaso da tutti quei negri e arabi clandestini”.

Nagib era un tipo piuttosto schivo. Ma non perché fosse timido, asociale o scontroso. In realtà era un uomo molto impegnato. Il suo passatempo preferito era nutrire la sua passione profonda per l’hashish, una passione che lo aveva avvolto fin dalla giovane età, quando ancora era uno studente di matematica all’università de Il Cairo, e che da allora in poi aveva continuato a coltivare con ammirevole impegno e dedizione.

In altre parole, Nagib era solito dedicarsi al suo hobby ogni giorno dopo che era ritornato dal lavoro e aveva dormito un paio di ore per riprendersi dai massacranti turni che la sua professione, panettiere, gli imponeva. Di solito, dopo essersi svegliato dal suo pisolino pomeridiano, si girava subito una canna. Così capitava spesso che dalle quattro del pomeriggio in poi vivesse in uno splendido stato di ebbrezza controllata dei sensi.

Un giorno Hicham, suo cugino, era andato a casa sua per chiedergli del sale. Nagib lo aveva invitato ad entrare, gli aveva dato il sale, come da costume della sua famiglia gli aveva offerto del tè e, come da suo costume, gli aveva passato lo spinello che stava fumando. “No, grazie” aveva risposto Hicham “lo sai che non fumo. Berrò il tè, e appena avrò finito tornerò dalla mamma e le porterò il sale. Ti ringrazierà per la tua gentilezza”. “Va bene, come preferisci” aveva replicato Nagib, ritirando verso la sua bocca lo spinello che aveva inutilmente allungato verso Hicham e aspirando una robusta boccata.

Mentre era seduto sul divano a bere il tè, Hicham aveva visto il cugino cucinarsi una frittata in maniera a dir poco “originale”. Con la mente probabilmente impegnata altrove, Nagib aveva per sei volte rotto l’uovo, e per sei volte consecutive aveva gettato tuorlo e albume nel cestino della spazzatura e appoggiato i gusci rotti nella padella. Dopodiché, scusatosi con Hicham, si era diretto verso il bagno lasciando le schegge dei gusci a sfrigolare nell’olio bollente. Questa è la versione della storia secondo Hicham. Ma non c’è ragione per non credergli. Bush, il gatto di Nagib che nelle giornate più calde era solito sonnecchiare nel lavabo, aveva osservato distrattamente la scena disteso nel suo refrigerante santuario.

A difesa di Nagib va detto però che l’hashish non era il suo unico svago: egli aveva anche un’altra abitudine che i ragazzi della piazza giudicavano quantomeno “originale” (un eufemismo che utilizzavano per non offendere Nagib, mentre dentro di loro pensavano fosse l’innocua ossessione di uno che si era fumato il cervello). Il secondo hobby di Nagib era quello di scattare ogni giorno alla stessa ora una fotografia dello stesso angolo della piazza di fronte a casa sua. Quando, per inderogabili cause di forza maggiore, era costretto ad assentarsi per un giorno dalla piazza, dalla sua sedia sul marciapiede e dalla sua macchina fotografica, incaricava il suo vice-fotografo, il vicino di casa Mihai, di scattarla per lui all’ora prestabilita. In eventuale assenza di Mihai – decisamente il sostituto più affidabile per quel compito delicato – il prescelto era Charles.

Nagib quindi raccoglieva tutte le fotografie in album annuali, ognuno dei quali ospitava il ritratto dello stesso scorcio di città alla stessa ora.

Aveva preso l’abitudine di scattare queste foto a Il Cairo, in maniera del tutto casuale. Un giorno mentre ritornava dall’università, e dopo essersi fermato lungo il cammino di ritorno al bar del vecchio Oumar a bere del tè e fumare un paio di pipe, era stato colto d’improvviso da una voglia incontenibile di andare in un videoshop per noleggiare un dvd. Uscito dal bar del vecchio Oumar, Nagib si sentiva ebbro al punto giusto, cioè a quel livello nel quale il fumatore si posiziona comodo ad una adeguata distanza dalla realtà, e grazie a ciò può permettersi di girovagare per un Blockbuster o per un centro commerciale senza cadere in depressione. Forte di questa sensazione di invulnerabilità, era entrato nella prima videoteca che aveva incontrato lungo la strada di ritorno a casa. Camminando tra gli scaffali era stato richiamato, come un marinaio attratto dal canto delle sirene, da un film il cui titolo sembrava studiato appositamente per attirare i potenziali clienti sopraffatti dall’hashish che, alla pari di Nagib, si avventuravano estemporaneamente tra i corridoi della videoteca. La pellicola aveva un titolo quintessenziale: “Smoke”. Nagib l’aveva noleggiato un sabato sera e se l’era visto tutto d’un fiato la mattina seguente, non prima però di aver mangiato golosamente una ricca colazione a base di caffè e uova strapazzate con formaggio, ed essersi fumato uno spinello. La pellicola non lo soddisfò completamente, ma fu in essa che egli vide per la prima volta un uomo scattare fotografie allo stesso angolo di strada, ogni giorno e alla stessa ora. Quella storia gli piacque così tanto che decise che da quel giorno avrebbe fatto altrettanto. E così fece. Anzi, fece anche di più. Non solo iniziò a fotografare ogni sera alle otto in punto la strada che faceva angolo con la lavanderia di fronte a casa sua, nella parte vecchia del Cairo: si portò dietro questa “originale” abitudine in tutte le città in cui visse dopo che, nel 1995, lasciò il suo paese per andare a cercare fortuna in Europa. Così da allora aveva già collezionato undici album, e tutti ritraevano uno specifico angolo di fronte alle abitazioni dove Nagib aveva risieduto nella sua nuova veste di migrante in terra europea. Tre album ritraevano la vetrina di una ferramenta di Marsiglia alle cinque del pomeriggio da aprile 1995 a giugno 1998; cinque avevano cristallizzato la vita così come scorreva ogni giorno davanti ad un giornalaio di Madrid alle tre del pomeriggio nel periodo che andava luglio 1998 a febbraio 2003; e gli ultimi tre stavano immortalando la macelleria “Touareg” di Samir ogni sera alle sei.

Gli abitanti e i frequentatori regolari di Piazza Africa ormai conoscevano le abitudini “originali” di Nagib e nessuno di loro ci faceva quasi più caso quando, verso le cinque e mezza in punto, abbandonava la sua amata sedia, rientrava in casa per uscirvi dopo una ventina di minuti (i più maliziosi sostenevano “dopo essersi fumato una canna”), posizionava il cavalletto e la macchina fotografica e, alle diciotto spaccate, effettuava il suo scatto quotidiano.

A volte succedeva che qualche cliente occasionale della macelleria si accorgesse di venire fotografato da quello sconosciuto ed iniziasse ad imprecare contro di lui, nel timore che Nagib fosse uno sbirro o, ancor peggio, un collaboratore. Era anche successo che i più focosi avessero addirittura cercato di avventarsi contro di lui con l’intenzione di aggredirlo, strappargli la macchina fotografica e distruggere il rullino. Ma, per fortuna di Nagib, le poche volte che facinorosi di questo genere avevano minacciato di assalirlo, erano sempre stati fermati dai ragazzi della piazza che, con le buone, li avevano tranquillizzati, raccontando loro che quello non era un poliziotto, né un loro mercenario, ma solo un tizio “originale”, un po’ fumato, che non faceva del male a nessuno. Quando queste argomentazioni non bastavano per calmare i più agitati, i ragazzi del quartiere cercavano di spiegare loro che se veramente Nagib fosse stato uno sbirro o un infame, di certo non si sarebbe messo a scattare foto davanti a tutti dal marciapiede, ma l’avrebbe molto probabilmente fatto di nascosto. Quando anche questo non era sufficiente per placare i loro animi, allora iniziavano a volare gli schiaffoni, e il malcapitato se ne andava ancora più infuriato, imprecando, coperto di lividi. Il tutto mentre Nagib rimetteva tranquillamente la macchina fotografica nella sua custodia, ripiegava il cavalletto e rientrava in casa. I ragazzi della piazza erano perciò in un certo senso il suo servizio di sicurezza personale. Lo facevano perché, in fin dei conti, Nagib non aveva mai fatto male a nessuno, anzi. Le rare volte che veniva interrogato dai ragazzi su un qualche argomento rilevante all’interno di una delle loro interminabili discussioni tardopomeridiane, o quando gli veniva chiesto un favore, era sempre disponibile e gentile con tutti.

Ma quelli che coinvolgevano Nagib non erano gli unici incidenti legati al furto di immagine accaduti nella piazza.

 

Molte volte, quando Abbas e Alì si sedevano fuori casa dopo cena per bere il tè e a discutere dei fatti del giorno, incominciava a radunarsi attorno a loro una piccola folla di curiosi. La maggior parte erano ragazzini del quartiere che conoscevano le loro abitudini e, attirati dal talento narrativo di Alì, aspettavano impazienti il momento in cui i due sarebbero arrivati, per sedersi in semicerchio attorno a loro e chiedere ad Alì di raccontare loro le sue storie. Tra i ragazzini più giovani facevano spesso capolino anche donne in cerca di riposo dopo una dura giornata di lavoro, gli amici più cari e amici di amici, in città di passaggio. Samir si univa al manipolo di ascoltatori solo raramente. Charles era sempre troppo impegnato. Dipesh non si era mai visto.

Alì era un maestro nel raccontare storie. Come quella del suo amico Abu, che quando era ragazzo era un giocatore di calcio fantastico, un vero fuoriclasse. Quando era sobrio. I giorni delle partite i suoi compagni di squadra dovevano andarlo a prendere a casa al mattino prestissimo, prima che iniziasse ad attaccarsi alla bottiglia. Un ritardo di solo qualche minuto e la loro stella sarebbe stata indisponibile per la partita e per il giorno intero.

Una delle storie che i ragazzi più giovani preferivano ascoltare era quella dei “turisti per caso” che volevano vedere da vicino e fotografare “un vero cantastorie africano in azione”. Alì raccontava che era accaduto solo due volte che dei toubab (bianchi) avessero cercato di fotografarlo mentre narrava le sue avventure. La prima volta che questo accadde, in un paesino sulla costa del Benin, il turista domandò se poteva immortalare “il primo griot che avesse mai visto in vita sua”. Dopo aver ricevuto un cortese “no” e uno sguardo freddo come l’inverno come risposta, questi si ritirò deluso, ma composto, sulla sua sedia. La seconda volta, a Dakar, un audace cacciatore di immagini non ebbe il buonsenso di chiedere il permesso ad Alì, e gli fece scattare il flash in faccia mentre stava parlando, senza nessun preavviso. In pochi secondi l’imprudente turista vide la sua nuova macchina digitale frantumarsi in mille pezzi sul marciapiede, come un biscotto sotto gli zoccoli di un bufalo, e dovette suo malgrado prendere la strada di ritorno all’hotel, verso il quale si diresse sproloquiando in francese, accompagnato dalle sonore risate dei bambini, che salivano fino alle nuvole.

Ai presenti che ridevano a crepapelle ascoltando la storia del francese e della sua videocamera ridotta in briciole, Alì raccontò che ogni volta che una persona produce una risata fa nascere un piccolo koitombè, un folletto che sale in cielo, e i folletti che ora stavano uscendo dalle bocche divertite dei bambini seduti attorno a lui in Piazza Africa, avrebbero sicuramente incontrato in cielo i folletti dei bambini di Dakar. E tutti assieme si sarebbero fatti un ennesima grassa risata all’indirizzo dell’arrogante turista francese, “Ah ah ah ah ah ah!!!”

“Il vento che accarezza le nostre orecchie in primavera – aggiunse Alì – non è altro che il coro delle voci di tutti i koitombè creati dai bambini che ridono”.

Alì era della Sierra Leone, almeno così diceva, dal momento che, come orgogliosamente dichiarava, non aveva mai posseduto un documento in vita sua. “Non ho bisogno di quella carta straccia, io!”, usava tuonare contro tutti quelli che avevano la malaugurata idea di chiedergli come potesse vivere senza documenti. “Non mi porterò mai e poi mai quei fogliacci addosso. Quella è merda per toubab. Io so chi sono, so chi è mio padre, chi era suo padre e il padre di suo padre. Questa è l’unico passaporto di cui un africano ha bisogno!!!” Solitamente, dopo quella spiegazione, la conversazione terminava e i presenti erano soliti abbassare leggermente gli occhi, sporgere leggermente il labbro inferiore su quello superiore e in silenzio annuire mestamente con il capo.

Nonostante questo suo rifiuto nei confronti dell’ingombrante burocrazia cartacea creata dai toubab, Alì aveva vissuto in quasi tutti i paesi dell’Africa e in diversi paesi d’Europa. Non che questa sua abitudine non gli avesse procurato problemi in passato. Infatti raccontava che una volta era stato fermato da un paio di poliziotti ivoriani in cerca di denaro facile e, non avendo niente in tasca né per loro né per se, era stato arrestato e trattenuto in una cella di pochi metri quadri assieme ad altri tredici disgraziati per una decina di giorni.

Alì passava intere serate bevendo tè con gli amici della piazza, raccontandosi gli uni con gli altri storie che appartenevano al loro passato, progetti per il futuro, e ogni qual volta qualcuno nominava un nuovo paese africano e gli chiedeva se ci fosse andato, tutti già conoscevano la risposta, che era sempre la stessa: “Si. è un paese con persone di buona volontà e cariche di fede. Dovresti andarci prima o poi. Quella gente ha tante cose da insegnarti e tante storie da raccontare”. A sentire Alì tutti i paesi africani erano così: luoghi pieni di magia e saggezza. Non che gli amici non gli credessero. Ma alla maggior parte dei ragazzi della piazza, in quella fase della loro vita, non passava nemmeno per l’anticamera del cervello di ritornare in Africa per andare in cerca delle bellezze dimenticate del loro continente. Tutti, o quasi, avevano una ed una sola idea fissa: rimanere in Europa. Spagna, Italia, Francia, Germania, non faceva alcuna differenza. L’unico obiettivo che avevano in testa era quello di mettere via soldi lavorando in quel continente così bello, ricco, pulito, felice, razzista, sfruttatore e ipocrita, dopodiché avrebbero avuto l’opportunità di ritornare in Africa con il portafoglio pieno, costruire una casa lussuosa per sé e per la propria madre, guidare una macchina tedesca di grossa cilindrata, e dimostrare così agli amici d’infanzia che avevano vinto la loro scommessa con la vita.

Quando sentiva parlare di certi argomenti Alì rimaneva impassibile. Nessuno gli ha mai sentito pronunciare una parola di dissuasione nei confronti dei progetti dei suoi fratelli della piazza. Ma nemmeno di incoraggiamento. Semplicemente soprassedeva, o magari cambiava discorso iniziando a raccontare di quella volta in cui, in Libia… in Angola… in Togo…

Nonostante questa apparente indifferenza di Alì nei confronti della smisurata passione che i suoi fratelli nutrivano per l’Europa, tutti sapevano che in realtà egli disapprovava la loro scelta di affidare le proprie sorti nelle mani di quel continente dal quale egli proprio non riusciva ad essere attratto. Non manifestò mai apertamente a nessuno le preoccupazioni che turbavano i suoi sonni, Men che meno le manifestava a coloro che, delusi dall’esperienza italiana, si confidavano con lui e a lui si rivolgevano per qualche ultimo consiglio prima di partire per un altro paese europeo, per intraprendere un’altra tappa del “grande viaggio”. Ma tutti sapevano che soffriva per loro.

Una volta, senza che lui se ne accorgesse, Serign gli aveva sentito chiudere la sua sessione serale di preghiere recitando lamenti in memoria dei fratelli morti, scomparsi, uccisi, nel tentativo di lasciare la loro terra madre per cercare la felicità in quella che lui, in quegli strazianti canti, chiamava “la terra dell’inganno”. I versi struggenti di quel canto lasciarono una traccia indelebile nella memoria di Serign che ancora, a distanza di anni, si commuove a ricordarli.

In realtà nessuno sapeva perché Alì continuasse a vivere in Italia, un paese per il quale non aveva mai speso una sola parola di elogio. C’era anche chi, come Rasheed, un giovane molto rispettato tra i coetanei, leader di una crew del quartiere chiamata “The Soulution”, criticava apertamente l’“africanismo snob” di Alì, chiedendogli come pretendesse di sapere tutto della vita se non era mai stato negli Stati Uniti, nel Queens, nel Bronx, a Compton. Ma ad Alì le critiche di Rasheed non interessavano più di tanto. Più viveva lontano da casa e più si convinceva che tutto quello che l’uomo deve imparare nella sua esistenza, lo può trovare in Africa. I suoi occhi si illuminavano solo quando parlava dell’Africa. Probabilmente dentro di sé sognava ogni giorno di tornarci. Per andare a Compton c’era sempre tempo.

 

Anche prima della brillante intuizione di Mohammed, i sabato pomeriggio in Piazza Africa (“già Piazza Torino”) erano piuttosto movimentati, grazie alla presenza dei nigeriani che, rifornendosi fin dal primo pomeriggio al negozio di Charles, facevano schizzare alle stelle i valori etilici medi del quartiere e iniziavano spesso feste improvvisate che duravano fino alle luci dell’alba del giorno seguente. A volte, nel bel mezzo di discussioni animate che si protraevano per ore, capitava che alcuni si staccassero dal gruppo e si disponessero all’improvviso in semicerchio. Quando ciò accadeva, immediatamente uno dei transfughi si sistemava in mezzo alla mezzaluna e cominciava ad intonare il ritornello che significava una e una sola cosa: Streetstrip!

 

Go on! go on! Drink enormously!

I ain’t bit ashamed – drink outrageously!

Go on! go on! eat prodigiously

I drank good beer – eat ferociously!

Go on! go on! dance unceasingly!

I eat good chicken – now undress yaself!

Go on! go on!

 

Un canto al quale i presenti rispondevano “GO ON! GO ON!”

…e cominciavano a volar via i vestiti!

Lo steetstrip era uno spogliarello di strada eseguito a ritmo di hip hop, che negli ultimi anni stava diventando una forma d’arte popolare molto diffusa nei ghetti di Lagos. Ma non c’era lussuria o volgarità nelle svestizioni improvvisate in mezzo alla piazza, solamente pura voglia di stare insieme e di divertirsi, di liberarsi dalle pesantezze, lasciando cadere alle proprie spalle le fatiche fisiche e mentali della vita quotidiana. C’è chi nel weekend allevia le proprie ansie andando a caccia di platani guidando a folle velocità automobili ubriache e chi si riunisce nell’appartamento dei signori Zanon per una “riunione straordinaria” del CPP. I nigeriani si ritrovano in Piazza Africa, bevono, ballano, cantano … e si spogliano.

I partecipanti allo streetstrip si disponevano in cerchio attorno allo streetstripper di turno e accompagnavano lo svestimento, oltre che con il famoso ritornello “Go on! go on! Drink enormously!...”, con canti e balli. Mentre gli uomini battevano le mani e il piede sinistro a terra e le donne li accompagnavano intonando gli ululati di gioia tradizionali del loro popolo, c’era sempre qualcuno che correva a casa a prendere uno djembe per accompagnare i canti e gli ululati con le percussioni. Quando era il turno delle donne e degli uomini più on fire a guadagnare il centro dello street stage, e si incominciavano a vedere sventolare reggiseni, perizomi e boxer, anche i non-nigeriani iniziavano ad avvicinarsi a quella folla gioiosa. Anche per chi non parlava l’inglese dei nigeriani non era difficile inserirsi e unirsi al coro. In fondo i passi di danza e gli ululati erano molto facili da imparare, ed il canto propiziatorio pure. Anche se nelle bocche dei non-nigeriani il ritornello si trasformava in un maccheronico “go o go o, dì che no, mo’ si…”, cantarlo era ugualmente funzionale all’obiettivo. Inoltre gli alti livelli etilici della piazza non invitavano certo i presenti a cimentarsi in dotte disquisizioni linguistiche.

Quando l’ambiente si cominciava a scaldare sul serio, entravano in scena i pesi massimi. Allorché giungeva questo momento tutti aspettavano che entrasse in scena Laura (che nella pronuncia nigeriana assomiglia molto all’italiano “L’ora”), una vera e propria leggenda metropolitana vivente underground, che, come tutti i personaggi eroici, era conosciuta in Piazza Africa con numerosi soprannomi: “The Mistress of Love”, “The Ghetto Queen” “Foxy Lady”, “Foxy Brown”, “The Round Mount from Uptown”. Laura era una ragazza di Abuja non molto alta ma formosa, sulla trentina, scarpe da ginnastica Adidas Run Dmc perennemente ai piedi e capelli afro alla Angela Davis, che di mestiere faceva l’infermiera in una clinica privata. Durante la settimana conduceva una vita modello, da straniera “ben inserita”, “integrata” nella società italiana: lavoro otto-cinque, palestra, supermercato, casa, chiesa (la domenica). Il venerdì però non c’era niente al mondo che la potesse trascinare via da Piazza Africa. Un settimana di lavoro era alle spalle, ed era tempo di TGF, Thanks God is Friday!!! Laura adorava arrivare in piazza verso le sei, giusto in tempo per lo scatto di Nagib, salutare i fratelli e le sorelle, e cominciare fin da subito ad immergersi anima e corpo nell’atmosfera del “mercato”. Ciondolare in giro, fermarsi a scambiare due parole con tutti, stringere mani, scambiare sorrisi, abbracciarsi. Era il suo modo per mantenere vivo il ricordo di casa.

Ma immergersi nel mercato voleva dire innanzitutto concedersi abluzioni a intervalli regolari in un fiume di birra. Non che la cosa cogliesse Laura di sorpresa. Anzi, la sobria, efficiente, seria professionista dei giorni lavorativi, il venerdì sera si trasformava in una micidiale macchina da sbornie, un campione di bevute al quale pochi nel quartiere tenevano testa quando arrivava il momento di trangugiare birra. E quando l’atmosfera si surriscaldava Laura, pur non perdendo mai coscienza, adorava scendere nell’arena e dare un saggio di streetstrip d’alta scuola.

Le sessioni di streetstrip del venerdì sera presentavano un unico rischio, che Laura sapeva di dover correre: quello di incontrare sulla strada del ritorno il sabato mattina Mama Dorothy, una delle donne anziane della chiesa, che abitava nel suo palazzo. Il rispetto per gli anziani era una delle altre cose che Laura aveva portato con sé da casa, visto che si era subito accorta che nel suo nuovo paese d’ “accoglienza” le cose non andavano proprio così. L’Italia – pensava sconsolata dentro di se – è il paese con i giovani più coccolati e gli anziani più abbandonati.

In ogni caso, non poteva permettersi di incrociare Mama Dorothy e farle capire che era stata fuori di casa tutta la notte, e per di più a ballare in strada mezza nuda e brilla, lei, giovane e nubile donna timorata di Dio. Ma Laura aveva ovviato a questo problema uscendo di casa il venerdì con una copia del Vangelo in borsa, in modo che, se lungo la strada di ritorno verso casa, il sabato, avesse malauguratamente dovuto incontrare Mama Dorothy, lo avrebbe stretto devotamente al petto e le avrebbe detto che stava andando in Chiesa per una seduta mattutina supplementare di preghiera. Quando ciò accadeva, tra Laura e Mama Dorothy aveva luogo un breve scambio di battute, che si concludeva con la solita formula di benedizione e augurio dal parte dell’anziana: “Che Dio ti benedica, figlia mia. Ti auguro una buona giornata”. In realtà Mama Dorothy sapeva benissimo che quella sua figlia che si nascondeva dietro enormi occhiali neri fascianti e un alito che non profumava esattamente di mughetto, non era diretta alla chiesa. Ma ne apprezzava l’acume e la buona educazione, e perciò fingeva di crederle.

Assieme all’atletico Simon, un idolo delle signore che frequentavano gli streetstrip parties, Laura era una delle star più attese.

Secondo Saar, durante l’ultima inebriante performance di Laura, il vecchio Salaam era tra i più agitati. Abbas giurava addirittura di avergli visto saltar via la dentiera nelle foga del momento, di averlo visto prenderla da terra e, sulle ali di un eccitazione impetuosa, incastrarla in tutta furia sulle gengive stoppose in tempo per poter farfugliare uno sputacchioso “Go o! Go o!” in direzione di Laura. Ma, piegatosi a terra per raccogliere la dentiera, il vecchio Salaam aveva perso il momento in cui Laura si era girata nella sua direzione agitando in aria il reggiseno. Nel momento in cui riuscì a rialzarsi, la regina dello stripstreet se lo stava già riallacciando. Abbas giura di aver visto imprecare il vecchio Salaam mentre si rivolgeva al suo amico Kadim, che invece aveva visto tutto, e si gongolava.

L’unico problema, quando si scatenavano le sessioni di streetstrip, era l’arrivo della polizia (spesso avvertita da membri zelanti del CPP). La prima retata della polizia aveva colto gli streetstrippers totalmente alla sprovvista, e si era conclusa con il fermo di cinque partecipanti. Di tre di loro non si seppe più nulla.

Per evitare in futuro questo tipo di problemi, all’inizio di ogni streetstrip gli uomini più influenti del quartiere (che i più giovani chiamavano “i califfi”) come Simon, Thomas e Jamal avevano preso la buona abitudine di scegliere sei tra i ragazzetti più giovani presenti in quel momento nella piazza, dar loro delle trombe da stadio, e spedirne tre alle imboccature delle tre vie che portavano alla piazza, e altri tre a metà delle stesse vie. Le trombe, che i califfi chiamavano “vuvusela”, servivano per segnalare l’avvistamento di volanti o di poliziotti in borghese, che sarebbe stato così annunciato con buon anticipo alla folla di ballerini disinibiti.

Quando, ai primi segnali di streetstrip, i califfi cominciavano a serpeggiare tra la gente per selezionare i ragazzini presenti, questi cominciavano a scambiarsi occhiate di fuoco. Nessuno di loro in fin dei conti voleva giocare la partita nel ruolo sgradito di “palo”. Chiunque avrebbe preferito rimanere nel semicerchio e gustarsi lo spettacolo delle loro sorelle più grandi che si denudavano ballando. Ma sapevano anche che l’età era un tema che non lasciava spazio a negoziazioni. Era il loro cursus honorum, e avrebbero aspettato il loro momento per far parte del semicerchio.

 

Dipesh era il titolare del call center “Call Tyrone”. Lo aveva chiamato così in onore della cantante preferita di sua figlia, Erykah Badu. Con malcelata insofferenza assisteva a tutte queste scene dal proprio negozio, situato proprio nel centro esatto della piazza,. Dipesh era arrivato direttamente in Italia da Bangalore nel 1994 per raggiungere il fratello. Non era mai stato in Africa.

Jaime era uno della vecchia scuola. Uno di poche parole, che usciva di casa molto di rado. Un comunista di ferro, di quelli che non arrugginiscono, fuggito dal Cile nel 1973, pochi giorni dopo il tragico 11 settembre in cui il suo paese aveva subito l’attacco terrorista che rovesciò Allende.

Da allora aveva sempre nostalgicamente vissuto in Italia. Ogni tanto, mentre dal terrazzino di casa sua osservava la vita che animava la piazza, i cerchi di bambini attorno ad Alì, gli scatti pomeridiani di Nagib, gli incontri casuali tra Mama Dorothy e Laura, rimuginava tra sé e sé: “Proprio bella l’Africa. Mi sa che un giorno prima o poi dovrò proprio andarci…”.

natalia molebatsi & raphael d’abdon ©

 

racconto in corso di pubblicazione in: Migrazioni e paesaggi urbani, Melita Richter Malabotta ( a cura di), edizione CACIT - Coordinamento delle Associazioni e delle Comunità degli Immigrati della provincia di Trieste, Trieste, 2008.

 

 

 

 

 

Ellen, 19 anni, zingara, due figli.

Paonazza dal freddo dei campi, ingessata dalla polvere spessa.

È arrivata dalla Romania alla ricerca di uno straccio di felicità.

In quella Milano del lusso volgare.

Con Dolce e Gabbana spiaccicati sui muri.

Con orde di modelle che battono le strade.

Con i calciatori a fare i padroni del mondo.

Con i pargoli delle buone famiglie col manico di scopa sul culo.

Per manovrare montagne di denaro virtuale.

Inesorabilmente invecchiati.

Schifosamente truccati.

Senza pietà.

Pronti ad azzannare per un soldo di visibilità.

Con i figli della grande storia operaia irrimediabilmente corrotti.

Contaminati fino al midollo.

Consumati dall’invidia fino nel fondo dell’anima.

Tutt’impegnati in una vita d’emulazione perversa del niente.

Insomma, in una Milano diventata marcia trionfale di un’unica dimensione: quella dell’individuale.

Satura di simboli del potere prepotente.

Il SUV, Saint Moritz, le Maldive, l’happy hour, l’Hollywood, la coca.

La coca. La coca. La coca!

Certo, la coca.

E le puttane.

Si, pure quelle.

Un attimo d’amore pagato, è quello che rimane.

Ma anche da questa Milano scartata.

Ellen, 19 anni, zingara, due figli.

Ellen, gettata.

Ellen, cacciata.

Ellen, che puzza come fosse monnezza.

Ellen, spedita ad Opera in mezzo a discariche di uomini e merda.

Insieme ad altri zingari venuti dall’est.

Con le loro figliate che sembran conigli.

Con i loro stracci.

Con le loro facce sporche.

Con i loro strani strumenti musicali.

Estranei.

Scarti di uomini in cerca di scarti di felicità.

Tra gli scarti di altri uomini.

A rovistare tra la merda per trovare un angolo per campare.

In disparte, s’intende. Non certo sotto i riflettori.

Sei mai stato, poeta, all’aperto una notte col freddo che ti taglia la faccia?

Dimmi, ci sei mai stato?

Provaci! E poi mi dirai.

Se poi ci stai per giorni, mesi, anni...per una vita, vedrai se ti va ancora di fare il poeta.

Se hai la forza di scrivere versi.

Vedrai se non desideri la morte.

Vedrai se non dici anche tu: ora basta.

Andate affanculo!

Lasciatemi in pace.

Non ce la faccio più: io voglio solo morire.

E perchè Ellen dovrebbe fare il contrario?

Ma Ellen, 19 anni, zingara, due figli, piange e non molla.

Piange con ritegno, con discrezione, senza farsi vedere.

Ha dura la scorza!

Lei.

In questa Milano che marcia.

La sua pelle è ormai diventata di ferro.

E il freddo non la ferisce più.

A 19 anni è già vecchia.

Stende, allora, in avanti le sue mani piene di geloni, per una lacrima di carità.

Con indifferenza, con rassegnazione. Come fosse niente.

Perchè? Perchè non ha altre possibilità.

Si mette fuori dal bar nel quartiere dei ricchi e aspetta la compassione pelosa.

Qualcuno, preso dai suoi sensi di colpa, le molla qualche spicciolo schifoso.

Lo fa cadere dall’alto della sua statura di ricco.

Qualcun’altro le porta un cappuccino caldo su un bicchiere di carta.

Vuoto a perdere! Però. Perchè il vetro trasmette infezioni.

E glielo porta fuori perchè dentro, nel bar dei signori, lei non può entrare.

Lei puzza, non ci può stare.

E i clienti dallo stomaco delicato non sopportano il tanfo.

Fa vomitare.

È una signora borghese che la rampogna severa: però non buttare il bicchiere per terra!

Ci tiene, la signora borghese, al suo salotto stradale.

Ci tiene, la signora borghese, all’educazione.

Non pensa, la signora borghese, ai campi senz’acqua né luce.

Non pensa, la signora borghese, al freddo delle notti all’addiaccio.

Non pensa, la signora borghese, ai figli che non hanno il latte da bere.

Non pensa, la signora borghese.

Non pensa.

Punto e basta.

Figurati poeta, quella non lo può nemmeno immaginare.

Non può immaginare una vita di stenti.

La carità, certo, qualche volta.

Non sempre.

Ogni tanto, nei giorni che le girano bene.

Ma pretende in cambio le buone maniere.

E, a Ellen, un vaffanculo viene proprio su dal cuore!!

Forte.

Gridato.

Scagliato con tutta la rabbia che vorrebbe esplodere.

Ma tace.

Lo trattiene, nascosto, nel fondo delle sue budella gelate.

Figurati! Lei non ha la libertà d’insultare.

Anche per il suo vaffanculo ci vuole il lasciapassare.

Intanto piove e c’è fango, ad Opera.

Nel piccolo campo poco attrezzato.

Manufatto della misericordia ammuffita d’una parrocchia.

Qualche tenda stracciata, una roulotte, una stufa.

Ma un cancello di ferro per chiuderli dentro.

Per evitare che gli zingari lerci possano esondare in paese.

Straripare, rompere gli argini, inondare.

Rubare, scannare, stuprare, ammazzare!

Sgozzare.

Dopo che la ricca Milano l’ha scartati.

Fuori dallo scrigno del lusso.

Nella periferia, nel tanfo della spazzatura.

Nella discarica degli uomini per bene.

Come un sacchetto di plastica pieno di merda.

I bambini, invece, alla faccia di tutti, sguazzano, allegri, nelle pozzanghere melmose senza curarsi del freddo.

Sono sporchi e pieni di fango.

L’unica acqua che li bagna da mesi è la pioggia che batte insistente.

E sembra non voler smettere mai.

È una condanna.

Una tortura crudele del Dio del temporale.

Ma nel campo c’è lo stesso una strana allegria.

Corrono i bambini sporchi di fango.

Corrono.

E gridano e giocano.

Giocano.

Giocano con quello che trovano per terra.

Con i giocattoli gettati dai liquidi figli della Milano da bere.

Giocano con la loro fantasia.

Giocano con niente.

E i carcerati, dalle finestre ferrate di fronte, sorridono.

Sorridono per un po’ d’allegria che il carcere da tempo ha loro rubato.

E ringraziano quei bimbi lerci per il regalo inaspettato.

E salutano.

Si sbracciano e sono ricambiati.

Le voci si incrociano senza capirsi.

Lingue diverse intrecciano un impossibile colloquio.

Scarti di uomini che non si conoscono ora si sono riconosciuti.

In mezzo... un muro alto e doppie inferriate.

Quelle del carcere e quelle del campo.

Ugualmente recinti.

Anche Ellen, con le mani paonazze, guarda i suoi figli che giocano.

E per un attimo è felice.

Un attimo appena.

Sorride, le spetta.

Ma sta attenta a non esagerare.

La felicità non sa cosa sia e così la prende a piccole dosi.

Può far male.

E sono momenti di serenità.

Sotto la pioggia.

Nel fango.

Mentre il freddo comanda.

Però la gente per bene di Opera non ama l’allegria.

È vestita alla moda, con le firme finanche sul buco del culo.

È cupa, triste.

Stantìa.

Fuori! Andatevene via!

Urla in preda ad un attacco di nervi.

Noi non vi vogliamo ci rompete la nostra santa monotonia!

Gridano nascosti nella nebbia.

Non hanno nemmeno il coraggio di mostrare le facce.

E all’inizio furono grida sgangherate e rimostranze.

Poi arrivarono i cortei con i cartelli e le ronde dei bravi cittadini.

Persino luccicarono i coltelli.

Infine il fuoco che tutto porta via.

Un fuoco che purifica dalla sporcizia dei bambini.

E il campo improvvisato sale, mesto, verso il cielo sotto le mentite spoglie di nuvole di fumo.

E vaffanculo all’allegria!

Chi è stato?

Tu che dici, poeta? Qualcuno c’avrà pensato?

Invece...nessuno s’è domandato.

Tanto è un campo Rom e quella è la sua fine.

Il quartiere è stato derattizzato!

Ma che fine ha fatto Ellen e che fine hanno fatto i suoi bambini?

Chissenefrega! Si sente dire da lontano.

Ellen non esiste ne è mai esistita.

Non ha nemmeno il permesso di soggiorno!

Quindi nessuno s’è mai chiesto se è finita in fumo oppure se n’è andata.

Le brave persone di Opera ora sono soddisfatte.

Non devono più vedere lo scempio di quel campo in mezzo alle magioni.

Non devono più udire le urla dei bambini.

Non devono più subire la sfrontatezza della gratuita allegria.

Sono lerci come i maiali. Si dicono tra loro.

Portano infezioni.

Non hanno un tetto e sono sempre bagnati dalla pioggia.

Ma ognuno di loro, sotto sotto, pensa.

Eppure...sono felici. Ma come fanno?

Che c’avranno da ridere e ballare?

Non capiscono, gli onorati cittadini.

E i bambini come possono giocare se non hanno niente da mangiare?

Per loro l’importante è il macchinone, i vestiti alla moda e un viaggio alle Maldive.

Lo shopping in centro e un quiz televisivo.

Quella gente non ha niente e, allora, come può essere felice?

Non è possibile!

Ma loro non c’arrivano, hanno la testa fatta di cemento.

Non importa se vengono dai balcani sconvolti da guerre e ammazzamenti.

Potevano rimanere.

Non importa se vengono dalla Romania con la miseria a fare da compagnia.

Potevano andare da un’altra parte e non a casa mia.

Non importa se morivano di stenti.

Potevano ammazzarsi.

Ma non è razzista la brava gente di Opera, alle porte di Milano.

Cosa c’entra? Noi siamo un popolo civile!

Il popolo di quel nord avanzato e produttivo, tanto vanto dell’Europa.

No, vi sbagliate di grosso, il razzismo non c’entra niente.

Per noi gli uomini sono tutti uguali.

Bianchi, neri, gialli non fa alcuna differenza.

Ma...gli zingari si spostino più in là.

Puzzano.

E pisciano per strada.

E noi la puzza non la sopportiamo.

Gli zingari fanno nidiate di bambini che urlano d’allegria.

E a noi l’allegria non ci piace.

Gli zingari cantano e ballano tra loro.

E noi la musica non la vogliamo.

Gli zingari chiedono comprensione.

E noi la comprensione non la diamo.

Gli zingari chiedono dignità.

E noi la dignità non sappiamo cosa sia.

Gli zingari chiedono rispetto.

E noi il rispetto non lo regaliamo.

Ce lo devono pagare.

Gli zingari chiedono di campare.

E a noi della loro vita non ce ne frega niente.

E bravi, cittadini per bene di Opera!

Figli prediletti d’Alberto da Giussano.

Bravi!

Alzate su la testa e fatevi sentire.

Su, fatevi rispettare.

Copritevi di vessilli della teppaglia nera.

E via, tutt’insieme accendete un bel falò.

Chi sono quegli esseri impertinenti che vogliono stravolgere le vostre regole civili?

Chi sono, ditemi?

Via! Un calcio in culo e fuori dai coglioni.

Ma razzisti, no, voi non lo siete.

Ma chi mai l’ha detto?

Siete un popolo produttivo e sano.

Vogliono restare?

Per prima cosa si devono lavare. Poi...

Si mettano un gessato grigio e vadano in banca a lavorare!

Comprino una casa in un quartiere residenziale.

Preghino il nostro Dio senza derogare.

Vadano anche loro a fare la settimana bianca, vadano a sciare.

Chi glielo impedisce?

E in estate... la casa al mare.

E soprattutto lascino perdere l’allegria che a noi ci fa tanto male.

Hai capito, poeta, questi bravi cittadini?

Non sono razzisti, loro.

Sono anime innocenti, anime tolleranti.

Allora Ellen, 19 anni, zingara, due figli, s’incammina verso un’altra spazzatura.

Sempre alle porte di Milano.

Ha la faccia nera dal fuoco che l’ha baciata.

Le mani bruciacchiate.

I vestiti tutti stracciati.

È triste ma ormai... c’ha fatto l’abitudine.

Cammina lentamente verso la nuova destinazione.

Tenendo per mano i suoi figliuoli che sgambettano incoscienti.

Ma è preoccupata.

Perchè è sicura che altri bravi cittadini la cacceranno anche da là.

Pensa ai suoi figli, pensa alla terra che ha dovuto abbandonare, pensa a cosa fare.

Pensa che in fondo deve campare.

E che non si può permettere nemmeno l’acqua d’una lacrima.

Pensa, infine, che deve anche mangiare.

Allora allunga la sua mano davanti ad un altro bar, in cerca di carità.

Ecco il solito cappuccino.

Ma attenta a non sporcare!

Ci risiamo: le parole non son cambiate.

È la solita signora.

Che ci tiene al suo salotto stradale.

Che ci tiene alla buona educazione.

Ci tiene.

Allora Ellen, 19 anni, zingara, due figli, più non ce la fa.

Tira fuori dal cappotto stracciato un coltellaccio arrugginito e lo pianta, dritto, nel cuore di quella troia impellicciata.

Che muore dissanguata.

Ellen ride.

S’è vendicata!

 

 

Marco BocciarelliMilano

 

 

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

Se questo è un uomo

Rom e romeni in attesa dell’allontanamento dall’Italia

 

 

Non sappiamo ancora quale forma prenderà il progetto del governo di cacciare gli zingari, i rom, romeni dall’Italia. E siccome i rom nuovi arrivati, dei cui crimini si è tanto parlato negli ultimi mesi in Italia, vengono dalla Romania, il progetto prevede anche di limitare la presenza dei romeni in Italia, di filtrarli alle frontiere, tanto più che anche i romeni non rom hanno commesso numerosi crimini e reati. Si infrangerebbe però così una norma europea, perché la Romania è entrata nell’Unione Europea il 1° gennaio 2007. Questo ingresso ha fatto dei Romeni dei cittadini europei, e anche i rom sono diventati cittadini europei visto che in Romania erano cittadini romeni. Mentre, sia detto tra parentesi, da noi in Italia, paese civile, gli zingari sono in gran parte apolidi, ai quali noi neghiamo la cittadinanza italiana e non riconosciamo i nostri stessi diritti.

Zingari, abbiamo detto. Cioè rom. Giornali e politici si sono imposti da tempo un tabù linguistico che vieta di chiamare gli zingari con questo nome. I giornali non scrivono mai zingari, ma nomadi, rom, perfino slavi. Lo stesso fanno i programmi televisivi. Adesso si dice e si scrive soprattutto romeni, intendendo anche i rom. Non sarà inutile precisare che rom e romeni non sono la stessa cosa. I rom stanno ai romeni come i nostri zingari (rom anche loro, o shinti) stanno agli Italiani.

Gli zingari, i rom e gli altri gruppi che portano altri nomi, sono arrivati in Europa dall’India nel Medioevo. In Italia erano già presenti nel XV secolo. Erano calderai ambulanti, più tardi sono diventati commercianti di cavalli. Nell’Europa orientale sono musicisti. Suonano nei matrimoni e nelle altre feste. Alcuni sono diventati grandi interpreti. Ma la gran parte di loro non si è mai assimilata, e nemmeno integrata, né in Italia, né negli altri paesi europei né negli altri continenti dove il loro nomadismo li ha portati: Nord Africa, America. Una parte degli zingari si sono sedentarizzati, ma la gran parte è rimasta nomade. A primavera le loro roulottes riprendono il loro cammino, secondo itinerari noti. Una volta erano carovane tirate da cavalli, ma i percorsi erano gli stessi. Cervantes (nella sua splendida Gitanilla) e García Lorca in Spagna, Victor Hugo in Francia, Ion Budai-Deleanu in Romania hanno cantato la libertà del popolo zingaro, come Tolstoj quella dei Ceceni.

Gli zingari sono ladri, sono pericolosi? Qualche volta sì. Ma come ha scritto recentemente Guido Ceronetti nel Sole Ventiquattr’Ore (domenicale, 11 maggio 2008) “il pugno della legge” non può essere disgiunto per loro “dalla comprensione di un mistero spirituale che da sempre accompagna tutte le races maudites di questo strano pianeta”, e, aggiungerei prosaicamente, dal rispetto per i diritti fondamentali dell’uomo. Anche se Ion Mailat, zingaro romeno, ha ucciso a Roma una donna il 31 ottobre 2007 a Tor di Quinto, non per questo possiamo dire che tutti gli zingari sono assassini. Sappiamo che Mailat ha agito da solo, senza complici, e che il suo atto criminale è stato segnalato alla polizia da un’altra zingara dello stesso campo. Ma questo delitto è diventato nell’immaginario di molti, un immaginario che molti politici condividono o temono, il delitto emblematico della presenza dei rom e dei romeni in Italia. Una colpa da punire non sull’individuo, ma sull’intera nazione.

La Comunità di sant’Egidio, in un suo documento dedicato allo stato dei rom romeni in Italia ricorda che negli anni Cinquanta i giudici minorili svizzeri avevano aperto un dibattito sull’alto numero di reati compiuti da minori italiani “Ci si chiese allora, si legge nel documento, se non vi fosse una propensione culturale della popolazione italiana al furto. Una idea avvalorata da molta letteratura europea.” Il dibattito si spense appena la popolazione italiana acquisì un migliore status sociale, aprendo negozi e ristoranti e i reati diminuirono, ma gli stessi sospetti si appuntarono subito sui nuovi venuti, portoghesi, poi jugoslavi, infine turchi.

Non sappiamo se i Romeni, rom e non, arriveranno a migliorare il loro status sociale in Italia, che oggi è spesso marginale, o se, come si ventila, saranno cacciati prima. In quest’ultima ipotesi, non ci resta da chiederci chi saranno i loro successori.

Possiamo anche chiederci cos’aveva fatto l’Italia davanti all’arrivo, previsto, di migliaia di zingari romeni dopo il 1 gennaio 2007. Come si è saputo dopo i colloqui italo-romeni seguito all’omicidio Mailat, l’Italia non aveva nemmeno chiesto all’Europa le sovvenzioni che questa mette a disposizione degli stati nazionali per l’assistenza agli zingari. Sei mesi dopo, da quanto si apprende, il Comune di Genova pensa ancora di provvedere ad alloggiare i rom romeni del territorio con i fondi europei assegnati … alla Romania. È toccato alla sottosegretaria romena Dana Varga, di etnia rom lei stessa, ricordare alle autorità della Liguria che esistono fondi europei a disposizione dell’Italia per questo scopo.

Per equità dobbiamo anche ricordare che, prima che arrivi il decreto anti-rom, i diritti elementari degli zingari romeni sono già stati violati più volte in Italia. Tra il 2007 e il 2008, a Roma e a Milano e, temo, anche in altre civilissime città italiane, sono state messe in azione le ruspe per distruggere i campi dei rom. A Milano gli zingari, dopo lo sgombero del campo della Bovisasca, sono stati inseguiti e dispersi, e così temo in altre città. Se non fosse stato per la protesta dell’Arcivescovo di Milano, il Cardinal Tettamanzi, la notizia non sarebbe uscita dalle pagine locali dei giornali.

Saremo dunque noi, italiani europei del XXI secolo, i primi a perseguitare un popolo che vive tra di noi da almeno da sei secoli? Certo, i primi del nuovo secolo, non i primi in assoluto, visto che la Germania nazista, nel 1933, li ha privati di tutti i diritti, poi li ha avviati ai forni crematori, dove ne sono scomparsi, pare, cinquecentomila.

Rom, nella lingua indoeuropea degli zingari, vuol dire “uomo”. Ricordate le parole di Primo Levi? “Se questo è un uomo…”

 

Lorenzo Renzi

Professore Ordinario di Romanistica presso l'Università di Padova

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

Romeni - Un'altra cronaca è possibile

 

MIHAI MIRCEA BUTCOVAN - «l'Osservatore Romeno»


Riprenderò la mia riflessione sui romeni e sul razzismo, iniziata sulle pagine di questo giornale, da dove l'avevo lasciata nel novembre del
2007, in pieno dibattito sul caso «Reggiani-Mailat», in piena «caccia al romeno», mentre si inneggiava ai roghi, ai fucili o, nel migliore dei casi, alle espulsioni. Concludevo le mie considerazioni in questo modo: «Si dimenticheranno in fretta anche di noi, sappiamo che è consuetudine. Altrimenti aspetteremo con fiducia i prossimi campionati di calcio. Gli “europei”. In caso di vittoria l'oblio dei problemi, anche di questo delitto, anche dei morti nel mediterraneo, anche dei romeni, e pure dei rom, è assicurato».

Oggi aggiungerei all'elenco anche le morti bianche.

Ero forse ottimista? Avevo forse dato voce ad una speranza che dentro di me diventava preoccupazione? Non avevo certo calcolato una campagna elettorale prima dei campionati europei di calcio. Non potevo saperlo. Altrimenti avrei dato per scontato che la questione «sicurezza» e, con essa, il «problema» dei romeni, dei rom e degli immigrati in generale sarebbe stata inserita come priorità nei programmi elettorali.

Non posso negare che ci siano anche reati e infrazioni commesse da migranti. Ma viviamo in tempi in cui si rivendica la necessità del contraddittorio. Allora non capisco l'assenza dai notiziari di tutti quei migranti che lavorano, pagano tasse e - in mille modi e altrettanti lavori - fanno del bene a questo paese oltre che a se stessi. Di loro si parla sempre meno e si dà scarsa notizia, quando non li si ignora del tutto.

E poi ci sono uomini che nei cantieri ci lasciano la pelle e ci sono donne che le tasse non le pagano perché sono «assunte» in nero. Difficilmente queste persone troveranno mai spazio per un contraddittorio di fronte a chi le colpevolizza per la semplice appartenenza ad un popolo o ad un paese non abbastanza «comunitario». Se ci fosse più informazione anche su queste presenze in Italia, non cambierebbe certamente il giudizio negativo e la condanna di certi reati gravi, chiunque li abbia commessi. Ma se ci fosse più informazione anche su queste persone oneste, molto più numerose dei delinquenti, sarebbe più difficile o addirittura impossibile, per qualcuno, sostenere che i romeni sono «abitualmente criminali», che i rom sono «geneticamente o culturalmente ladri», che gli immigrati sono soltanto «un problema» da espellere, per usare un eufemismo. E troppo spesso, nelle rubriche di notizie o informazioni, quando gli stranieri sono vittime si omette o non si rimarca la nazionalità.

I problemi dell'Italia e delle persone che la abitano in questo momento sono tanti, sarebbe davvero riduttivo e fuorviante ricondurli alla presenza dei rom o dei romeni in Italia e in Europa. Mi sembra anche una semplificazione che offende l'intelligenza di chi la deve sorbire o addirittura applaudire. Purtroppo in molti plaudono a questa riduzione e la considerano come punto di partenza per chissà quale risorgimento economico e delle libertà, fatto magari a suon di «ifucilisonopronti».

Alcuni vorrebbero valutare l'onestà di una persona in base al reddito e a ben guardare molte vicende giudiziarie degli ultimi anni sono andate in questa direzione. Per questi, chi migra per necessità e non per turismo, sarebbe sempre un disonesto o un delinquente.Si potrà mai fermare questa colpevolizzazione dello straniero? Forse opponendo alla modalità parziale e faziosa, certamente diversiva, di dare notizia sulla presenza degli immigrati, un nuovo metodo di dare informazione. Con una maggiore diffusione delle storie di positiva presenza delle persone che, sebbene provenienti da altrove, aiutano il Belpaese a crescere e a risollevarsi.

Vorrei lanciare un appello e chiederei agli italiani che possono testimoniare contatti positivi, quando non emozionanti e appassionati, di fare i cronisti di queste presenze che spesso non hanno voce. Chiedo loro di scrivere ai giornali, a vari siti e nei vari blog, dei loro incontri ravvicinati di secondo e terzo tipo con questi extracomunitari che costruiscono case e curano gli anziani d'altri come se fossero i propri. Questi «alieni immigrati» che, ironia della sorte, sono sempre più bersaglio di alcuni omini verdi...

Le storie di incontri positivi non avranno la visibilità di certi tiggì, non avranno l'impatto emotivo di certi programmi televisivi, commoventi già nel copione prima che nell'apparizione sugli schermi. Ma contrasteranno quella battuta del bar o del comizio che prevede «ognuno a casa sua» e che attribuisce la crisi e le difficoltà odierne, la precarietà del lavoro, l'aumento del costo della vita, talvolta anche il prezzo del pane, alla presenza degli immigrati.
Si possono, anche senza il monopolio dell'informazione, raccogliere con un appello, narrazioni di buon vicinato, di reciprocità e di utile o necessaria convivenza con buona parte degli immigrati. Sono molti gli italiani che potrebbero raccontare di romeni, di rom e di altri «viaggiatori» onesti, lavoratori, responsabili, rispettosi della legge. Inneschiamo un passaparola inclusivo contro quello espulsivo di chiunque sia straniero. Certo, qualche lettore in attesa di notizie ghiotte, magari di violenza, rimarrà deluso.

Potremmo anche approfittare dei prossimi campionati europei per trasmettere, in Italia, le cronache televisive e radiofoniche delle partite abbinando ai cronisti italiani immigrati dai paesi delle squadre avversarie. Durante quelle partite potrebbero esserci, nelle cronache, anche brevi spot culturali di quei paesi europei, alcuni comunitari, che tanto poco conosciamo. Qualche volta tanto poco da non sapere nemmeno che sono nella stessa comunità. E non è soltanto il caso della Romania, avversaria diretta nel girone dell'Italia.

Qualche mese fa, dopo aver citato il cantautore italiano che diceva «la storia siamo noi», ho lanciato un altro appello dalle pagine della rivista Internazionale. Come romeno, come italiano e come migrante, sento il bisogno di proporlo nuovamente, sempre con uno sguardo al futuro: «Dovremmo vigilare perché la caccia al romeno, al rom, o allo straniero non diventi uno sport nazionale o, peggio ancora, europeo. Perché di quello sport - la storia non voglia - sarebbe meglio non diventare campioni del mondo».

 

 ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

 

 

L'ORDA

 

Siamo sporchi cattivi

mendicanti lebbrosi

veniamo da lontano

a portarvi la croce

 

fate in fretta

nascondete

le ragazze in cantina

 

siamo figli di un dio

che ci nega il cognome

bestemmiamo in più lingue

e ci grattiamo i coglioni

 

fate presto

suonate a morto le campane

e' arrivata la peste

ed è qui per restare

 

lubrica lasciva

sozza sconcia

sconveniente

siamo l'orda che sbarca

la barbarie imminente

 

siamo un cane rabbioso

che ha sbranato il padrone

 

tutti ladri fottuti

fannulloni bastardi

e non c'è pane al mondo

per riempirci la fame

 

non cercate d'imporci

né regole né ragioni

portiamo in corpo i calli

dell’intero campione

siamo duri al randello

vaccinati al cannone

 

siamo arrivati tardi

al banchetto del mondo

scusate il disturbo

noi siamo la barbarie

 

fate presto

battono a morte le campane

è scoppiata la peste

ed è qui per restare

 

+++

 

 

Milton Fernàndez – Como

20/05/2008

 

 

 

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 

Sarà colpa degli zingari?

 

 

La vita è ogni giorno più cara, sembra sia colpa degli zingari;

La mafia è più forte che mai, forse è colpa degli zingari;

La spazzatura ci sta invadendo, è anche colpa degli zingari;

Il parlamento è pieno di delinquenti, sarà perché sono zingari?

Le bufale producono mozzarelle alla diossina, sempre colpa degli zingari;

Lo stato è coperto di debiti, perché mantiene gli zingari!

I ricchi non pagano le tasse… Allora non solo gli zingari?

Le terre agricole, le foreste, i fiumi, le spiagge, tutto è invaso dal cemento… e dagli zingari;

I bambini non giocano più per le strade, perché ci stanno troppe macchine e troppi zingari;

La Tv e i giornali ci rimbecilliscono ogni giorno un po' di più, parlando di quello che combinano gli zingari;

Non sappiamo dove sta andando sto mondo, erriamo come zingari;

È sull'orlo di una guerra assurda, una guerra senza fine, tuttavia è colpa degli zingari;

Gli Italiani ce l'hanno con noi romeni, perché ci credono zingari;

gli Italiani dicono "immigrati, tutti ladri", a causa degli zingari;

E allora che fare?

Diamo caccia allo zingaro: assediamoli, ghettizziamoli,

Pogromiamoli, Parajmosiamoli, Cacciamoli via… o meglio sterminiamoli!

Facciamo un bel rogo di zingari, femmine e maschi, grandi e piccoli!

Bruciamo loro, le loro baracche, i loro carri, i loro cenci,

Le loro giostre e i loro ferrivecchi.

Facciamola finita, una volta per tutte. Ammazziamoli tutti!

 

E vedrete… quanto si starà peggio poi.

Ma non fa niente. Non vi preoccupate.

Non pensate che dovremo poi assumere ognuno le proprie responsabilità…

Che dovremo affrontare i problemi alla base!

Ci sarà sempre un diverso più diverso sul quale scaricare...

Al quale dare la caccia!

Non vi preoccupare.

Ci pensano i media, ci pensano i politici.

Karim METREF

 

 

 

LA ZINGARA

Di Jorge Canifa Alves

 

 

 

Gli zingari puzzano. Ma non è questo il problema! Il problema è che rubano, rubano di tutto: rame, ferro, le tue scarpe, i tuoi gioielli e… l’altra notte mio figlio rientrando ha trovato la casa completamente svuotata… ha visto uno di questi stronzi, l’ha inseguito per qualche metro ma poi… questi so’ veloci… mica è riuscito a prenderlo sai!!!… Minchia, ti rubano pure in casa e non te ne accorgi. Io fortuna che ero fuori in vacanza… Sono una brutta razza… rubano tutto, ce lo hanno nel sangue… rubano… e qualche volta rubano anche i bambini… Le zingare! Sì le zingare rubano anche i bambini. Li mettono sotto le loro gonne e li portano via e chissà dove se li vanno a rivendere, poi!

Mia madre ascoltava Emma con l’aria impaurita di madre che vuole proteggere i figli piccoli. Io, all’epoca, avevo sì e no nove anni e la frase “rubano i bambini” mi metteva addosso una tremenda sensazione di sottrazione della mia persona dalle cose che amavo e, come un sipario, la gonna della zingara si chiudeva intorno a me divorando ogni cosa, senza la possibilità del poterle recuperare… “rubavano”… non “rapivano” (se mi avessero rapito mia madre avrebbe potuto pagare un riscatto ed io sarei potuto tornare ai miei giochi, a scuola, alla normalità) ma proprio “rubavano”… ti sottraevano, per sempre, dal tuo universo.

Perché gli zingari rubano i bambini, mamma? E avrei voluto che lei mi avesse risposto:

-                Non rubano i bambini… non quelli buoni, ma solo quelli cattivi!!… No, Neanche quelli cattivi! Sono storie che gli adulti raccontano ai bambini per farli stare buoni!

-                Ma l’altro giorno al telegiornale hanno detto che una zingara “ha rubato” il bambino di una signora! Pure il telegiornale racconta storie ai bambini?

-                Forse non ai bambini… Ma… penso che la cosa sia andata diversamente. Sei grande, è giusto che tu sappia queste cose… penso sia andata così… la zingara è entrata nell’appartamento di quella signora per rubare i suoi gioielli, ma è stata scoperta… l’hanno presa e l’hanno massacrata di botte. Per giustificare le botte hanno inventato la storia del “furto di bambini”.

-                Perché?

-                Perché è più facile da giustificare il massacro di una donna per il “furto di un bambino” che non per il furto di un paio di orecchini, non pensi Tesoro!!!

 

Invece questo discorso non si svolse mai, perché mai domandai a mia madre “perché gli zingari rubino i bambini” e forse non avrei neppure capito un tale discorso perché per i bambini le parole hanno peso solo quando sono colorate di rosso, di verde, di giallo e di tutti i colori fantastici e grotteschi o comunque facili da ricostruire nelle loro menti con immagini forti e toccanti o comunque tangibili.

La paura, che colonizzò gli occhi di mia madre quel giorno parlando con Emma, qualche giorno dopo venne a bussare alla nostra porta. Alla porta della nostra piccola casa, di un piccolo paesino in provincia di Roma… poco oltre il 1981, nel folto dell’estate…

Quella paura era vestita di nero, coperta dai piedi alla testa di stracci logori e consunti e il volto appena coperto era scheletrico e troppo bianco rispetto al vestiario, rispetto alla sua lunga gonna, rispetto al suo borsone fatto di stracci scuri… troppo bianco da sembrare la morte e da incutere veramente paura nelle fragili anime contadine di un paese di provincia.

Mia madre aprì la porta.

Alcune vicine, alle finestre, già lamentavano da un po’ la sua presenza e la seguivano con lo sguardo minaccioso e quando mia madre aprì la porta di casa, che dava subito sulla strada, cominciarono a gridare a mia madre di rientrare perché quella era una zingara e poteva rubarle tutto, portarle via i figli.

Mia madre lanciò un rapido sguardo alla zingara e semplicemente le domando: cosa vuoi?

La donna con altrettanta semplicità rispose: solo qualcosa da mangiare.

Mandala via, mandala via! Gridavano le altre donne.

La paura avrebbe dovuto assalire mia madre… ed invece, in quel preciso istante, mi accorsi dove annidava la vera paura: sui balconi dei vicini!!!

In quell’attimo mia madre, che pure era una straniera del posto e in che comunque non poteva contare sul clamore delle donne, raccolse nelle sue mani una straordinaria energia che mi sembra ancora di rivedere…

-          Aspettami qua! Ti porto qualcosa da mangiare!

Intanto ordinò a me di tagliare del pane e a mia sorella di prendere una brocca con dell’acqua fresca. Lei corse in cucina e dopo una decina di minuti eccola con qualcosa di pronto per quella sconosciuta “ladra di bambini”.

La donna attese tutto il tempo seduta sui gradoni della porta e quando vide quella piccola famiglia di negri portarle da mangiare le brillarono gli occhi.

Mia madre parlò un po’ con la donna, mentre questa mangiava con calma e ringraziando quasi ad ogni boccone che mandava giù.

Le vicine erano ammutolite… Una donna, sola con tre figli piccoli e per di più straniera, aveva appena dato loro una grande lezione: aiutare chi ne ha veramente bisogno, forse anche oltre le proprie paure!

In quegli anni non è che facessimo la fame, ma la vita era dura con una sola entrata economica a sfamare quattro bocche… eppure mia madre, davanti a quella misera “ladra di bambini” non ci pensò un solo istante ad aprire il suo cuore ad una sconosciuta, ad una di quelle figure che ti obbligano a scansare senza neppure farti venire la curiosità di conoscere.

La donna finito il suo pasto ringraziò ancora mia madre e si allontanò senza che neppure una foglia secca mancasse in terra… e molti anni dopo arrivò anche la verità sul figlio di Emma e sul furto a casa da parte degli zingari: si era inventato tutto per nascondere quel vizietto che lo aveva portato a rubare in casa propria per procurarsi i soldi per una partita di cocaina… ma questo lo venni a sapere molto, molto tempo dopo.

 

Quel gesto altruista di mia madre lo porto ben seminato nel cuore da allora e a distanza di anni, pure qualche lacrimuccia, di tanto in tanto, lo annaffia quando ritornando sull’episodio trova la Solidarietà e la Conoscenza che giocano a briscola contro la Paura e l’Ignoranza e… sempre queste ultime vengono sconfitte.

****************************************************************************

"Il sonno della ragione genera mostri".

 

 

Recenti avvenimenti di cronaca, e la loro accresciuta rappresentazione mediatica, hanno portato ad emergere in maniera plateale un diffuso atteggiamento di sospetto, quando non manifestazioni di vero e proprio razzismo, verso gli zingari, italiani e immigrati. La denigrazione verbale, genericamente diretta a queste comunità ed anche gli episodi di aperta violenza e razzismo nei loro confronti, non possono essere in alcun mo do tollerati. Spesso questi comportamenti vengono giustificati come risposta al presunto alto tasso di devianza di questo popolo, dimenticando che i reati in sé sono sempre compiuti da singole persone e che la responsabilità penale è, per legge, individuale. Una politica intelligente, a vantaggio della sicurezza dei singoli e della collettività, sarebbe quella di analizzare le cause che portano ad una maggiore devianza tra queste persone (emarginazione sociale e culturale, assenza di politiche d'integrazione, ecc.) offrendo misure atte a governare davvero l'immigrazione e a coniugare politiche di sicurezza con quelle di accoglienza ed integrazione. Si preferisce invece battere il tasto sulla paura della gente e sulla necessità di inasprire le leggi e le pene. E' anche strano che il battage pubblicitario sulla sicurezza e sulla paura degli italiani, avvenga proprio quando il Ministero di Giustizia dimostra, statistiche alla mano, che i reati in Italia sono diminuiti e che in Europa - il nostro Paese è uno dei più sicuri dal punto di vista dell'ordine pubblico. Il sospetto che esista una precisa regia dietro queste campagne mediatiche è inevitabilmente forte: una regia volta a rendere più accettabili misure di legge intollerabili contro i diritti della persona. Una regia che sposta l'attenzione degli italiani dal pesante declino economico e sociale in cui stiamo vivendo, verso un nemico ed un obbiettivo esterno: lo zingaro, l'immigrato, il diverso. Come spesso succede nella storia, anche su questo versante come popolo italiano abbiamo la memoria corta e ci sembra lecito accettare attacchi verbali e misure contro gli zingari che consideriamo intollerabili, quando rivolte ad altri popoli od etnie. E' un atteggiamento pericoloso e , per dirlo con le parole di Goya, "il sonno della ragione genera mostri". Non è mai colpa nostra se le cose vanno male, è sempre colpa di qualcun altro e  così, mentre ci beiamo della supposta imbattibilità della creatività italiana, non ci accorgiamo che la crisi del nostro Paese di fronte alle sfide della globalizzazione è anche crisi di capacità di interloquire con l'esterno, le culture degli altri, la gestione serena dei fenomeni del nostro secolo, quali l'unità europea e le migrazioni. In ogni caso, è certo che una politica esclusivamente di pura e semplice repressione dei reati che derivano dal disagio sociale sarà una tela di Penelope, e se non ci si indirizzerà anche verso la rimozione delle cause della condizione dei rom, non servirà a molto: a meno certamente di non innalzare l'escalation fino alla deportazione collettiva, all'arresto indiscriminato, o peggio, cosa fortunatamente proibita dalle normative internazionali . Non sembri retorica quest'ultima osservazione: rom e i sinti sono state vittime nei lager, e quella tragedia che in lingua zingara è ricordata come Porajmos, ed equivale alla shoah del popolo ebraico, pone un dovere di memoria e una responsabilità di tutti per il presente e il futuro. I sottoscritti promotori di questo appello, operatori nel campo dell'immigrazione e dei problemi sociali, con esperienze disparate e di diverse ispirazioni politiche, culturali e religiose, propongono questi punti all'attenzione del governo nazionale, regionale e locale, dei media,, nonché degli operatori sociali così come di quelli di polizia:

. 1 Combattere la campagna mediatica volta a creare atteggiamenti razzisti e xenofobi nei confronti degli zingari, ma anche dell'immigrazione in generale.

2. Adottare efficaci politiche di sicurezza e chiudere i campi noma di, in quanto ghetti e fonte di emarginazione ed illegalità, incentivando misure di vera accoglienza ed integrazione di queste comunità; i "campi nomadi" sono costosi, perpetuano le discriminazioni, ostacolano una reale integrazione. Sono anche una "zona grigia" di illegalità, su cui occorre che sia fatta luce, per tutelare in primo luogo i più deboli tra coloro che vi vivono.

3. Procedere ad un vero e completo censimento dei singoli e dei nu clei familiari di zingari presenti in Italia, come primo passo verso misure di integrazione diversificate ed efficaci;

 4. Per i minori e i giovanissimi, nati e vissuti nelle baracche, occorre prevedere con coraggio e creatività
opportunità di integrazione e anche di cittadinanza, capaci di rompere un circuito davvero infernale di sottrazione di futuro;

5. Ridurre i casi di espulsione solo per le persone che non hanno titolo o che hanno commesso reati legalmente comprovati; chi ha tale titolo, inoltre, deve essere trattato con rispetto e dignità. Prevenire le condizioni di emarginazione, miseria e criminalità sarà sempre più razionale e anche più economico che reprimerne gli esiti.

6. Occorre un'integrazione tra il livello europeo, quello nazionale, quello regionale e comunale: occorre evitare infatti che la sindrome del "non nel mio cortile": i rom non sono immondizia.

7. Mantenere la memori a collettiva del Porajmos, anche incentivando la ricerca storica sui campi di concentramento costituiti dal governo italiano nel periodo fascista, un evento rimosso e colpevolmente dimenticato.

8. Incoraggiare la voce dei Rom e Sinti italiani, che ad oggi sono l'unica minoranza linguistica storica del nostro Paese a non godere di alcuna tutela: auspichiamo che sorga un'associazione rappresentativa della comunità zingara italiana.

 


Danielà Carlà

Giuseppe Casacci

Luca Cefisi

Piero Soldini

Rodolfo Ricci


per adesioni  : fiei@fiei.org

 

**************************************************************************************************************

 

Quando ti fermerai

di Giorgio D’Amato

 

 

Andrai lontano e vedrai spiagge affollate, donne che fanno il bagno in costume o vestite, o che non faranno il bagno affatto.

Vedrai città a volte sporche e a volte pulite, ti imbatterai in bambini che escono dalla scuola con il loro zainetto tenuto bene, oppure che avranno le scarpe rotte, i capelli scalmanati.

Guiderai su strade dall’asfalto nero e lucido, oppure sentieri sterrati che ti faranno sentire indietro nel tempo.

Incontrerai semafori, supermercati pieni di cose buone o botteghe regno delle mosche.

Vedrai animali per strada, incontrerai gente.

Alcuni staranno andando per la loro strada, altri ti rivolgeranno la parola, ti diranno chi sono e ti chiederanno chi sei, ti parleranno del loro paese, della loro famiglia, della loro casa.

Si vanteranno di avere vite belle, oppure si lamenteranno di non farcela sino a fine mese, di aver avuto la luce tagliata, di avere l’auto ferma e neanche un soldo per metterci dentro la benzina.

Non importa, tu cammina e vai sempre avanti.

Il giorno in cui deciderai di fermarti, però guarda bene intorno.

Non ti fare abbagliare da strade pulite, villette graziose, negozi pieni di frutta lucida, gente che sorride dalle televisioni, che ostenta titoli.

Fai un giro, un po’ fuori se è il caso, informati, chiedi se c’è un campo rom nel circondario, se non ti capiscono usa il termine zingari. Se ti rispondono sì, allora vallo a vedere.

E se lì la gente ci vive tranquilla, magari un po’ male, senza acqua e luce,  ma tranquilla, allora fermati. Quello è un posto buono.

 

 


Torna alla pagina principale