Qui
di seguito troverete storie, racconti, voci di scrittori, intellettuali,
ragazzi Rom che alzano la testa e la voce per dire che una giustizia senza
umanità è la peggiore delle ingiustizie.
Parole
di sostegno e solidarietà al popolo degli
uomini in cammino…
«Quando i nazisti vennero a prendere i comunisti, non dissi
niente, non ero mica comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici, non dissi niente, non
ero mica socialdemocratico.
Quando vennero a prender i sindacalisti, non dissi nienti, non
ero mica sindacalista.
Quando vennero a prendere gli ebrei, non ho protestato; non ero
mica ebreo.
Quando vennero a prendere me, non c'era rimasto più nessuno a
protestare».
Martin Niemoeller
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Cosa sta succedendo in Italia?
Sono rimasto sconvolto ieri quando la televisione ha
mostrato le immagini della polizia presentandosi nella notte nei campi nomadi
di Roma, per fare dei "controlli". No ho potuto fare a meno di
approcciare quest'immagini con quelle degli anni bui della dittatura nel Cile,
quando le forse della repressione si presentavano, anche loro nel buio
della notte, per "controllare" i cosiddetti
insorgenti.
Non c'è anche un certo odorino a diritti umani
calpestati dietro di tutto questo?
José Luis
Pizarro - Roma, 16 maggio 2008.
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Don Luigi Ciotti
Cara signora,
ho visto questa mattina,
sulle prime pagine di molti quotidiani, una foto che La ritrae.
Accovacciata su un furgoncino aperto,
scassato, uno scialle attorno alla testa.
Dietro di Lei si intravedono due
bambine, una più grande, con gli occhi sbarrati, spaventati, e l’altra,
piccola, che ha invece gli occhi chiusi: immagino le sue due figlie.
Accanto a Lei la figura di un uomo,
di spalle: suo marito, presumo.
Nel suo volto, signora, si legge un’espressione
di imbarazzo misto a rassegnazione. Vi stanno portando via da Ponticelli, zona
orientale di Napoli, dove il campo in cui abitavate è stato incendiato.
Sul retro di quel furgoncino male in
arnese - reti da materasso a fare da sponda - una scritta:
"ferrovecchi".
Le scrivo, cara signora, per
chiederLe scusa.
Conosco il suo popolo, le sue storie.
Proprio di recente, nei dintorni di Torino, ho incontrato una vostra comunità:
quanta sofferenza, ma anche quanta umanità e dignità in quei volti.
Nel nostro Paese si parla tanto, da
anni ormai, di sicurezza.
È un’esigenza sacrosanta,
È il bisogno di sentirci rispettati,
protetti, amati. Il bisogno di vivere in pace, di incontrare disponibilità e
collaborazione nel nostro prossimo.
Per tutelare questo bisogno ogni
comunità, anche la vostra, ha deciso di dotarsi di una serie di regole. Ha
stabilito dei patti di convivenza, deciso quello che era lecito fare e quello
che non era lecito, perché danneggiava questo bene comune nel quale ognuno
poteva riconoscersi. Chi trasgrediva la regola veniva punito, a volte con la
perdita della libertà. Ma anche quella punizione, la peggiore per un uomo -
essendo la libertà il bene più prezioso, e voi da popolo nomade lo sapete bene
- doveva servire per reintegrare nella comunità, per riaccogliere.
Il segno della civiltà è anche quello
di una giustizia che punisce il trasgressore non per vendicarsi ma per
accompagnarlo, attraverso la pena, a un cambiamento, a una crescita, a una
presa di coscienza.
Da molto tempo questa concezione
della sicurezza sta franando. Sta franando di fronte alle paure della gente.
Paure provocate dall’insicurezza economica - che riguarda un numero sempre
maggiore di persone - e dalla presenza nelle nostre città di volti e storie che
l’insicurezza economica la vivono già tragicamente come povertà e sradicamento,
e che hanno dovuto lasciare i loro paesi proprio nella speranza di una vita
migliore.
Cercherò, cara signora, di spiegarmi con un’immagine. È come se ci sentissimo
tutti su una nave in balia delle onde, e sapendo che il numero delle scialuppe
è limitato, il rischio di affondare ci fa percepire il nostro prossimo come un
concorrente, uno che potrebbe salvarsi al nostro posto.
La reazione è allora di scacciare
dalla nave quelli considerati "di troppo", e pazienza se sono quasi
sempre i più vulnerabili. La logica del capro espiatorio - alimentata anche da
un uso irresponsabile di parole e immagini, da un’informazione a volte pronta a
fomentare odi e paure - funziona così. Ci si accanisce su chi sta sotto di noi,
su chi è più indifeso, senza capire che questa è una logica suicida che
potrebbe trasformare noi stessi un giorno in vittime.
Vivo con grande preoccupazione questo
stato di cose. La storia ci ha insegnato che dalla legittima persecuzione del
reato si può facilmente passare, se viene meno la giustizia e la razionalità,
alla criminalizzazione del popolo, della condizione esistenziale, dell’idea:
ebrei, omosessuali, nomadi, dissidenti politici l’hanno provato sulla loro
pelle.
Lo ripeto, non si tratta di
"giustificare" il crimine, ma di avere il coraggio di riconoscere che
chi vive ai margini, senza opportunità, è più incline a commettere reati
rispetto a chi invece è integrato. E di non dimenticare quelle forme molto
diffuse d’illegalità che non suscitano uguale allarme sociale perché
"depenalizzate" nelle coscienze di chi le pratica, frutto di un
individualismo insofferente ormai a regole e limiti di sorta.
Infine di fare attenzione a tutti gli
interessi in gioco: la lotta al crimine, quando scivola nella demagogia e nella
semplificazione, in certi territori può trovare sostenitori perfino in
esponenti della criminalità organizzata, che distolgono così l’attenzione delle
forze dell’ordine e continuano più indisturbati nei loro affari.
Vorrei però anche darLe un segno di
speranza. Mi creda, sono tante le persone che ogni giorno, nel
"sociale", nella politica, nella amministrazione delle città, si
sporcano le mani. Tanti i gruppi e le associazioni che con fatica e
determinazione cercano di dimostrare che un’altra sicurezza è possibile. Che
dove si costruisce accoglienza, dove le persone si sentono riconosciute, per
ciò stesso vogliono assumersi doveri e responsabilità, vogliono partecipare da
cittadini alla vita comune.
La legalità, che è necessaria, deve
fondarsi sulla prossimità e sulla giustizia sociale. Chiedere agli altri di
rispettare una legge senza averli messi prima in condizione di diventare
cittadini, è prendere in giro gli altri e noi stessi. E il ventilato proposito
di istituire un "reato d’immigrazione clandestina" nasce proprio da
questo mix di cinismo e ipocrisia: invece di limitare la clandestinità la
aumenterà, aumentando di conseguenza sofferenza, tendenza a delinquere, paure.
Un’ultima cosa vorrei dirLe, cara
signora. Mi auguro che questa foto che La ritrae insieme ai Suoi cari possa
scuotere almeno un po’ le nostre coscienze. Servire a guardarci dentro e
chiederci se davvero questa è la direzione in cui vogliamo andare. Stimolare
quei sentimenti di attenzione, sollecitudine, immedesimazione, che molti
italiani, mi creda - anche per essere stati figli e nipoti di migranti -
continuano a nutrire.
La abbraccio, dovunque Lei sia in
questo momento, con Suo marito e le Sue bambine. E mi permetto di dirLe che lo
faccio anche a nome dei tanti che credono e s’impegnano per un mondo più giusto
e più umano.
Presidente del «Gruppo Abele» e di «Libera - associazioni, nomi e numeri contro
le mafie»
Rispondo inviando a tutti in allegato un
breve testo non scritto da me, ma da un gruppo di giovani Rom che vivono nel
campo di via Germagnano, a Torino.
Sono miei amici, ho trascorso al campo
molte ore, ci siamo raccontati le nostre vite, e alcune cose le abbiamo
scritte.
Ho scelto di spedirvi queste righe perchè
dicono molto più di mille pagine che avrei potuto scrivere su di loro.
Piuttosto che discutere SU qualcuno, credo sia più giusto parlare CON quel
qualcuno, starlo ad ascoltare, riconoscergli il diritto alla parola.
Dunque chiedo a tutti di ascoltare queste
due pagine, e di diffonderle. In allegato trovate anche alcune foto dei giovani
autori del testo.
Io vivo al campo
Torino, 18 giugno 2007
Forse molti gagè
pensano che il campo nomadi, come lo chiamano, sia il solaio di Torino, o il
ripostiglio, e infatti l’hanno messo tra il canile e la discarica, dove si
butta via l’immondizia.
Invece per me è la mia casa, e ve la voglio
descrivere. Innanzitutto devo dire che ci siamo trasferiti qui in via
Germagnano nel 2003, quattro anni fa. Prima vivevamo all’Arrivore. All’Arrivore
si stava meglio che qui, si stava più larghi e c’era più libertà. Il campo era
vicino a una vecchia miniera, che noi chiamavamo la Kula, e che era il simbolo degli zingari di Torino. L’Arrivore era
comodo, ci si arrivava facilmente a piedi e in macchina, ed era nel verde, come
in un parco. Là era tutto molto gagliardo!
Poi ci siamo spostati qui, ed è stato molto triste
perché là eravamo nati e i nostri genitori e i nostri nonni erano invecchiati
là. I miei nonni sono arrivati dalla Bosnia nel
Comunque il giorno del trasloco è stato molto
triste, come dicevo. Ogni famiglia ha caricato le sue cose su un furgoncino e
siamo venuti qui in via Germagnano.
Il campo è composto da 30 case, più alcune
roulotte. La prima cosa che voglio dire è che le case sono troppo piccole: ci
vivono famiglie con molti bambini, e le case all’interno hanno una sola camera
per dormire, cucinare e fare tutto. È pericoloso questo, e infatti d’estate
appena è possibile apriamo degli ombrelloni e spostiamo la cucina fuori,
all’aperto. E poi le case sono tutte troppo attaccate, non c’è spazio tra una e
l’altra. Secondo me dentro dovrebbero esserci almeno tre stanze, e qualche
finestra. Quelli che vivono nelle roulotte comunque stanno peggio, perché
d’inverno fa molto freddo.
Quando siamo arrivati era tutto nuovo, bello e
pulito. Ma adesso è rovinato.
Comunque la vita al campo è molto tranquilla: la
mattina mi alzo, mi lavo e faccio le pulizie di casa, poi al pomeriggio vado a
lavorare, faccio
La domenica spesso si fa la grigliata tutti insieme
e si lavano i vestiti.
Ogni famiglia qui ha degli animali. Noi ad esempio
abbiamo un gallo, 3 galline, 6 pulcini, un coniglio e 2 papere… anzi, adesso
una sola, perché l’altra è scappata.
In casa ho lo stereo e la televisione, che mi piace
molto e la guardo sempre. Poi una cosa importante è l’armadio dei vestiti: da
una parte ho i vestiti da rom, dall’altra quelli da gagè. Quando vado a lavorare come giardiniera o quando devo
incontrare dei gagè mi vesto da gagè, con i pantaloni, i jeans, le magliette.
Quando invece sto al campo mi vergogno a vestirmi così, e allora sto con la
gonna e gli altri vestiti rom. Anche quando il sabato mattina vado con mio
nonno a vendere i vestiti al Balon mi vesto da zingara, perché là è meglio
così, con la gonna.
A me piace lavorare. Da quando ho 11 anni aiuto mio
nonno a vendere, e da quando ne ho 16 faccio la giardiniera. È un mestiere
molto gagliardo!
La cosa che invece proprio non mi piace qui è che
tutto il campo è circondato da una rete, come una prigione. Una settimana fa è
entrato qui un signore che credeva che fosse il canile!
Un altro problema è che ci sono troppi piccioni
morti. Girano vicino alla discarica e poi cadono morti dentro il campo e
portano le malattie.
Per finire c’è ancora una cosa che vi voglio
raccontare: quando viene buio, e scende la notte, qui al campo c’è una sola
luce accesa. È il grande riflettore che c’è proprio in mezzo alle case, alto,
alto, con la luce fortissima. Noi lo chiamiamo “l’Occhio”, e diciamo sempre che
noi qui siamo 30 famiglie, ma lui vede e sa più di tutti noi messi insieme.
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Una Pentax e il bambino
violinista
Cinque
anni fa, entrando a studio la mattina, la scena del furto: finestre spalancate,
freddo cane, l’agognato schermo piatto del computer, la radiolina satellitare,
l’agenda elettronica (porca vacca, tutti i numeri di telefono!), la macchina
fotografica, tutto sparito. Fortuna ci hanno lasciato la colonna del computer.
Vengono i carabinieri per il verbale: “Probabilmente sono rom, ci sono molti
furti nel quartiere. Pure voi però, a stare così, senza inferriate e niente…”
Certo, pure noi.
Rom,
non rom, quel giorno i ladri si sono portati via la mia vecchia Pentax MX 10,
teleobiettivo e grandangolo incluso. Me la ero comprata a diciassette anni con
la paga di tre settimane di fabbrica di cioccolata: lavoro da tempi moderni ai
nastri, dove scorreva incessante l’incubo di migliaia di conigli di pasqua e di
fiumi di tavolette fondenti, al latte, alle nocciole, alle mandorle,
all’uvetta… una nausea che neanche incinta! Nelle pause ho conosciuto le
“operaie” - italiane, spagnole, portoghese, jugoslave… solo la “caporeparto”
era svizzera. E all’uscita c’erano i “controlli”, pene severe previste per i
ladri di cioccolata. Ci tenevo molto alla mia Pentax. È grazie a lei che ho
scoperto la “classe operaia” in patria: donne invisibili altrove, con cui non
riuscivo a parlare, che entravano in fabbrica all’alba e al fischio della
sirena sparivano nel nulla.
I
carabinieri ci dissero: “Probabilmente sono rom”. I rom, per me i roma, un
popolo mitico. Allora esistono ancora, sono sopravissuti a Hitler dietro la
cortina di ferro! Ho cominciato a fare caso a questa gente che, chissà da
quando, era sbarcata a Roma. Prima c’erano i barboni, i mendicanti e le zingare
che ti volevano leggere la mano a Termini. Poi, un anno fa, ho smesso di andare
in motorino, ho iniziato a prendere il tram. Da un anno “i rom” fanno parte
della mia giornata: musicisti che suonano cose più o meno strazianti, donne e
ragazze con bambini piccoli in braccio che chiedono soldi con un biberon vuoto,
un’anziana magrissima vestita tutta di nero e piegata in quattro su un bastone,
un uomo con un assortimento di santi e padri pii in una scatola di cartone… A
turni ben organizzati (la concorrenza uccide il business!) salgono alla
stazione di Trastevere, svolgano il loro numero per cinque fermate e scendono a
Piazza Mastai, cambiano banchina e riprendono il tram in direzione opposta.
E
tra loro, verso ottobre, tra le quattro meno cinque e le quattro, il pomeriggio
ha cominciato a salire sul mio 8 il bambino violinista, forse ha nove anni.
Sale per ultimo, violino in mano, custodia in spalle e rimane discretamente con
la schiena rivolto verso
Mio
figlio vedendo suonare il bambino violinista ha voluto imparare a suonare il
violino: “Così anch’io posso guadagnare dei soldini!”.
Gli
ho trovato un maestro, caso vuole sia un esperto di musica zigana. Quando
incontriamo il bambino violinista insieme, passo gli spicci a mio figlio che mi
dice: “Ancora è più bravo di me!”
In
settimana sono cominciati i “controlli” nei campi abusivi,
È
da mercoledì che non vedo il bambino violinista. Non so come si chiama, non so
se è rom, non so se vive in questi campi. Ma so che nessun computer e nessuna
Pentax valgono il desiderio di suonare che questo bambino ha suscitato a mio
figlio.
Sono
avvilita, devo ancora ringraziare il bambino violinista e non so dov’è sparito!
Roma, 18 maggio 2008
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“Partiamo dalla realtà e smettiamola di fare i poeti.
(Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno,
del Pd,
L’Italia
non ha il problema delle scuole che cadono a pezzi, degli insegnanti poveri ed
esauriti, del bullismo e della droga a scuola
L’Italia
non ha il problema del pessimo rendimento scolastico
L’Italia
non ha il problema dei laureati che trovano lavoro solo nei call center
L’Italia
non ha il problema della fuga dei cervelli
Per
l’Italia non è un problema che le lingue “altre” non si sappiano
L’Italia
non ha il problema della maggioranza che legge meno di un libro all’anno
Partiamo
dalla realtà, smettiamola di fare i poeti!
L’Italia
non ha il problema della giustizia che va lenta,
dei
giudici che non hanno i soldi per fare una fotocopia, dei poliziotti senza
benzina nelle gazzelle
Per
l’Italia gli indagati e condannati in parlamento non sono mica un problema
L’Italia
non ha il problema della mafia
L’Italia
non ha il problema della camorra
In
Italia non c’è alcun problema di spazzatura
Partiamo
dalla realtà ragazzi, l’Italia ha il problema dei rom che rubano,
e
noi dobbiamo smetterla di fare i poeti!
L’Italia
non ha il problema della gente che non arriva a fine mese
L’Italia
non ha il problema del lavoro minorile
L’Italia
non ha il problema degli schiavi nei campi di pomodoro
L’Italia
non ha il problema delle donne che non possono permettersi un figlio
L’Italia
non ha il problema delle donne che non possono decidere se vogliono un figlio
L’Italia
non ha il problema delle donne che guadagnano il 30% in meno degli uomini
L’Italia
non ha il problema delle donne che ricoprono una minima parte dei posti di
decisione
L’Italia
non ha il problema delle donne maltrattate e ammazzate dai mariti e dai
fidanzati
L’Italia
non ha il problema degli incidenti mortali del sabato sera
Gli
italiani non sono maschilisti
Gli
italiani non sono razzisti
In
Italia nessuno è depresso!
Dobbiamo
smetterla di fare i poeti!
19 maggio
2008
Per
completezza allego anche l’articolo con le interessantissime dichiarazioni del
sindaco De
Vincenzo
De
"Smettiamola
di fare i poeti la gran parte dei rom delinque"
Stato
inesistente La rivolta di Ponticelli? I criminali vanno espulsi dall’Italia
NAPOLI - In due anni ha smantellato gli
accampamenti Rom all’esterno dello stadio Arechi, ha cancellato i lavavetri, ha
setacciato le aree occupate dalle prostitute, ha fornito i vigili di
manganelli. Così Vincenzo De
Si sente isolato?
«La drammatizzazione estrema di oggi è causa dei
ritardi di uno Stato inesistente. I cittadini hanno percepito una situazione di
abbandono, di non protezione rispetto alle esigenze elementari. Questa
Parla dei due anni di governo del centrosinistra?
«Negli ultimi due anni c’è stato un aggravamento ma
i comportamenti anche prima non sono stati all’altezza. Anche l’operazione del
poliziotto di quartiere della destra è stata propagandistica e inutile.
Ultracinquantenni che scendevano dalle auto per fare cento metri a piedi e
sedere da qualche parte».
E l’ex ministro Giuliano Amato?
«Con lui c’era la consapevolezza nuova del problema
ma il quadro politico non ha consentito di intervenire per aumentare la
sicurezza nelle città. Uno dei motivi della sconfitta elettorale del
centrosinistra».
Come giudica la rivolta contro i rom di Ponticelli
alla periferia di Napoli?
«Partiamo dalla realtà e smettiamola di fare i
poeti. La maggioranza dei rom delinque. Come vivono? La mia verifica sul
territorio dice che rubano auto, rubano nelle auto, rubano negli appartamenti,
rubano anche i tombini nelle strade periferiche. Oltre, ovviamente, ai reati
più gravi, dalle aggressioni ai tentativi di rapimento. Questi criminali vanno
espulsi dall’Italia».
E i rom onesti?
«I rom che vogliono vivere onestamente devono
entrare nei percorsi di inserimento sociale e scolastico dei propri figli con
(
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Infatti. Smettiamola di fare i poeti
perché Piazza Africa non la vuole più nessuno.
Smettiamola di fare i poeti perché i
bambini rom o zingari che si voglia non devono stare sugli autobus a suonare il
violino o la fisarmonica ma devono andare a scuola e il pomeriggio fare i
compiti e giocare con la play station tre. Smettiamola di fare i poeti perché
l'Europa semplicemente non esiste più in quanto rifiuta gli unici veri europei
quali sono i rom. Smettiamola di fare i poeti perché l'Europa multiculturale
non esiste più in quanti gli unici davvero multiculturali e interculturali sono
i rom. Smettiamola di fare i poeti perché il genocidio dei rom ad opera dei
nazisti, il tristemente famoso "parrajamos" (divoramento) nel quale
perirono "scientificamente" oltre cinquecentomila rom sui
settecentomila che viveano allora in Europa non lo ricorda nessuno. Smettiamola
di fare i poeti perché a Norimberga non era presente neanche un Rom.
Smettiamola di fare i poeti perché nessuno vuole vedere in questi camminatori,
i precursori della società di domani. Smettiamola di fare i poeti perché già
nel 2004 il ministro dell'interno romeno (lo scrivo con la "o" e non
con la "u") Iona Rus aveva dichiarato: « Le bande armate, di zingari
o romeni, i criminali, gli stupratori e i ladri che acquistano armi per
terrorizzare le città devono sparire", stabilendo così la differenza fra
rom e romeni. Smettiamola di fare i poeti perché, secondo il rapporto di
Amnesty International "l'80% dei bambini rom in Ungheria e in Romania
frequentano scuole speciali, cioè per handicappati mentali col pretesto che non
parlano la lingua nazionale".
Smettiamola di fare i poeti perché
l'Unione europea ha ordinato l'abbattimento del muro di Usti nad lebem nella
Repubblica Ceca che separava dal 1999 le palazzine abitate dai rom dagli altre.
Smettiamola di fare i poeti perché il problema rom non è un problema sociale e
economico ma è un problema di persecuzione razziale. Smettiamola di fare i
poeti perché ai rom, ai sinti, ai camminanti non è mai stato accordato
storicamente il nome "diaspora" benché si tratti di
"diaspore". Smettiamola di fare i poeti perché i rom sono vittime dei
diritti dell'uomo e della democrazia.
Smettiamola di fare i poeti perché i rom
che ci fanno capire definitivamente a chi appartiene la città: al capitalismo
selvaggio se non peggio alle camorre e alle mafie. Smettiamola di fare i poeti
perché è in atto da molto tempo una specie di genocidio bianco, democratico,
ordinato del popolo rom e di tutti i popoli con "scarso senso del
possesso" come disse qualcuno.
Smettiamola di fare i poeti altrimenti i
rom, i sinti e i camminanti obbligheranno l'Europa a riflettere sui diritti
delle minoranze. Smettiamola di fare i poeti perché Zingaro viene dal greco
"athiganoi" che vuol dire
semplicemente: intoccabile. Paria. Rom
invece significa "uomo". Smettiamola allora di fare i poeti fino al
momento in cui quando diciamo rom non pensiamo zingaro.
Scrittore
algerino
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Piazza Africa
Come le persone anche i luoghi raggiungono
una loro felicità
e quella piazza dimenticata e sconnessa
esprimeva la pace dei tempi che non tornano
Ennio Flaiano – Tempo di uccidere
Tutto era
iniziato per caso un caldo pomeriggio di maggio. Come ogni sabato mattina,
Idrissa, Saar e Mohammed si erano incontrati davanti al call center “Call
Tyrone” e avevano iniziato a discutere animatamente su chi fosse il venditore
migliore. “Io sono così bravo che potrei vendere gelati agli eschimesi!”
esclamò Idrissa. “I miei cd sono così uguali agli originali che un giorno,
quando lavoravo sul lungomare a Rimini, si è fermato Nek in persona a farmi i
complimenti!” aveva replicato Saar, suscitando le risate di compassione dei due
amici. “Beh, sapete cosa vi dico – sobbalzò Mohammed – mi sono stancato dei
vostri discorsi. Sono mesi che ci ritroviamo qui il sabato pomeriggio a
raccontarci che venditori fenomenali siamo, ma intanto rimaniamo seduti su
questo muretto, senza un euro e con la lingua gonfia di cazzate. Perché, se
siamo tutti così bravi, nessuno di noi è ancora riuscito a fare i soldi? Beh,
io dico, è ora di cambiare registro. Vi ho sempre detto che a Agadir ero uno
dei migliori commercianti del mio quartiere, no? Beh, adesso vi dimostrerò che
non racconto balle, io” e così dicendo si alzò e se ne andò, lasciando i due
amici a guardarsi a vicenda, rapiti da un sentimento di incredulità e
indifferenza nei suoi confronti.
Saar e Idrissa rimasero seduti fuori dal
“Call Tyrone” a fare il rendiconto dei fatti salienti della settimana finché,
alcune ore più tardi, la Passat nera station wagon di Moulay, il fratello di
Mohammed, comparve nella piazza e parcheggiò proprio davanti a loro. Mohammed
uscì dall’auto seguito a vista dagli occhi stupefatti degli amici rimasti di
stucco, in silenzio, e si diresse verso il bagagliaio. Lo aprì e immediatamente
dal suo interno si propagò un profumo di spezie, mais e carne di montone che
pervase tutta l’aria circostante. Idrissa e Saar si alzarono per andare a
controllare cosa stesse succedendo e videro che il bagagliaio dell’auto di
Mohammed era stracolmo di spiedini fumanti, pannocchie bollite calde, cous cous
alle verdure e dolci al miele.
“E
questo cosa significa?” domandò esterrefatto Saar.
“Il
tempo delle parole è finito, amici miei. Da oggi in poi vi farò vedere io cosa
significa vendere!” rispose Mohammed, sedendosi sul bordo del bagagliaio e
accendendosi una sigaretta. E infatti non passò molto tempo prima che i profumi
provenienti dalla sua auto cominciassero ad attirare l’attenzione degli habitué
della piazza, i quali, protagonisti fin dalle prime ore del mattino della
kermesse alcolica del sabato, cominciavano ad accusare fastidiosi gorgoglii
intestinali da fame chimica.
Quel
pomeriggio, la sfida ludica ai propri amici si trasformò in un successo
commerciale per Mohammed, che vendette in poche ore tutto il cibo che aveva
preparato. Questo inaspettato trionfo non solo suscitò l’invidia di Saar e
Idrissa, ma innestò un processo emulativo tra i presenti che avevano assistito
alla scena, che avrebbe cambiato il volto di Piazza Torino. Bastarono poche
settimane infatti perché il parcheggio di Piazza Torino si trasformasse dal
venerdì pomeriggio al sabato sera in un mercato gastronomico africano a cielo
aperto, composto da utilitarie, familiari, fiorini, furgoncini e camioncini,
ognuno con la proprie specialità esposte in bella mostra nel retro. Dai
bagagliai spuntavano tutti i tipi di pietanze. Ce n’era veramente per tutti i
gusti: uova sode, salsicce piccanti, pollo alle verdure, riso con fagioli,
patate fritte, frutta fresca... E c’erano anche le macchine dei più giovani,
ventenni dallo sguardo truce nascosto dietro occhiali neri come il fondo del
mare, vestiti con pantaloni larghi, maglie da football sgargianti e cappellini
con visiere storte, che parcheggiavano le auto solo per sparare a tutto volume
le ultime novità dal mondo hip hop scaricate in settimana su Emule.
L’unica
legge non scritta alla quale tutti avevano senza bisogno di consultazioni
obbedito fin da subito, era che in questo nuovo mercato si poteva vendere solo
e soltanto cibo. Niente oggettistica, vestiti e soprattutto niente bevande, né
analcoliche, né alcoliche. Questo perché nessuno voleva fare le scarpe ai
fratelli che già avevano le loro attività commerciali sulla piazza. A Piazza
Torino c’erano l’“All Liberian”, l’African shop di Charles (che vendeva
ricariche per telefonini, crema per le mani, patate dolci, estensioni per
capelli, ma soprattutto era l’unica rivendita di birra della piazza), la
macelleria islamica “Touareg” di Samir, il call center “Call Tyrone” di Dipesh,
ma nessun ristorante, fast food, né rivendite di pizza al taglio o kebab.
Insomma, niente cibo pronto per placare gli appetiti di chi si ritrovava in
piazza per scambiare quattro chiacchiere e magari bere qualche bottiglia di
birra acquistata da Charles. I cuochi-piloti del parcheggio avevano così
semplicemente colmato una palese mancanza di servizi ai cittadini, rendendo la
piazza un punto di ristoro accogliente ed economico.
Ma
il mercatino che aveva fatto la felicità dei frequentatori della piazza non era
visto di buon occhio da tutti. Questo carosello di ristoratori ambulanti
africani aveva finito per sollevare le rimostranze dei negozianti delle vie
adiacenti a Piazza Torino (o, come essi l’avevano sprezzantemente ribattezzata,
“Piazza Africa”), i quali avevano avanzato alle autorità competenti lamentele
ufficiali sui “rumori e odori molesti” provenienti da auto di
“extracomunitari”, “parcheggiate irregolarmente”, e avevano denunciato un
“preoccupante calo” nelle loro entrate mensili. Indignato dal “vergognoso
spettacolo” di quel mercato nero, un gruppo di inquilini locali aveva
addirittura formato un comitato, il “Comitato Piazza Pulita”, un nome dal suono
sinistro, che evocava epoche torve, di croci infuocate e cappucci triangolari,
e che ben presto divenne noto sulle pagine di cronaca dei giornali locali con
l’acronimo “CPP”. Il comitato era composto da “commercianti onesti”, da
“lavoratori che pagano le tasse” e da “simpatizzanti” che protestavano contro
quello “scempio”, quel “mercato “indecente” che – così affermava un comunicato
ufficiale del Comitato – “sottraeva loro potenziali clienti” e che, dal momento
in cui si era instaurato, “aveva degradato in modo considerevole le condizioni
socio-sanitarie della piazza”.
Nagib osservava divertito, in silenzio, le
vicende che stavano recentemente scuotendo la tradizionale calma di Piazza
Torino. Passava ore intere seduto su una sedia di fronte all’entrata della sua
piccola abitazione, un monolocale al pian terreno di un palazzone costruito
negli anni della speculazione edilizia, e che era stato abitato per quasi
quarant’anni dal portiere del residence, Franco, un pugliese emigrato al Nord
poco dopo
Nagib
era un tipo piuttosto schivo. Ma non perché fosse timido, asociale o scontroso.
In realtà era un uomo molto impegnato. Il suo passatempo preferito era nutrire
la sua passione profonda per l’hashish, una passione che lo aveva avvolto fin
dalla giovane età, quando ancora era uno studente di matematica all’università
de Il Cairo, e che da allora in poi aveva continuato a coltivare con ammirevole
impegno e dedizione.
In
altre parole, Nagib era solito dedicarsi al suo hobby ogni giorno dopo che era
ritornato dal lavoro e aveva dormito un paio di ore per riprendersi dai
massacranti turni che la sua professione, panettiere, gli imponeva. Di solito,
dopo essersi svegliato dal suo pisolino pomeridiano, si girava subito una
canna. Così capitava spesso che dalle quattro del pomeriggio in poi vivesse in
uno splendido stato di ebbrezza controllata dei sensi.
Un
giorno Hicham, suo cugino, era andato a casa sua per chiedergli del sale. Nagib
lo aveva invitato ad entrare, gli aveva dato il sale, come da costume della sua
famiglia gli aveva offerto del tè e, come da suo costume, gli aveva passato lo
spinello che stava fumando. “No, grazie” aveva risposto Hicham “lo sai che non
fumo. Berrò il tè, e appena avrò finito tornerò dalla mamma e le porterò il
sale. Ti ringrazierà per la tua gentilezza”. “Va bene, come preferisci” aveva
replicato Nagib, ritirando verso la sua bocca lo spinello che aveva inutilmente
allungato verso Hicham e aspirando una robusta boccata.
Mentre
era seduto sul divano a bere il tè, Hicham aveva visto il cugino cucinarsi una
frittata in maniera a dir poco “originale”. Con la mente probabilmente
impegnata altrove, Nagib aveva per sei volte rotto l’uovo, e per sei volte
consecutive aveva gettato tuorlo e albume nel cestino della spazzatura e
appoggiato i gusci rotti nella padella. Dopodiché, scusatosi con Hicham, si era
diretto verso il bagno lasciando le schegge dei gusci a sfrigolare nell’olio
bollente. Questa è la versione della storia secondo Hicham. Ma non c’è ragione
per non credergli. Bush, il gatto di Nagib che nelle giornate più calde era
solito sonnecchiare nel lavabo, aveva osservato distrattamente la scena disteso
nel suo refrigerante santuario.
A
difesa di Nagib va detto però che l’hashish non era il suo unico svago: egli
aveva anche un’altra abitudine che i ragazzi della piazza giudicavano
quantomeno “originale” (un eufemismo che utilizzavano per non offendere Nagib,
mentre dentro di loro pensavano fosse l’innocua ossessione di uno che si era
fumato il cervello). Il secondo hobby di Nagib era quello di scattare ogni
giorno alla stessa ora una fotografia dello stesso angolo della piazza di
fronte a casa sua. Quando, per inderogabili cause di forza maggiore, era
costretto ad assentarsi per un giorno dalla piazza, dalla sua sedia sul
marciapiede e dalla sua macchina fotografica, incaricava il suo vice-fotografo,
il vicino di casa Mihai, di scattarla per lui all’ora prestabilita. In
eventuale assenza di Mihai – decisamente il sostituto più affidabile per quel
compito delicato – il prescelto era Charles.
Nagib
quindi raccoglieva tutte le fotografie in album annuali, ognuno dei quali
ospitava il ritratto dello stesso scorcio di città alla stessa ora.
Aveva
preso l’abitudine di scattare queste foto a Il Cairo, in maniera del tutto
casuale. Un giorno mentre ritornava dall’università, e dopo essersi fermato
lungo il cammino di ritorno al bar del vecchio Oumar a bere del tè e fumare un
paio di pipe, era stato colto d’improvviso da una voglia incontenibile di
andare in un videoshop per noleggiare un dvd. Uscito dal bar del vecchio Oumar,
Nagib si sentiva ebbro al punto giusto, cioè a quel livello nel quale il
fumatore si posiziona comodo ad una adeguata distanza dalla realtà, e grazie a ciò
può permettersi di girovagare per un Blockbuster o per un centro commerciale
senza cadere in depressione. Forte di questa sensazione di invulnerabilità, era
entrato nella prima videoteca che aveva incontrato lungo la strada di ritorno a
casa. Camminando tra gli scaffali era stato richiamato, come un marinaio
attratto dal canto delle sirene, da un film il cui titolo sembrava studiato
appositamente per attirare i potenziali clienti sopraffatti dall’hashish che,
alla pari di Nagib, si avventuravano estemporaneamente tra i corridoi della
videoteca. La pellicola aveva un titolo quintessenziale: “Smoke”. Nagib l’aveva
noleggiato un sabato sera e se l’era visto tutto d’un fiato la mattina
seguente, non prima però di aver mangiato golosamente una ricca colazione a
base di caffè e uova strapazzate con formaggio, ed essersi fumato uno spinello.
La pellicola non lo soddisfò completamente, ma fu in essa che egli vide per la
prima volta un uomo scattare fotografie allo stesso angolo di strada, ogni
giorno e alla stessa ora. Quella storia gli piacque così tanto che decise che
da quel giorno avrebbe fatto altrettanto. E così fece. Anzi, fece anche di più.
Non solo iniziò a fotografare ogni sera alle otto in punto la strada che faceva
angolo con la lavanderia di fronte a casa sua, nella parte vecchia del Cairo:
si portò dietro questa “originale” abitudine in tutte le città in cui visse
dopo che, nel 1995, lasciò il suo paese per andare a cercare fortuna in Europa.
Così da allora aveva già collezionato undici album, e tutti ritraevano uno
specifico angolo di fronte alle abitazioni dove Nagib aveva risieduto nella sua
nuova veste di migrante in terra europea. Tre album ritraevano la vetrina di
una ferramenta di Marsiglia alle cinque del pomeriggio da aprile
Gli
abitanti e i frequentatori regolari di Piazza Africa ormai conoscevano le
abitudini “originali” di Nagib e nessuno di loro ci faceva quasi più caso
quando, verso le cinque e mezza in punto, abbandonava la sua amata sedia,
rientrava in casa per uscirvi dopo una ventina di minuti (i più maliziosi
sostenevano “dopo essersi fumato una canna”), posizionava il cavalletto e la
macchina fotografica e, alle diciotto spaccate, effettuava il suo scatto
quotidiano.
A
volte succedeva che qualche cliente occasionale della macelleria si accorgesse
di venire fotografato da quello sconosciuto ed iniziasse ad imprecare contro di
lui, nel timore che Nagib fosse uno sbirro o, ancor peggio, un collaboratore.
Era anche successo che i più focosi avessero addirittura cercato di avventarsi
contro di lui con l’intenzione di aggredirlo, strappargli la macchina
fotografica e distruggere il rullino. Ma, per fortuna di Nagib, le poche volte
che facinorosi di questo genere avevano minacciato di assalirlo, erano sempre
stati fermati dai ragazzi della piazza che, con le buone, li avevano
tranquillizzati, raccontando loro che quello non era un poliziotto, né un loro
mercenario, ma solo un tizio “originale”, un po’ fumato, che non faceva del
male a nessuno. Quando queste argomentazioni non bastavano per calmare i più
agitati, i ragazzi del quartiere cercavano di spiegare loro che se veramente
Nagib fosse stato uno sbirro o un infame, di certo non si sarebbe messo a
scattare foto davanti a tutti dal marciapiede, ma l’avrebbe molto probabilmente
fatto di nascosto. Quando anche questo non era sufficiente per placare i loro
animi, allora iniziavano a volare gli schiaffoni, e il malcapitato se ne andava
ancora più infuriato, imprecando, coperto di lividi. Il tutto mentre Nagib rimetteva
tranquillamente la macchina fotografica nella sua custodia, ripiegava il
cavalletto e rientrava in casa. I ragazzi della piazza erano perciò in un certo
senso il suo servizio di sicurezza personale. Lo facevano perché, in fin dei
conti, Nagib non aveva mai fatto male a nessuno, anzi. Le rare volte che veniva
interrogato dai ragazzi su un qualche argomento rilevante all’interno di una
delle loro interminabili discussioni tardopomeridiane, o quando gli veniva
chiesto un favore, era sempre disponibile e gentile con tutti.
Ma
quelli che coinvolgevano Nagib non erano gli unici incidenti legati al furto di
immagine accaduti nella piazza.
Molte volte, quando Abbas e Alì si sedevano
fuori casa dopo cena per bere il tè e a discutere dei fatti del giorno, incominciava
a radunarsi attorno a loro una piccola folla di curiosi. La maggior parte erano
ragazzini del quartiere che conoscevano le loro abitudini e, attirati dal
talento narrativo di Alì, aspettavano impazienti il momento in cui i due
sarebbero arrivati, per sedersi in semicerchio attorno a loro e chiedere ad Alì
di raccontare loro le sue storie. Tra i ragazzini più giovani facevano spesso
capolino anche donne in cerca di riposo dopo una dura giornata di lavoro, gli
amici più cari e amici di amici, in città di passaggio. Samir si univa al
manipolo di ascoltatori solo raramente. Charles era sempre troppo impegnato.
Dipesh non si era mai visto.
Alì
era un maestro nel raccontare storie. Come quella del suo amico Abu, che quando
era ragazzo era un giocatore di calcio fantastico, un vero fuoriclasse. Quando
era sobrio. I giorni delle partite i suoi compagni di squadra dovevano andarlo
a prendere a casa al mattino prestissimo, prima che iniziasse ad attaccarsi
alla bottiglia. Un ritardo di solo qualche minuto e la loro stella sarebbe
stata indisponibile per la partita e per il giorno intero.
Una
delle storie che i ragazzi più giovani preferivano ascoltare era quella dei
“turisti per caso” che volevano vedere da vicino e fotografare “un vero
cantastorie africano in azione”. Alì raccontava che era accaduto solo due volte
che dei toubab (bianchi) avessero
cercato di fotografarlo mentre narrava le sue avventure. La prima volta che
questo accadde, in un paesino sulla costa del Benin, il turista domandò se
poteva immortalare “il primo griot
che avesse mai visto in vita sua”. Dopo aver ricevuto un cortese “no” e uno
sguardo freddo come l’inverno come risposta, questi si ritirò deluso, ma
composto, sulla sua sedia. La seconda volta, a Dakar, un audace cacciatore di
immagini non ebbe il buonsenso di chiedere il permesso ad Alì, e gli fece
scattare il flash in faccia mentre stava parlando, senza nessun preavviso. In
pochi secondi l’imprudente turista vide la sua nuova macchina digitale
frantumarsi in mille pezzi sul marciapiede, come un biscotto sotto gli zoccoli
di un bufalo, e dovette suo malgrado prendere la strada di ritorno all’hotel,
verso il quale si diresse sproloquiando in francese, accompagnato dalle sonore
risate dei bambini, che salivano fino alle nuvole.
Ai
presenti che ridevano a crepapelle ascoltando la storia del francese e della
sua videocamera ridotta in briciole, Alì raccontò che ogni volta che una
persona produce una risata fa nascere un piccolo koitombè, un folletto che sale in cielo, e i folletti che ora stavano
uscendo dalle bocche divertite dei bambini seduti attorno a lui in Piazza
Africa, avrebbero sicuramente incontrato in cielo i folletti dei bambini di
Dakar. E tutti assieme si sarebbero fatti un ennesima grassa risata
all’indirizzo dell’arrogante turista francese, “Ah ah ah ah ah ah!!!”
“Il
vento che accarezza le nostre orecchie in primavera – aggiunse Alì – non è
altro che il coro delle voci di tutti i koitombè
creati dai bambini che ridono”.
Alì
era della Sierra Leone, almeno così diceva, dal momento che, come
orgogliosamente dichiarava, non aveva mai posseduto un documento in vita sua.
“Non ho bisogno di quella carta straccia, io!”, usava tuonare contro tutti
quelli che avevano la malaugurata idea di chiedergli come potesse vivere senza
documenti. “Non mi porterò mai e poi mai quei fogliacci addosso. Quella è merda
per toubab. Io so chi sono, so chi è
mio padre, chi era suo padre e il padre di suo padre. Questa è l’unico
passaporto di cui un africano ha bisogno!!!” Solitamente, dopo quella spiegazione,
la conversazione terminava e i presenti erano soliti abbassare leggermente gli
occhi, sporgere leggermente il labbro inferiore su quello superiore e in
silenzio annuire mestamente con il capo.
Nonostante
questo suo rifiuto nei confronti dell’ingombrante burocrazia cartacea creata
dai toubab, Alì aveva vissuto in
quasi tutti i paesi dell’Africa e in diversi paesi d’Europa. Non che questa sua
abitudine non gli avesse procurato problemi in passato. Infatti raccontava che
una volta era stato fermato da un paio di poliziotti ivoriani in cerca di
denaro facile e, non avendo niente in tasca né per loro né per se, era stato
arrestato e trattenuto in una cella di pochi metri quadri assieme ad altri
tredici disgraziati per una decina di giorni.
Alì
passava intere serate bevendo tè con gli amici della piazza, raccontandosi gli
uni con gli altri storie che appartenevano al loro passato, progetti per il
futuro, e ogni qual volta qualcuno nominava un nuovo paese africano e gli
chiedeva se ci fosse andato, tutti già conoscevano la risposta, che era sempre
la stessa: “Si. è un paese con persone di buona volontà e cariche di fede.
Dovresti andarci prima o poi. Quella gente ha tante cose da insegnarti e tante
storie da raccontare”. A sentire Alì tutti i paesi africani erano così: luoghi
pieni di magia e saggezza. Non che gli amici non gli credessero. Ma alla
maggior parte dei ragazzi della piazza, in quella fase della loro vita, non
passava nemmeno per l’anticamera del cervello di ritornare in Africa per andare
in cerca delle bellezze dimenticate del loro continente. Tutti, o quasi,
avevano una ed una sola idea fissa: rimanere in Europa. Spagna, Italia,
Francia, Germania, non faceva alcuna differenza. L’unico obiettivo che avevano
in testa era quello di mettere via soldi lavorando in quel continente così
bello, ricco, pulito, felice, razzista, sfruttatore e ipocrita, dopodiché
avrebbero avuto l’opportunità di ritornare in Africa con il portafoglio pieno,
costruire una casa lussuosa per sé e per la propria madre, guidare una macchina
tedesca di grossa cilindrata, e dimostrare così agli amici d’infanzia che
avevano vinto la loro scommessa con la vita.
Quando
sentiva parlare di certi argomenti Alì rimaneva impassibile. Nessuno gli ha mai
sentito pronunciare una parola di dissuasione nei confronti dei progetti dei
suoi fratelli della piazza. Ma nemmeno di incoraggiamento. Semplicemente
soprassedeva, o magari cambiava discorso iniziando a raccontare di quella volta
in cui, in Libia… in Angola… in Togo…
Nonostante
questa apparente indifferenza di Alì nei confronti della smisurata passione che
i suoi fratelli nutrivano per l’Europa, tutti sapevano che in realtà egli
disapprovava la loro scelta di affidare le proprie sorti nelle mani di quel
continente dal quale egli proprio non riusciva ad essere attratto. Non
manifestò mai apertamente a nessuno le preoccupazioni che turbavano i suoi
sonni, Men che meno le manifestava a coloro che, delusi dall’esperienza
italiana, si confidavano con lui e a lui si rivolgevano per qualche ultimo consiglio
prima di partire per un altro paese europeo, per intraprendere un’altra tappa
del “grande viaggio”. Ma tutti sapevano che soffriva per loro.
Una
volta, senza che lui se ne accorgesse, Serign gli aveva sentito chiudere la sua
sessione serale di preghiere recitando lamenti in memoria dei fratelli morti,
scomparsi, uccisi, nel tentativo di lasciare la loro terra madre per cercare la
felicità in quella che lui, in quegli strazianti canti, chiamava “la terra
dell’inganno”. I versi struggenti di quel canto lasciarono una traccia
indelebile nella memoria di Serign che ancora, a distanza di anni, si commuove
a ricordarli.
In
realtà nessuno sapeva perché Alì continuasse a vivere in Italia, un paese per
il quale non aveva mai speso una sola parola di elogio. C’era anche chi, come
Rasheed, un giovane molto rispettato tra i coetanei, leader di una crew del quartiere chiamata “The
Soulution”, criticava apertamente l’“africanismo snob” di Alì, chiedendogli
come pretendesse di sapere tutto della vita se non era mai stato negli Stati
Uniti, nel Queens, nel Bronx, a Compton. Ma ad Alì le critiche di Rasheed non
interessavano più di tanto. Più viveva lontano da casa e più si convinceva che
tutto quello che l’uomo deve imparare nella sua esistenza, lo può trovare in
Africa. I suoi occhi si illuminavano solo quando parlava dell’Africa.
Probabilmente dentro di sé sognava ogni giorno di tornarci. Per andare a
Compton c’era sempre tempo.
Anche prima della brillante intuizione di
Mohammed, i sabato pomeriggio in Piazza Africa (“già Piazza Torino”) erano
piuttosto movimentati, grazie alla presenza dei nigeriani che, rifornendosi fin
dal primo pomeriggio al negozio di Charles, facevano schizzare alle stelle i
valori etilici medi del quartiere e iniziavano spesso feste improvvisate che
duravano fino alle luci dell’alba del giorno seguente. A volte, nel bel mezzo
di discussioni animate che si protraevano per ore, capitava che alcuni si
staccassero dal gruppo e si disponessero all’improvviso in semicerchio. Quando
ciò accadeva, immediatamente uno dei transfughi si sistemava in mezzo alla
mezzaluna e cominciava ad intonare il ritornello che significava una e una sola
cosa: Streetstrip!
Go on! go on! Drink
enormously!
I ain’t bit ashamed
– drink outrageously!
Go on! go on! eat
prodigiously
I drank good beer –
eat ferociously!
Go on! go on! dance
unceasingly!
I eat good chicken –
now undress yaself!
Go on! go on!
Un
canto al quale i presenti rispondevano “GO ON! GO ON!”
…e
cominciavano a volar via i vestiti!
Lo
steetstrip era uno spogliarello di strada eseguito a ritmo di hip hop, che
negli ultimi anni stava diventando una forma d’arte popolare molto diffusa nei
ghetti di Lagos. Ma non c’era lussuria o volgarità nelle svestizioni
improvvisate in mezzo alla piazza, solamente pura voglia di stare insieme e di
divertirsi, di liberarsi dalle pesantezze, lasciando cadere alle proprie spalle
le fatiche fisiche e mentali della vita quotidiana. C’è chi nel weekend allevia
le proprie ansie andando a caccia di platani guidando a folle velocità automobili
ubriache e chi si riunisce nell’appartamento dei signori Zanon per una
“riunione straordinaria” del CPP. I nigeriani si ritrovano in Piazza Africa,
bevono, ballano, cantano … e si spogliano.
I partecipanti allo streetstrip si disponevano in cerchio attorno allo streetstripper di turno e accompagnavano
lo svestimento, oltre che con il famoso ritornello “Go on! go on! Drink enormously!...”, con canti e balli. Mentre gli
uomini battevano le mani e il piede sinistro a terra e le donne li
accompagnavano intonando gli ululati di gioia tradizionali del loro popolo,
c’era sempre qualcuno che correva a casa a prendere uno djembe per accompagnare
i canti e gli ululati con le percussioni. Quando era il turno delle donne e
degli uomini più on fire a guadagnare
il centro dello street stage, e si
incominciavano a vedere sventolare reggiseni, perizomi e boxer, anche i
non-nigeriani iniziavano ad avvicinarsi a quella folla gioiosa. Anche per chi
non parlava l’inglese dei nigeriani non era difficile inserirsi e unirsi al
coro. In fondo i passi di danza e gli ululati erano molto facili da imparare,
ed il canto propiziatorio pure. Anche se nelle bocche dei non-nigeriani il
ritornello si trasformava in un maccheronico “go o go o, dì che no, mo’ si…”, cantarlo era ugualmente funzionale
all’obiettivo. Inoltre gli alti livelli etilici della piazza non invitavano
certo i presenti a cimentarsi in dotte disquisizioni linguistiche.
Quando
l’ambiente si cominciava a scaldare sul serio, entravano in scena i pesi
massimi. Allorché giungeva questo momento tutti aspettavano che entrasse in
scena Laura (che nella pronuncia nigeriana assomiglia molto all’italiano
“L’ora”), una vera e propria leggenda metropolitana vivente underground, che, come tutti i
personaggi eroici, era conosciuta in Piazza Africa con numerosi soprannomi:
“The Mistress of Love”, “The Ghetto Queen” “Foxy Lady”, “Foxy Brown”, “The
Round Mount from Uptown”. Laura era una ragazza di Abuja non molto alta ma
formosa, sulla trentina, scarpe da ginnastica Adidas Run Dmc perennemente ai
piedi e capelli afro alla
Ma
immergersi nel mercato voleva dire innanzitutto concedersi abluzioni a
intervalli regolari in un fiume di birra. Non che la cosa cogliesse Laura di
sorpresa. Anzi, la sobria, efficiente, seria professionista dei giorni
lavorativi, il venerdì sera si trasformava in una micidiale macchina da
sbornie, un campione di bevute al quale pochi nel quartiere tenevano testa
quando arrivava il momento di trangugiare birra. E quando l’atmosfera si
surriscaldava Laura, pur non perdendo mai coscienza, adorava scendere
nell’arena e dare un saggio di streetstrip
d’alta scuola.
Le
sessioni di streetstrip del venerdì
sera presentavano un unico rischio, che Laura sapeva di dover correre: quello di
incontrare sulla strada del ritorno il sabato mattina Mama Dorothy, una delle
donne anziane della chiesa, che abitava nel suo palazzo. Il rispetto per gli
anziani era una delle altre cose che Laura aveva portato con sé da casa, visto
che si era subito accorta che nel suo nuovo paese d’ “accoglienza” le cose non
andavano proprio così. L’Italia – pensava sconsolata dentro di se – è il paese
con i giovani più coccolati e gli anziani più abbandonati.
In
ogni caso, non poteva permettersi di incrociare Mama Dorothy e farle capire che
era stata fuori di casa tutta la notte, e per di più a ballare in strada mezza
nuda e brilla, lei, giovane e nubile donna timorata di Dio. Ma Laura aveva
ovviato a questo problema uscendo di casa il venerdì con una copia del Vangelo
in borsa, in modo che, se lungo la strada di ritorno verso casa, il sabato,
avesse malauguratamente dovuto incontrare Mama Dorothy, lo avrebbe stretto
devotamente al petto e le avrebbe detto che stava andando in Chiesa per una
seduta mattutina supplementare di preghiera. Quando ciò accadeva, tra Laura e
Mama Dorothy aveva luogo un breve scambio di battute, che si concludeva con la
solita formula di benedizione e augurio dal parte dell’anziana: “Che Dio ti
benedica, figlia mia. Ti auguro una buona giornata”. In realtà Mama Dorothy
sapeva benissimo che quella sua figlia che si nascondeva dietro enormi occhiali
neri fascianti e un alito che non profumava esattamente di mughetto, non era
diretta alla chiesa. Ma ne apprezzava l’acume e la buona educazione, e perciò
fingeva di crederle.
Assieme all’atletico Simon, un idolo delle
signore che frequentavano gli streetstrip
parties, Laura era una delle star più attese.
Secondo Saar, durante l’ultima inebriante
performance di Laura, il vecchio Salaam era tra i più agitati. Abbas giurava
addirittura di avergli visto saltar via la dentiera nelle foga del momento, di
averlo visto prenderla da terra e, sulle ali di un eccitazione impetuosa,
incastrarla in tutta furia sulle gengive stoppose in tempo per poter farfugliare
uno sputacchioso “Go o! Go o!” in
direzione di Laura. Ma, piegatosi a terra per raccogliere la dentiera, il
vecchio Salaam aveva perso il momento in cui Laura si era girata nella sua
direzione agitando in aria il reggiseno. Nel momento in cui riuscì a rialzarsi,
la regina dello stripstreet se lo
stava già riallacciando. Abbas giura di aver visto imprecare il vecchio Salaam
mentre si rivolgeva al suo amico Kadim, che invece aveva visto tutto, e si
gongolava.
L’unico problema, quando si scatenavano le
sessioni di streetstrip, era l’arrivo
della polizia (spesso avvertita da membri zelanti del CPP). La prima retata
della polizia aveva colto gli streetstrippers
totalmente alla sprovvista, e si era conclusa con il fermo di cinque
partecipanti. Di tre di loro non si seppe più nulla.
Per
evitare in futuro questo tipo di problemi, all’inizio di ogni streetstrip gli uomini più influenti del
quartiere (che i più giovani chiamavano “i califfi”) come Simon, Thomas e Jamal
avevano preso la buona abitudine di scegliere sei tra i ragazzetti più giovani
presenti in quel momento nella piazza, dar loro delle trombe da stadio, e
spedirne tre alle imboccature delle tre vie che portavano alla piazza, e altri
tre a metà delle stesse vie. Le trombe, che i califfi chiamavano “vuvusela”,
servivano per segnalare l’avvistamento di volanti o di poliziotti in borghese,
che sarebbe stato così annunciato con buon anticipo alla folla di ballerini
disinibiti.
Quando,
ai primi segnali di streetstrip, i
califfi cominciavano a serpeggiare tra la gente per selezionare i ragazzini
presenti, questi cominciavano a scambiarsi occhiate di fuoco. Nessuno di loro
in fin dei conti voleva giocare la partita nel ruolo sgradito di “palo”.
Chiunque avrebbe preferito rimanere nel semicerchio e gustarsi lo spettacolo
delle loro sorelle più grandi che si denudavano ballando. Ma sapevano anche che
l’età era un tema che non lasciava spazio a negoziazioni. Era il loro cursus honorum, e avrebbero aspettato il
loro momento per far parte del semicerchio.
Dipesh era il titolare del call center “Call
Tyrone”. Lo aveva chiamato così in onore della cantante preferita di sua
figlia, Erykah Badu. Con malcelata insofferenza assisteva a tutte queste scene
dal proprio negozio, situato proprio nel centro esatto della piazza,. Dipesh
era arrivato direttamente in Italia da Bangalore nel 1994 per raggiungere il
fratello. Non era mai stato in Africa.
Jaime era uno della vecchia scuola. Uno di
poche parole, che usciva di casa molto di rado. Un comunista di ferro, di
quelli che non arrugginiscono, fuggito dal Cile nel 1973, pochi giorni dopo il
tragico 11 settembre in cui il suo paese aveva subito l’attacco terrorista che
rovesciò Allende.
Da
allora aveva sempre nostalgicamente vissuto in Italia. Ogni tanto, mentre dal
terrazzino di casa sua osservava la vita che animava la piazza, i cerchi di
bambini attorno ad Alì, gli scatti pomeridiani di Nagib, gli incontri casuali
tra Mama Dorothy e Laura, rimuginava tra sé e sé: “Proprio bella l’Africa. Mi
sa che un giorno prima o poi dovrò proprio andarci…”.
natalia molebatsi & raphael d’abdon ©
racconto in corso di
pubblicazione in: Migrazioni e
paesaggi urbani,
Ellen, 19 anni, zingara,
due figli.
Paonazza dal freddo dei campi, ingessata dalla
polvere spessa.
È arrivata dalla Romania alla ricerca di uno
straccio di felicità.
In quella
Con Dolce e Gabbana spiaccicati sui muri.
Con orde di modelle che battono le strade.
Con i calciatori a fare i padroni del mondo.
Con i pargoli delle buone famiglie col manico di
scopa sul culo.
Per manovrare montagne di denaro virtuale.
Inesorabilmente invecchiati.
Schifosamente truccati.
Senza pietà.
Pronti ad azzannare per un soldo di visibilità.
Con i figli della grande storia operaia
irrimediabilmente corrotti.
Contaminati fino al midollo.
Consumati dall’invidia fino nel fondo dell’anima.
Tutt’impegnati in una vita d’emulazione perversa
del niente.
Insomma, in una
Satura di simboli del potere prepotente.
Il SUV, Saint Moritz, le
Maldive, l’happy hour, l’Hollywood, la coca.
Certo, la coca.
E le puttane.
Si, pure quelle.
Un attimo d’amore pagato, è quello che rimane.
Ma anche da questa
Ellen, 19 anni, zingara, due figli.
Ellen, gettata.
Ellen, cacciata.
Ellen, che puzza come fosse monnezza.
Ellen, spedita ad Opera in mezzo a discariche di
uomini e merda.
Insieme ad altri zingari venuti dall’est.
Con le loro figliate che sembran conigli.
Con i loro stracci.
Con le loro facce sporche.
Con i loro strani strumenti musicali.
Estranei.
Scarti di uomini in cerca di scarti di felicità.
Tra gli scarti di altri uomini.
A rovistare tra la merda per trovare un angolo per
campare.
In disparte, s’intende. Non certo sotto i
riflettori.
Sei mai stato, poeta, all’aperto una notte col
freddo che ti taglia la faccia?
Dimmi, ci sei mai stato?
Provaci! E poi mi dirai.
Se poi ci stai per giorni, mesi, anni...per una
vita, vedrai se ti va ancora di fare il poeta.
Se hai la forza di scrivere versi.
Vedrai se non desideri la morte.
Vedrai se non dici anche tu: ora basta.
Andate affanculo!
Lasciatemi in pace.
Non ce la faccio più: io voglio solo morire.
E perchè Ellen dovrebbe fare il contrario?
Ma Ellen, 19 anni, zingara, due figli, piange e non
molla.
Piange con ritegno, con discrezione, senza farsi
vedere.
Ha dura la scorza!
Lei.
In questa
La sua pelle è ormai diventata di ferro.
E il freddo non la ferisce più.
A 19 anni è già vecchia.
Stende, allora, in avanti le sue mani piene di
geloni, per una lacrima di carità.
Con indifferenza, con rassegnazione. Come fosse
niente.
Perchè? Perchè non ha altre possibilità.
Si mette fuori dal bar nel quartiere dei ricchi e
aspetta la compassione pelosa.
Qualcuno, preso dai suoi sensi di colpa, le molla
qualche spicciolo schifoso.
Lo fa cadere dall’alto della sua statura di ricco.
Qualcun’altro le porta un cappuccino caldo su un
bicchiere di carta.
Vuoto a perdere! Però. Perchè il vetro trasmette
infezioni.
E glielo porta fuori perchè dentro, nel bar dei
signori, lei non può entrare.
Lei puzza, non ci può stare.
E i clienti dallo stomaco delicato non sopportano
il tanfo.
Fa vomitare.
È una signora borghese che la rampogna severa: però
non buttare il bicchiere per terra!
Ci tiene, la signora borghese, al suo salotto
stradale.
Ci tiene, la signora borghese, all’educazione.
Non pensa, la signora borghese, ai campi senz’acqua
né luce.
Non pensa, la signora borghese, al freddo delle
notti all’addiaccio.
Non pensa, la signora borghese, ai figli che non
hanno il latte da bere.
Non pensa, la signora borghese.
Non pensa.
Punto e basta.
Figurati poeta, quella non lo può nemmeno
immaginare.
Non può immaginare una vita di stenti.
La carità, certo, qualche volta.
Non sempre.
Ogni tanto, nei giorni che le girano bene.
Ma pretende in cambio le buone maniere.
E, a Ellen, un vaffanculo viene proprio su dal
cuore!!
Forte.
Gridato.
Scagliato con tutta la rabbia che vorrebbe
esplodere.
Ma tace.
Lo trattiene, nascosto, nel fondo delle sue budella
gelate.
Figurati! Lei non ha la libertà d’insultare.
Anche per il suo vaffanculo ci vuole il
lasciapassare.
Intanto piove e c’è fango, ad Opera.
Nel piccolo campo poco attrezzato.
Manufatto della misericordia ammuffita d’una
parrocchia.
Qualche tenda stracciata, una roulotte, una stufa.
Ma un cancello di ferro per chiuderli dentro.
Per evitare che gli zingari lerci possano esondare
in paese.
Straripare, rompere gli argini, inondare.
Rubare, scannare, stuprare, ammazzare!
Sgozzare.
Dopo che
Fuori dallo scrigno del lusso.
Nella periferia, nel tanfo della spazzatura.
Nella discarica degli uomini per bene.
Come un sacchetto di plastica pieno di merda.
I bambini, invece, alla faccia di tutti, sguazzano,
allegri, nelle pozzanghere melmose senza curarsi del freddo.
Sono sporchi e pieni di fango.
L’unica acqua che li bagna da mesi è la pioggia che
batte insistente.
E sembra non voler smettere mai.
È una condanna.
Una tortura crudele del Dio del temporale.
Ma nel campo c’è lo stesso una strana allegria.
Corrono i bambini sporchi di fango.
Corrono.
E gridano e giocano.
Giocano.
Giocano con quello che trovano per terra.
Con i giocattoli gettati dai liquidi figli della
Giocano con la loro fantasia.
Giocano con niente.
E i carcerati, dalle finestre ferrate di fronte,
sorridono.
Sorridono per un po’ d’allegria che il carcere da
tempo ha loro rubato.
E ringraziano quei bimbi lerci per il regalo
inaspettato.
E salutano.
Si sbracciano e sono ricambiati.
Le voci si incrociano senza capirsi.
Lingue diverse intrecciano un impossibile
colloquio.
Scarti di uomini che non si conoscono ora si sono
riconosciuti.
In mezzo... un muro alto e doppie inferriate.
Quelle del carcere e quelle del campo.
Ugualmente recinti.
Anche Ellen, con le mani paonazze, guarda i suoi
figli che giocano.
E per un attimo è felice.
Un attimo appena.
Sorride, le spetta.
Ma sta attenta a non esagerare.
La felicità non sa cosa sia e così la prende a
piccole dosi.
Può far male.
E sono momenti di serenità.
Sotto la pioggia.
Nel fango.
Mentre il freddo comanda.
Però la gente per bene di Opera non ama l’allegria.
È vestita alla moda, con le firme finanche sul buco
del culo.
È cupa, triste.
Stantìa.
Fuori! Andatevene via!
Urla in preda ad un attacco di nervi.
Noi non vi vogliamo ci rompete la nostra santa
monotonia!
Gridano nascosti nella nebbia.
Non hanno nemmeno il coraggio di mostrare le facce.
E all’inizio furono grida sgangherate e
rimostranze.
Poi arrivarono i cortei con i cartelli e le ronde
dei bravi cittadini.
Persino luccicarono i coltelli.
Infine il fuoco che tutto porta via.
Un fuoco che purifica dalla sporcizia dei bambini.
E il campo improvvisato sale, mesto, verso il cielo
sotto le mentite spoglie di nuvole di fumo.
E vaffanculo all’allegria!
Chi è stato?
Tu che dici, poeta? Qualcuno c’avrà pensato?
Invece...nessuno s’è domandato.
Tanto è un campo Rom e quella è la sua fine.
Il quartiere è stato derattizzato!
Ma che fine ha fatto Ellen e che fine hanno fatto i
suoi bambini?
Chissenefrega! Si sente dire da lontano.
Ellen non esiste ne è mai esistita.
Non ha nemmeno il permesso di soggiorno!
Quindi nessuno s’è mai chiesto se è finita in fumo
oppure se n’è andata.
Le brave persone di Opera ora sono soddisfatte.
Non devono più vedere lo scempio di quel campo in
mezzo alle magioni.
Non devono più udire le urla dei bambini.
Non devono più subire la sfrontatezza della
gratuita allegria.
Sono lerci come i maiali. Si dicono tra loro.
Portano infezioni.
Non hanno un tetto e sono sempre bagnati dalla
pioggia.
Ma ognuno di loro, sotto sotto, pensa.
Eppure...sono felici. Ma come fanno?
Che c’avranno da ridere e ballare?
Non capiscono, gli onorati cittadini.
E i bambini come possono giocare se non hanno
niente da mangiare?
Per loro l’importante è il macchinone, i vestiti
alla moda e un viaggio alle Maldive.
Lo shopping in centro e un quiz televisivo.
Quella gente non ha niente e, allora, come può
essere felice?
Non è possibile!
Ma loro non c’arrivano, hanno la testa fatta di
cemento.
Non importa se vengono dai balcani sconvolti da
guerre e ammazzamenti.
Potevano rimanere.
Non importa se vengono dalla Romania con la miseria
a fare da compagnia.
Potevano andare da un’altra parte e non a casa mia.
Non importa se morivano di stenti.
Potevano ammazzarsi.
Ma non è razzista la brava gente di Opera, alle
porte di
Cosa c’entra? Noi siamo un popolo civile!
Il popolo di quel nord avanzato e produttivo, tanto
vanto dell’Europa.
No, vi sbagliate di grosso, il razzismo non c’entra
niente.
Per noi gli uomini sono tutti uguali.
Bianchi, neri, gialli non fa alcuna differenza.
Ma...gli zingari si spostino più in là.
Puzzano.
E pisciano per strada.
E noi la puzza non la sopportiamo.
Gli zingari fanno nidiate di bambini che urlano
d’allegria.
E a noi l’allegria non ci piace.
Gli zingari cantano e ballano tra loro.
E noi la musica non la vogliamo.
Gli zingari chiedono comprensione.
E noi la comprensione non la diamo.
Gli zingari chiedono dignità.
E noi la dignità non sappiamo cosa sia.
Gli zingari chiedono rispetto.
E noi il rispetto non lo regaliamo.
Ce lo devono pagare.
Gli zingari chiedono di campare.
E a noi della loro vita non ce ne frega niente.
E bravi, cittadini per bene di Opera!
Figli prediletti d’Alberto da Giussano.
Bravi!
Alzate su la testa e fatevi sentire.
Su, fatevi rispettare.
Copritevi di vessilli della teppaglia nera.
E via, tutt’insieme accendete un bel falò.
Chi sono quegli esseri impertinenti che vogliono
stravolgere le vostre regole civili?
Chi sono, ditemi?
Via! Un calcio in culo e fuori dai coglioni.
Ma razzisti, no, voi non lo siete.
Ma chi mai l’ha detto?
Siete un popolo produttivo e sano.
Vogliono restare?
Per prima cosa si devono lavare. Poi...
Si mettano un gessato grigio e vadano in banca a
lavorare!
Comprino una casa in un quartiere residenziale.
Preghino il nostro Dio senza derogare.
Vadano anche loro a fare la settimana bianca, vadano
a sciare.
Chi glielo impedisce?
E in estate... la casa al mare.
E soprattutto lascino perdere l’allegria che a noi
ci fa tanto male.
Hai capito, poeta, questi bravi cittadini?
Non sono razzisti, loro.
Sono anime innocenti, anime tolleranti.
Allora Ellen, 19 anni,
zingara, due figli, s’incammina verso un’altra spazzatura.
Sempre alle porte di
Ha la faccia nera dal fuoco
che l’ha baciata.
Le mani bruciacchiate.
I vestiti tutti stracciati.
È triste ma ormai... c’ha
fatto l’abitudine.
Cammina lentamente verso la
nuova destinazione.
Tenendo per mano i suoi
figliuoli che sgambettano incoscienti.
Ma è preoccupata.
Perchè è sicura che altri
bravi cittadini la cacceranno anche da là.
Pensa ai suoi figli, pensa
alla terra che ha dovuto abbandonare, pensa a cosa fare.
Pensa che in fondo deve
campare.
E che non si può permettere
nemmeno l’acqua d’una lacrima.
Pensa, infine, che deve
anche mangiare.
Allora allunga la sua mano
davanti ad un altro bar, in cerca di carità.
Ecco il solito cappuccino.
Ma attenta a non sporcare!
Ci risiamo: le parole non
son cambiate.
È la solita signora.
Che ci tiene al suo salotto stradale.
Che ci tiene alla buona educazione.
Ci tiene.
Allora Ellen, 19 anni,
zingara, due figli, più non ce la fa.
Tira fuori dal cappotto
stracciato un coltellaccio arrugginito e lo pianta, dritto, nel cuore di quella
troia impellicciata.
Che muore dissanguata.
Ellen ride.
S’è vendicata!
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Se questo è un uomo
Rom e romeni in attesa
dell’allontanamento dall’Italia
Non sappiamo ancora quale forma prenderà il
progetto del governo di cacciare gli zingari, i rom, romeni dall’Italia. E
siccome i rom nuovi arrivati, dei cui crimini si è tanto parlato negli ultimi
mesi in Italia, vengono dalla Romania, il progetto prevede anche di limitare la
presenza dei romeni in Italia, di filtrarli alle frontiere, tanto più che anche
i romeni non rom hanno commesso numerosi crimini e reati. Si infrangerebbe però
così una norma europea, perché la Romania è entrata nell’Unione Europea il 1°
gennaio 2007. Questo ingresso ha fatto dei Romeni dei cittadini europei, e
anche i rom sono diventati cittadini europei visto che in Romania erano
cittadini romeni. Mentre, sia detto tra parentesi, da noi in Italia, paese
civile, gli zingari sono in gran parte apolidi, ai quali noi neghiamo la
cittadinanza italiana e non riconosciamo i nostri stessi diritti.
Zingari, abbiamo detto. Cioè rom. Giornali e
politici si sono imposti da tempo un tabù linguistico che vieta di chiamare gli
zingari con questo nome. I giornali non scrivono mai zingari, ma nomadi, rom,
perfino slavi. Lo stesso fanno i programmi televisivi. Adesso si dice e si
scrive soprattutto romeni, intendendo anche i rom. Non sarà inutile precisare
che rom e romeni non sono la stessa cosa. I rom stanno ai romeni come i nostri
zingari (rom anche loro, o shinti) stanno agli Italiani.
Gli zingari, i rom e gli altri gruppi che portano altri
nomi, sono arrivati in Europa dall’India nel Medioevo. In Italia erano già
presenti nel XV secolo. Erano calderai ambulanti, più tardi sono diventati
commercianti di cavalli. Nell’Europa orientale sono musicisti. Suonano nei
matrimoni e nelle altre feste. Alcuni sono diventati grandi interpreti. Ma la
gran parte di loro non si è mai assimilata, e nemmeno integrata, né in Italia,
né negli altri paesi europei né negli altri continenti dove il loro nomadismo
li ha portati: Nord Africa, America. Una parte degli zingari si sono
sedentarizzati, ma la gran parte è rimasta nomade. A primavera le loro
roulottes riprendono il loro cammino, secondo itinerari noti. Una volta erano
carovane tirate da cavalli, ma i percorsi erano gli stessi. Cervantes (nella
sua splendida Gitanilla) e García
Lorca in Spagna, Victor Hugo in Francia, Ion Budai-Deleanu in Romania hanno
cantato la libertà del popolo zingaro, come Tolstoj quella dei Ceceni.
Gli zingari sono ladri, sono pericolosi? Qualche
volta sì. Ma come ha scritto recentemente Guido Ceronetti nel Sole
Ventiquattr’Ore (domenicale, 11 maggio 2008) “il pugno della legge” non può
essere disgiunto per loro “dalla comprensione di un mistero spirituale che da
sempre accompagna tutte le races maudites
di questo strano pianeta”, e, aggiungerei prosaicamente, dal rispetto per i
diritti fondamentali dell’uomo. Anche se Ion Mailat, zingaro romeno, ha ucciso
a Roma una donna il 31 ottobre
La Comunità di sant’Egidio, in un suo documento
dedicato allo stato dei rom romeni in Italia ricorda che negli anni Cinquanta i
giudici minorili svizzeri avevano aperto un dibattito sull’alto numero di reati
compiuti da minori italiani “Ci si chiese allora, si legge nel documento, se
non vi fosse una propensione culturale della popolazione italiana al furto. Una
idea avvalorata da molta letteratura europea.” Il dibattito si spense appena la
popolazione italiana acquisì un migliore status sociale, aprendo negozi e
ristoranti e i reati diminuirono, ma gli stessi sospetti si appuntarono subito
sui nuovi venuti, portoghesi, poi jugoslavi, infine turchi.
Non sappiamo se i Romeni, rom e non, arriveranno a
migliorare il loro status sociale in Italia, che oggi è spesso marginale, o se,
come si ventila, saranno cacciati prima. In quest’ultima ipotesi, non ci resta
da chiederci chi saranno i loro successori.
Possiamo anche chiederci cos’aveva fatto l’Italia
davanti all’arrivo, previsto, di migliaia di zingari romeni dopo il 1 gennaio
2007. Come si è saputo dopo i colloqui italo-romeni seguito all’omicidio
Mailat, l’Italia non aveva nemmeno chiesto all’Europa le sovvenzioni che questa
mette a disposizione degli stati nazionali per l’assistenza agli zingari. Sei
mesi dopo, da quanto si apprende, il Comune di Genova pensa ancora di
provvedere ad alloggiare i rom romeni del territorio con i fondi europei
assegnati … alla Romania. È toccato alla sottosegretaria romena Dana Varga, di
etnia rom lei stessa, ricordare alle autorità della Liguria che esistono fondi
europei a disposizione dell’Italia per questo scopo.
Per equità dobbiamo anche ricordare che, prima che
arrivi il decreto anti-rom, i diritti elementari degli zingari romeni sono già
stati violati più volte in Italia. Tra il 2007 e il
Saremo dunque noi, italiani europei del XXI secolo,
i primi a perseguitare un popolo che vive tra di noi da almeno da sei secoli?
Certo, i primi del nuovo secolo, non i primi in assoluto, visto che la Germania
nazista, nel 1933, li ha privati di tutti i diritti, poi li ha avviati ai forni
crematori, dove ne sono scomparsi, pare, cinquecentomila.
Rom, nella lingua indoeuropea degli zingari, vuol
dire “uomo”. Ricordate le parole di Primo Levi? “Se questo è un uomo…”
Lorenzo Renzi
Professore Ordinario di
Romanistica presso l'Università di Padova
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Romeni - Un'altra
cronaca è possibile
MIHAI MIRCEA BUTCOVAN - «l'Osservatore Romeno»
Riprenderò la mia riflessione sui romeni e sul razzismo, iniziata sulle pagine
di questo giornale, da dove l'avevo lasciata nel novembre del
Oggi aggiungerei all'elenco anche le morti
bianche.
Ero forse ottimista? Avevo forse dato voce ad una
speranza che dentro di me diventava preoccupazione? Non avevo certo calcolato una
campagna elettorale prima dei campionati europei di calcio. Non potevo
saperlo. Altrimenti avrei dato per scontato che la questione «sicurezza»
e, con essa, il «problema» dei romeni, dei rom e degli immigrati in
generale sarebbe stata inserita come priorità nei programmi elettorali.
Non posso negare che ci siano anche reati e
infrazioni commesse da migranti. Ma viviamo in tempi in cui si rivendica la
necessità del contraddittorio. Allora non capisco l'assenza dai notiziari
di tutti quei migranti che lavorano, pagano tasse e - in mille modi e
altrettanti lavori - fanno del bene a questo paese oltre che a se stessi. Di
loro si parla sempre meno e si dà scarsa notizia, quando non li si ignora del
tutto.
E poi ci sono uomini che nei cantieri ci lasciano
la pelle e ci sono donne che le tasse non le pagano perché sono «assunte» in
nero. Difficilmente queste persone troveranno mai spazio per un
contraddittorio di fronte a chi le colpevolizza per la semplice appartenenza ad
un popolo o ad un paese non abbastanza «comunitario». Se ci fosse più
informazione anche su queste presenze in Italia, non cambierebbe certamente il
giudizio negativo e la condanna di certi reati gravi, chiunque li abbia
commessi. Ma se ci fosse più informazione anche su queste persone oneste, molto
più numerose dei delinquenti, sarebbe più difficile o addirittura
impossibile, per qualcuno, sostenere che i romeni sono «abitualmente
criminali», che i rom sono «geneticamente o culturalmente ladri», che gli
immigrati sono soltanto «un problema» da espellere, per usare un eufemismo.
E troppo spesso, nelle rubriche di notizie o informazioni, quando gli stranieri
sono vittime si omette o non si rimarca la nazionalità.
I problemi dell'Italia e delle persone che la
abitano in questo momento sono tanti, sarebbe davvero riduttivo e fuorviante
ricondurli alla presenza dei rom o dei romeni in Italia e in Europa. Mi sembra anche una
semplificazione che offende l'intelligenza di chi la deve sorbire o addirittura
applaudire. Purtroppo in molti plaudono a questa riduzione e la considerano
come punto di partenza per chissà quale risorgimento economico e delle
libertà, fatto magari a suon di «ifucilisonopronti».
Alcuni vorrebbero valutare l'onestà di una persona
in base al reddito e a ben guardare molte vicende giudiziarie degli ultimi anni
sono andate in questa direzione. Per questi, chi migra per necessità e non per
turismo, sarebbe sempre un disonesto o un delinquente.Si potrà mai fermare
questa colpevolizzazione dello straniero? Forse opponendo alla modalità
parziale e faziosa, certamente diversiva, di dare notizia sulla presenza degli
immigrati, un nuovo metodo di dare informazione. Con una maggiore diffusione
delle storie di positiva presenza delle persone che, sebbene provenienti da
altrove, aiutano il Belpaese a crescere e a risollevarsi.
Vorrei lanciare un appello e chiederei agli
italiani che possono testimoniare contatti positivi, quando non emozionanti e
appassionati, di fare i cronisti di queste presenze che spesso non hanno voce.
Chiedo loro di scrivere ai giornali, a vari siti e nei vari blog, dei loro
incontri ravvicinati di secondo e terzo tipo con questi extracomunitari che
costruiscono case e curano gli anziani d'altri come se fossero i propri. Questi
«alieni immigrati» che, ironia della sorte, sono sempre più bersaglio di alcuni
omini verdi...
Le storie di incontri positivi non avranno la
visibilità di certi tiggì, non avranno l'impatto emotivo di certi programmi
televisivi, commoventi già nel copione prima che nell'apparizione sugli
schermi. Ma contrasteranno quella battuta del bar o del comizio che prevede
«ognuno a casa sua» e che attribuisce la crisi e le difficoltà odierne, la
precarietà del lavoro, l'aumento del costo della vita, talvolta anche il prezzo
del pane, alla presenza degli immigrati.
Si possono, anche senza il monopolio dell'informazione, raccogliere con un
appello, narrazioni di buon vicinato, di reciprocità e di utile o necessaria
convivenza con buona parte degli immigrati. Sono molti gli italiani che
potrebbero raccontare di romeni, di rom e di altri «viaggiatori» onesti,
lavoratori, responsabili, rispettosi della legge. Inneschiamo un passaparola
inclusivo contro quello espulsivo di chiunque sia straniero. Certo, qualche
lettore in attesa di notizie ghiotte, magari di violenza, rimarrà deluso.
Potremmo anche approfittare dei prossimi campionati
europei per trasmettere, in Italia, le cronache televisive e radiofoniche
delle partite abbinando ai cronisti italiani immigrati dai paesi delle squadre
avversarie. Durante quelle partite potrebbero esserci, nelle cronache,
anche brevi spot culturali di quei paesi europei, alcuni comunitari, che tanto
poco conosciamo. Qualche volta tanto poco da non sapere nemmeno che sono nella
stessa comunità. E non è soltanto il caso della Romania, avversaria diretta nel
girone dell'Italia.
Qualche mese fa, dopo aver citato il cantautore
italiano che diceva «la storia siamo noi», ho lanciato un altro appello dalle
pagine della rivista Internazionale. Come romeno, come italiano e come
migrante, sento il bisogno di proporlo nuovamente, sempre con uno sguardo al
futuro: «Dovremmo vigilare perché la caccia al romeno, al rom, o allo straniero
non diventi uno sport nazionale o, peggio ancora, europeo. Perché di quello
sport - la storia non voglia - sarebbe meglio non diventare campioni del mondo».
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Siamo
sporchi cattivi
mendicanti
lebbrosi
veniamo
da lontano
a
portarvi la croce
fate
in fretta
nascondete
le
ragazze in cantina
siamo
figli di un dio
che
ci nega il cognome
bestemmiamo
in più lingue
e
ci grattiamo i coglioni
fate
presto
suonate
a morto le campane
e'
arrivata la peste
ed
è qui per restare
lubrica
lasciva
sozza
sconcia
sconveniente
siamo
l'orda che sbarca
la
barbarie imminente
siamo
un cane rabbioso
che
ha sbranato il padrone
tutti
ladri fottuti
fannulloni
bastardi
e
non c'è pane al mondo
per
riempirci la fame
non
cercate d'imporci
né
regole né ragioni
portiamo
in corpo i calli
dell’intero
campione
siamo
duri al randello
vaccinati
al cannone
siamo
arrivati tardi
al
banchetto del mondo
scusate
il disturbo
noi
siamo la barbarie
fate
presto
battono
a morte le campane
è
scoppiata la peste
ed
è qui per restare
+++
Milton
Fernàndez – Como
20/05/2008
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Sarà colpa degli
zingari?
La vita è ogni giorno più cara, sembra sia colpa
degli zingari;
La mafia è più forte che mai, forse è colpa degli
zingari;
La spazzatura ci sta invadendo, è anche colpa degli
zingari;
Il parlamento è pieno di delinquenti, sarà perché
sono zingari?
Le bufale producono mozzarelle alla diossina, sempre
colpa degli zingari;
Lo stato è coperto di debiti, perché mantiene gli
zingari!
I ricchi non pagano le tasse… Allora non solo gli
zingari?
Le terre agricole, le foreste, i fiumi, le spiagge,
tutto è invaso dal cemento… e dagli zingari;
I bambini non giocano più per le strade, perché ci
stanno troppe macchine e troppi zingari;
La
Non sappiamo dove sta andando sto mondo, erriamo
come zingari;
È sull'orlo di una guerra assurda, una guerra senza
fine, tuttavia è colpa degli zingari;
Gli Italiani ce l'hanno con noi romeni, perché ci
credono zingari;
gli Italiani dicono "immigrati, tutti
ladri", a causa degli zingari;
…
E allora che fare?
Diamo caccia allo zingaro: assediamoli,
ghettizziamoli,
Pogromiamoli, Parajmosiamoli, Cacciamoli via… o
meglio sterminiamoli!
Facciamo un bel rogo di zingari, femmine e maschi,
grandi e piccoli!
Bruciamo loro, le loro baracche, i loro carri, i
loro cenci,
Le loro giostre e i loro ferrivecchi.
Facciamola finita, una volta per tutte. Ammazziamoli
tutti!
E vedrete… quanto si starà peggio poi.
Ma non fa niente. Non vi preoccupate.
Non pensate che dovremo poi assumere ognuno le
proprie responsabilità…
Che dovremo affrontare i problemi alla base!
Ci sarà sempre un diverso più diverso sul quale
scaricare...
Al quale dare la caccia!
Non vi preoccupare.
Ci pensano i media, ci pensano i politici.
Gli zingari puzzano. Ma non è questo il problema!
Il problema è che rubano, rubano di tutto: rame, ferro, le tue scarpe, i tuoi
gioielli e… l’altra notte mio figlio rientrando ha trovato la casa
completamente svuotata… ha visto uno di questi stronzi, l’ha inseguito per
qualche metro ma poi… questi so’ veloci… mica è riuscito a prenderlo sai!!!…
Minchia, ti rubano pure in casa e non te ne accorgi. Io fortuna che ero fuori in
vacanza… Sono una brutta razza… rubano tutto, ce lo hanno nel sangue… rubano… e
qualche volta rubano anche i bambini… Le zingare! Sì le zingare rubano anche i
bambini. Li mettono sotto le loro gonne e li portano via e chissà dove se li
vanno a rivendere, poi!
Mia madre ascoltava Emma con l’aria impaurita di
madre che vuole proteggere i figli piccoli. Io, all’epoca, avevo sì e no nove
anni e la frase “rubano i bambini” mi metteva addosso una tremenda sensazione
di sottrazione della mia persona dalle cose che amavo e, come un sipario, la
gonna della zingara si chiudeva intorno a me divorando ogni cosa, senza la
possibilità del poterle recuperare… “rubavano”… non “rapivano” (se mi avessero
rapito mia madre avrebbe potuto pagare un riscatto ed io sarei potuto tornare
ai miei giochi, a scuola, alla normalità) ma proprio “rubavano”… ti
sottraevano, per sempre, dal tuo universo.
Perché gli zingari rubano i bambini, mamma? E avrei
voluto che lei mi avesse risposto:
-
Non
rubano i bambini… non quelli buoni, ma solo quelli cattivi!!… No, Neanche
quelli cattivi! Sono storie che gli adulti raccontano ai bambini per farli
stare buoni!
-
Ma
l’altro giorno al telegiornale hanno detto che una zingara “ha rubato” il
bambino di una signora! Pure il telegiornale racconta storie ai bambini?
-
Forse
non ai bambini… Ma… penso che la cosa sia andata diversamente. Sei grande, è
giusto che tu sappia queste cose… penso sia andata così… la zingara è entrata
nell’appartamento di quella signora per rubare i suoi gioielli, ma è stata
scoperta… l’hanno presa e l’hanno massacrata di botte. Per giustificare le
botte hanno inventato la storia del “furto di bambini”.
-
Perché?
-
Perché
è più facile da giustificare il massacro di una donna per il “furto di un
bambino” che non per il furto di un paio di orecchini, non pensi Tesoro!!!
Invece questo discorso non
si svolse mai, perché mai domandai a mia madre “perché gli zingari rubino i
bambini” e forse non avrei neppure capito un tale discorso perché per i bambini
le parole hanno peso solo quando sono colorate di rosso, di verde, di giallo e
di tutti i colori fantastici e grotteschi o comunque facili da ricostruire
nelle loro menti con immagini forti e toccanti o comunque tangibili.
La paura, che colonizzò gli
occhi di mia madre quel giorno parlando con Emma, qualche giorno dopo venne a
bussare alla nostra porta. Alla porta della nostra piccola casa, di un piccolo
paesino in provincia di Roma… poco oltre il 1981, nel folto dell’estate…
Quella paura era vestita di
nero, coperta dai piedi alla testa di stracci logori e consunti e il volto
appena coperto era scheletrico e troppo bianco rispetto al vestiario, rispetto
alla sua lunga gonna, rispetto al suo borsone fatto di stracci scuri… troppo
bianco da sembrare la morte e da incutere veramente paura nelle fragili anime
contadine di un paese di provincia.
Mia madre aprì la porta.
Alcune vicine, alle
finestre, già lamentavano da un po’ la sua presenza e la seguivano con lo
sguardo minaccioso e quando mia madre aprì la porta di casa, che dava subito
sulla strada, cominciarono a gridare a mia madre di rientrare perché quella era
una zingara e poteva rubarle tutto, portarle via i figli.
Mia madre lanciò un rapido
sguardo alla zingara e semplicemente le domando: cosa vuoi?
La donna con altrettanta
semplicità rispose: solo qualcosa da mangiare.
Mandala via, mandala via!
Gridavano le altre donne.
La paura avrebbe dovuto
assalire mia madre… ed invece, in quel preciso istante, mi accorsi dove
annidava la vera paura: sui balconi dei vicini!!!
In quell’attimo mia madre,
che pure era una straniera del posto e in che comunque non poteva contare sul
clamore delle donne, raccolse nelle sue mani una straordinaria energia che mi
sembra ancora di rivedere…
-
Aspettami
qua! Ti porto qualcosa da mangiare!
Intanto ordinò a me di
tagliare del pane e a mia sorella di prendere una brocca con dell’acqua fresca.
Lei corse in cucina e dopo una decina di minuti eccola con qualcosa di pronto
per quella sconosciuta “ladra di bambini”.
La donna attese tutto il
tempo seduta sui gradoni della porta e quando vide quella piccola famiglia di
negri portarle da mangiare le brillarono gli occhi.
Mia madre parlò un po’ con
la donna, mentre questa mangiava con calma e ringraziando quasi ad ogni boccone
che mandava giù.
Le vicine erano ammutolite…
Una donna, sola con tre figli piccoli e per di più straniera, aveva appena dato
loro una grande lezione: aiutare chi ne ha veramente bisogno, forse anche oltre
le proprie paure!
In quegli anni non è che
facessimo la fame, ma la vita era dura con una sola entrata economica a sfamare
quattro bocche… eppure mia madre, davanti a quella misera “ladra di bambini”
non ci pensò un solo istante ad aprire il suo cuore ad una sconosciuta, ad una
di quelle figure che ti obbligano a scansare senza neppure farti venire la
curiosità di conoscere.
La donna finito il suo
pasto ringraziò ancora mia madre e si allontanò senza che neppure una foglia
secca mancasse in terra… e molti anni dopo arrivò anche la verità sul figlio di
Emma e sul furto a casa da parte degli zingari: si era inventato tutto per
nascondere quel vizietto che lo aveva portato a rubare in casa propria per
procurarsi i soldi per una partita di cocaina… ma questo lo venni a sapere
molto, molto tempo dopo.
Quel gesto altruista di mia
madre lo porto ben seminato nel cuore da allora e a distanza di anni, pure
qualche lacrimuccia, di tanto in tanto, lo annaffia quando ritornando
sull’episodio trova la Solidarietà e la Conoscenza che giocano a briscola
contro la Paura e l’Ignoranza e… sempre queste ultime vengono sconfitte.
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"Il sonno della ragione genera mostri".
Recenti avvenimenti di cronaca, e la loro
accresciuta rappresentazione mediatica, hanno portato ad emergere in maniera
plateale un diffuso atteggiamento di sospetto, quando non manifestazioni di
vero e proprio razzismo, verso gli zingari, italiani e immigrati. La
denigrazione verbale, genericamente diretta a queste comunità ed anche gli
episodi di aperta violenza e razzismo nei loro confronti, non possono essere in
alcun mo do tollerati. Spesso questi comportamenti vengono giustificati come
risposta al presunto alto tasso di devianza di questo popolo, dimenticando che
i reati in sé sono sempre compiuti da singole persone e che la responsabilità penale
è, per legge, individuale. Una politica intelligente, a vantaggio della
sicurezza dei singoli e della collettività, sarebbe quella di analizzare le
cause che portano ad una maggiore devianza tra queste persone (emarginazione
sociale e culturale, assenza di politiche d'integrazione, ecc.) offrendo misure
atte a governare davvero l'immigrazione e a coniugare politiche di sicurezza
con quelle di accoglienza ed integrazione. Si preferisce invece battere il
tasto sulla paura della gente e sulla necessità di inasprire le leggi e le
pene. E' anche strano che il battage pubblicitario sulla sicurezza e sulla
paura degli italiani, avvenga proprio quando il Ministero di Giustizia dimostra,
statistiche alla mano, che i reati in Italia sono diminuiti e che in Europa -
il nostro Paese è uno dei più sicuri dal punto di vista dell'ordine pubblico.
. 1 Combattere la campagna mediatica volta a creare
atteggiamenti razzisti e xenofobi nei confronti degli zingari, ma anche
dell'immigrazione in generale.
2. Adottare efficaci politiche di sicurezza e
chiudere i campi noma di, in quanto ghetti e fonte di emarginazione ed
illegalità, incentivando misure di vera accoglienza ed integrazione di queste
comunità; i "campi nomadi" sono costosi, perpetuano le
discriminazioni, ostacolano una reale integrazione. Sono anche una "zona
grigia" di illegalità, su cui occorre che sia fatta luce, per tutelare in
primo luogo i più deboli tra coloro che vi vivono.
3. Procedere ad un vero e completo censimento dei
singoli e dei nu clei familiari di zingari presenti in Italia, come primo passo
verso misure di integrazione diversificate ed efficaci;
4. Per i
minori e i giovanissimi, nati e vissuti nelle baracche, occorre prevedere con
coraggio e creatività
opportunità di integrazione e anche di cittadinanza, capaci di rompere un
circuito davvero infernale di sottrazione di futuro;
5. Ridurre i casi di espulsione solo per le persone
che non hanno titolo o che hanno commesso reati legalmente comprovati; chi ha
tale titolo, inoltre, deve essere trattato con rispetto e dignità. Prevenire le
condizioni di emarginazione, miseria e criminalità sarà sempre più razionale e
anche più economico che reprimerne gli esiti.
6. Occorre un'integrazione tra il livello europeo,
quello nazionale, quello regionale e comunale: occorre evitare infatti che la
sindrome del "non nel mio cortile": i rom non sono immondizia.
7. Mantenere la memori a collettiva del Porajmos,
anche incentivando la ricerca storica sui campi di concentramento costituiti
dal governo italiano nel periodo fascista, un evento rimosso e colpevolmente
dimenticato.
8. Incoraggiare la voce dei Rom e Sinti italiani,
che ad oggi sono l'unica minoranza linguistica storica del nostro Paese a non
godere di alcuna tutela: auspichiamo che sorga un'associazione rappresentativa
della comunità zingara italiana.
Danielà Carlà
Giuseppe Casacci
Piero Soldini
Rodolfo Ricci
per adesioni : fiei@fiei.org
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Quando
ti fermerai
di Giorgio D’Amato
Andrai lontano e vedrai spiagge affollate, donne
che fanno il bagno in costume o vestite, o che non faranno il bagno affatto.
Vedrai città a volte sporche e a volte pulite, ti
imbatterai in bambini che escono dalla scuola con il loro zainetto tenuto bene,
oppure che avranno le scarpe rotte,
Guiderai su strade dall’asfalto nero e lucido,
oppure sentieri sterrati che ti faranno sentire indietro nel tempo.
Incontrerai semafori, supermercati pieni di cose
buone o botteghe regno delle mosche.
Vedrai animali per strada, incontrerai gente.
Alcuni staranno andando per la loro strada, altri
ti rivolgeranno la parola, ti diranno chi sono e ti chiederanno chi sei, ti
parleranno del loro paese, della loro famiglia, della loro casa.
Si vanteranno di avere vite belle, oppure si
lamenteranno di non farcela sino a fine mese, di aver avuto la luce tagliata,
di avere l’auto ferma e neanche un soldo per metterci dentro la benzina.
Non importa, tu cammina e vai sempre avanti.
Il giorno in cui deciderai di fermarti, però guarda
bene intorno.
Non ti fare abbagliare da strade pulite, villette
graziose, negozi pieni di frutta lucida, gente che sorride dalle televisioni,
che ostenta titoli.
Fai un giro, un po’ fuori se è il caso, informati,
chiedi se c’è un campo rom nel circondario, se non ti capiscono usa il termine
zingari. Se ti rispondono sì, allora vallo a vedere.
E se lì la gente ci vive tranquilla, magari un po’
male, senza acqua e luce, ma tranquilla,
allora fermati. Quello è un posto buono.