LA MIA STANZA

di Leela Marampudi

 

Piove ormai da tre settimane sulla strada in discesa che conduce al fiume.
Rivoli d’acqua migrano verso un habitat più grande, forse migliore. L’importante è muoversi. Non possono farne a meno.
Il Lerion si sta sovrappopolando, non c’è quasi più spazio per nulla e per nessuno, ma all’acqua piovana non interessa e si lascia trascinare nel suo destino: rimanere in movimento.
Anche quando sembra ferma, l’acqua agisce, ristagna, evapora, ricade dal cielo… come tutto ciò che è vita: si muove. E se le prime forme di vita fossero cadute dal cielo? Se la vita fosse iniziata così? Se le prime cose a muoversi fossero arrivate dall’universo? Che stupida. La terra nasce dall’universo. Siamo inglobati nel cielo. E quindi è il cielo, l’universo, che ci ha generati. Noi siamo alieni.
Myra, malata, dal suo letto immagina i rivoli che sgorgano dai tombini. Osserva lo spettacolo della natura dai vetri opacizzati dallo scroscio d’acqua: uno schermo distorto per chi non può vedere, immaginare… no. Sentire.

“Sei sicura che sia malata, Myra? Che malattia ha, mamma? Non è che semplicemente non vuole andare a scuola?”.

Rosy, la sorellina più piccola di Myra, non capisce il dolore della sorella, perché non si esprime fisicamente. È un dolore interno, che nasce nelle persone che hanno una sensibilità incontrollata.

“Empatia. La sua malattia si chiama empatia, Rosy. Non è propriamente una malattia: è un dono, ma per il momento Myra non è ancora pronta ad affrontarlo”.

Un dono, per alcuni, per gente come il professor Harvey lo è. L’ex psichiatra Harvey Robert, dopo visite alla bambina, ha stabilito la tesi che ora la madre sta riferendo a Rosy:

“La bambina è infetta di troppo sentire”.

Così ha pronunciato il verdetto per una sentenza gratuita in quanto amico di famiglia.

“Quando imparerà a controllare la sua capacità di vedere oltre, la sua malattia si trasformerà in un dono… anch’io, da piccolo, ero affetto dal suo stesso male e all’inizio il cinismo mi ha aiutato a creare una spietata padronanza di lasciare al loro posto le sensazioni viste fuori da me… le vedevo, ma sapevo che non erano mie. Lei, per ora, crede che ciò che sente degli altri sia un problema personale”.

Il professor Harvey, a differenza di Myra, ignora che l’incoscienza infantile svela una grande coscienza: Myra, come l’acqua, non può smettere di muoversi. È la vita. Non può morire costruendo un muretto di cinismo dentro sé, perché l’universo che è in grado di vedere, quell’universo che ci avvolge, è parte di lei o lei è parte di lui… sono uguali in dimensioni diverse: una matrioska. Per questo gli è legata visceralmente, come tutti. Non riesce a morire nel non accettare ciò che la contiene e che lei stessa contiene. E così, Myra, sta male perché affronta l’universo con coscienza. L’incoscienza di smettere di vedere la si lascia ai vecchi, che credono di essere pronti alla vita smettendo di viverla. Myra: troppo piccola per morire e per altri troppo piccola per vivere.

“Vedi, Rosy, se Myra è forte potrebbe trasformare il suo star male in un aiuto per gli altri. Con gli anni Myra sarà fiera del suo dono”.

Ma, per Myra, il miracolo di ciò che riesce a sentire, per ora, è solo un incubo, dal quale viene dominata come un fiume in piena.
Dominata. Dominata dalla vita: nasci, ti entra un fiotto di vita nelle narici, arriva ai polmoni e piangi. I bambini vogliono essere aiutati a vivere, ma i grandi insegnano a morire, perché pochi ce l’hanno fatta.
Il fiotto di vita entra nel corpo, avvolgendoti interiormente come il liquido che lo faceva esteriormente nella mamma.
Myra sente la vita così: un fiume che la travolge facendola vagare nelle sue acque. Dopo giorni, dal suo corpo ormai putrefatto, si staccano brandelli di tessuti e una specie di poltiglia scivola nella corrente finché, sciogliendosi del tutto, non diviene lei stessa acqua. Acqua, nient’altro che acqua.
L’aria, come l’acqua, è anch’essa vita.

***

L’aria. Vento gelido che non trova barriere per lei, anche se a proteggerla in quella stanza sono presenti tapparelle che di proposito abbassa il meno possibile.
I lampi, come fuochi d’artificio, ricordano la festa della natura che aspetta.
Come fantasmini di luce si accendono nella stanza buia: è ormai notte.
Fuori c’è una festa alla quale Myra è invitata, ma non sa come parteciparvi.
La pioggia tamburella sul tetto. Sempre più forte.
Il rumore è quello di un calesse, una carrozza mandata da un principe perché possa presentarsi alla festa.
Sbam! Onomatopeicamente il fantasma più grande si presenta aprendo le imposte delle finestre. Il vento porta la sua voce:

“Siamo venuti a prenderti: scappa, vieni con noi, tu fai parte del mondo, non credere a chi ti ha detto che non è vero!”.

“Come posso venire”,

chiede.

“Cercaci dentro di te”,

risponde la voce nel vento.

“Ho pa… mi han detto di aver paura”,

replica Myra.

“Lasciati andare”.

Si lascia andare nell’acqua e nel vento che sente dentro.
Inizia a sentire uno strano formicolio che parte dello stomaco. Guarda la pancia e dall’ombelico, come formando una spirale che srotola il suo fisico, nascono una serie di formiche. Dal nulla, scomponendola, esse camminano una dietro all’altra, aumentano, finché il suo corpo esaurito diviene una fila indivisibile di elementi. Non appena il vento li fa vibrare, ad essi spuntano ali.
Le formiche volanti…

“Io… esco dalla finestra. Sono libera. Sono viva!”.

No. Manca qualcosa.

“Una formica si è persa”.

No. L’ultimo anello della sua catena non si è perso, si è staccato apposta. È voluto rimanere là.

“Perché?”.

Lo chiama, stando nella vita. Telepaticamente le risponde:

“Se ti dimostrassi che questo “mondo” non è una delusione, torneresti?”.

Quel granello di Myra è così pazzo da sperare che si possa vivere con uomini?

“Quel mondo è uguale a questo, ma gli uomini non lo sanno. Credono di essere qualcos’altro…
se dovessi cambiare idea io ti aspetterò. Invece, se dovessi dimostrarmi che esistono uomini che vogliono vivere, ti ringrazierò per ciò che di bello mi hai mostrato, ma non tornerei, perché in quel caso significherà che altri hanno visto realmente l’uomo sperando così, poi, di raggiungermi. Sei sicuro di non volermi seguire subito?”.

“ …no”.

***

I tuoni sono passati. Rimbombano lontani. Finalmente la pace. Qualche ritardatario ruggisce ancora con arroganza, ma è solo, si sfoga per finire di scaricare la sua eccitazione: l’aria ormai è silenziosa e purificata dalla pioggia.

“…Forse il fascino del temporale è sentire la violenza che sfuma in una pioggia sensuale”.

Un amplesso nel cielo.
La vita torna a scorrere al mattino: la gente esce in strada e corre dove vuole. Milioni di formichine di nuovo all’opera. Spinti da qualcosa.

“Dopo anni mi stupisco ancora di fronte a questo misterioso qualcosa.
…forse sono beati quelli che fanno solo il loro lavoro di formichine e non ci pensano mai, al perché. Ai meccanismi. Alle cause profonde delle loro spiegabilissime o inspiegabilissime azioni.
E se vanno in crisi, basta rivolgersi ad uno come me, che entra nella loro mente, svela i loro segreti nascosti, li porta dentro di sé, prende per mano la formichina smarrita e le dà la chiave per risolversi.
Quanti transfert nella mia carriera? Non ne ho nemmeno idea. Troppi. Non me la sento più. Forse non sono più sicuro di quello che succede nell’animo delle mie formichine. No, non è questo, solo non voglio rischiare di dare una chiave che apre una stanza senza finestre, dove abita un mostro invincibile. Che ruggisce come il temporale. Che non lascia il suo posto. Eterno, violento, tormentato, con i lampi negli occhi, invincibile. Nessun amplesso, solo una violenza carnale interminabile”.

Il dottor Harvey pensa spesso a questo, celandolo dietro uno sguardo che una donna può anche trovare affascinante, lo sguardo di chi non vuole turbare chi ha di fronte, ma cova dentro di sé un’inquietudine in più. Pensa spesso al perché dietro ai perché.
Per un ex psicanalista come lui non è poi così difficile arrivare a comprendere i meccanismi, i primi perché, le relazioni di causa-effetto, che portano alle paure, alle nevrosi, a comportarci in maniera “strana” o meno.

“Causa-effetto… uhm… ma se è certo che un bambino ha bisogno dell’approvazione dei genitori, pena gravi disturbi nello sviluppo della sua personalità, cosa spiega il perché esista questa relazione di causa-effetto? E poi, tutte queste relazioni di causa-effetto sono sufficienti a spiegare la complessità dell’animo di un essere umano?
Domani sera voglio parlarne con Myra: è giovane, ma lei ha un’intelligenza intuitiva, di quelle che magari non riusciranno mai a seguire una cascata di deduzioni rigorose, o a classificare tutti i fenomeni che percepisce, come ero abituato a fare nella mia professione, ma magari in un attimo, con uno sguardo, ti legge qualcosa dentro che tra le righe dei trattati scientifici era scappato.
Una sfumatura che era andata persa nel tentativo di identificare tutte le regole, di ridurre la persona a generalità.
E poi, oltre all’intelligenza, vorrei confrontarmi con lei sul piano della sensibilità. Sono stanco di indagare la vita, gli animi, il mio animo, quello dei miei figli, il tuo, con il solo, anche se necessario e potente, strumento della ragione”.

Strumento, appunto. Come lo è un cacciavite.

“Inizio a pensare che solo tramite le sensazioni, il Sentire, si possa cogliere il secondo perché, arrivare a dio. Al tutto. Senza ragionamenti.
Provare empatia verso tutto. Conoscere dentro di sé.
Ma senza perdersi nel tutto, con la nostra individualità. Interagire. Lasciare che le nostre azioni, pure, spontanee, spieghino il perché più profondo.
Capirlo, anche se forse siamo destinati a non riuscire a definirlo, a imprigionarlo in una frase, in un libro. Millenni di letteratura, musica, arte, pittura, ci hanno arricchiti così tanto, ma nessuno è mai riuscito a dare più di un lampo, un attimo, una scarica di infinito, di eternità, che ci ha attraversati grazie all’opera di qualcuno che, forse, aveva capito.
…cara? mi ascolti?”.

“Scusa tesoro: ero pensierosa e poi mi sembrava che parlassi da solo ad alta voce. Che hai detto?”.

“Psf! Che pensavi? Va beh. Ho detto che domani vado a trovare Myra”.

“Pensavo… a come dirtelo… ho sentito la madre di Myra al telefono e dice che è scappata”.

***

“Sono un granello di Myra. Un granello di sabbia a forma di formica, che aspetta come un bambino rinchiuso in sé stesso, la speranza, lo stupore nel trovarsi di fronte alla vita”.

Oggi han detto che Myra è fuggita, è scappata. Nessuno capisce il perché. Tutti piangono perché lei era la speranza, la vita, che nessuno le aveva dato.
La stanza è stata riordinata dopo l’arrivo di alcune persone, che probabilmente cercavano, tra le sue cose, tracce per capire dove potesse essere finita.
Entrano altri individui.

“Guardo il brusio, l’andirivieni di persone che cercano indizi, ma nessuno si ferma ad osservami.
Sono qui! Per terra, in un angolo. Perché volli che la mia prima meta non fosse una tappa raggiunta invano. Io credo, spero in voi, guardatemi! Oh… ma sei tu! Robert, aiutami a vivere!”.

***

Nella stanza di Myra, il sole che filtra dalla finestra socchiusa sembra meno immateriale della luce, più concreto. Tanti raggi, come fili metallici luccicanti, costruiscono un passaggio che porta dall’interno a chissà dove.

“Già la parola “dove”, nel cielo, mi sembra così strana: come distinguere un punto da un altro? È tutto così uniforme: un mare senza onde, un punto infinitamente grande”.

I raggi, come il riflettore di un palcoscenico, illuminano, appoggiandosi, una zona ben definita della moquette.
Attraverso l’aria, evidenziata dai raggi, una nuvola di granelli di polvere tutti uguali inizia a danzare.

“È strano pensare che, semplicemente respirando ne sto adottando molti, dentro di me, nei miei polmoni, o nel setto nasale, fin sotto agli occhi… li sto adottando tutti… tutti uguali… no!”.

Uno si distingue: è scuro e danza più freneticamente degli altri.

“Sembra che stia cercando qualcosa…”.

Il professor Robert, avvicinandosi, non si accorge che quel granello salta la corda di luce per poter confidarsi con lui.

“Dov’è finito?
Myra… dove sei finita? Hai saltato anche tu il fascio di luce per renderti invisibile? Quanto vorrei che stessi solo giocando al gioco dell’invisibilità e fossi qui con me…”.

“Eccomi!”.

Riconoscendo la voce della bambina, dentro sé il professor Robert si spaventa:

“Myra, tesoro, dove sei?”.

Così, ad alta voce, inizia a parlare con la piccola, sperando che la voce sentita provenga da fuori dal suo corpo.

“Tesoro esci fuori! Siamo tutti preoccupati!”.

Sperando di non scoprirsi pazzo per sé stesso, passa per tale davanti alla madre di Myra che, entrando nella stanza, vede un uomo parlare ad un fantasma.

“Myra parlami ancora, dove sei?”.

“Sono qui!”.

“Professore, si sente bene?”,

chiede la madre di Myra.

“Non la sente, signora? Non ha sentito la voce di Myra?”.

Con una prima espressione speranzosa nel viso, la madre si protrae in modo attento verso il vuoto della stanza, ma la mente, più forte della speranza, fa mutare lo sguardo in direzione del professore.
Il professor Robert capisce di non essere creduto.
Per questo, rafforzato dalla sicurezza di ciò che ha udito, si lascia andare ad un delirio e inizia a guardare, per prima cosa, sulla moquette, tastando il punto dove il pulviscolo aveva ballato per lui. Non trovando nulla, cerca sotto i fogli sulla scrivania, dietro ad un vasetto di fiori… questi gesti aumentano anche la sicurezza della madre di Myra: la follia ormai si è impossessata di lui… forse il troppo dolore. Anche il professore tiene molto alla piccola.

“Professore, si sente bene? Cosa sta cercando?”.

Senza riflettere, Harvey Robert risponde:

“La sto cercando. Mi ha chiamato”.

La donna, spaventata, corre fuori dalla stanza, lasciandolo solo nelle ricerche.
Si rintana in cucina, esitando sul come comportarsi. Dopo un po’, certa che qualsiasi cosa sia capitata al professore, non possa essere pericolosa, decide di rientrare nella stanza di Myra.
Ciò che vede ora è un uomo mite sulla cinquantina, seduto accanto alla finestra a contemplare la pioggia che nel frattempo ha ripreso a scrosciare.

“Sta meglio, professore?”.

“So cos’è successo”.

La donna si siede distante da lui, sul letto.

“Dica. La ascolto”.

Senza girarsi, guardando sempre fuori dalla finestra, inizia il suo monologo:

“Ho visto la verità e ora la sento. Mi ha parlato. Myra è fuggita perché questo mondo, il mondo degli uomini l’ha delusa. Sentendolo dentro sé, sentiva anche i suoi limiti. È fuggita verso il mondo che l’uomo non accetta per troppa ragione. La ragione dovrebbe rafforzare le verità, non essere utilizzata per scappare da esse, giustificando le proprie paure. Fuggendo ha lasciato un ricordo di sé: la speranza di non doversene andare”.

La donna si avvicina alla finestra e appoggia una mano sulla spalla del professore.

“Io ho raccolto quella speranza e la custodisco dentro me. Myra in fondo è ancora presente grazie a me. Mi ha scelto per aiutarla a vivere tra gli uomini”.

La donna indietreggia.

“Guardi, signora!”.

Il professore indica fuori dalla finestra il Lerion.

“La vede! Myra galleggia! È viva nel mondo. E ora anche la sua speranza ha trovato casa. È viva tra gli uomini e nel mondo. Sono felice per lei… sento la sua felicità”.

La donna, dopo aver sgranato gli occhi puntati verso il fiume, scoppia in un terribile urlo e esce nuovamente, correndo, dalla stanza.
Il professore, ancora serenamente seduto in contemplazione del Lerion, quasi le urla della donna che continuano a giungere dal piano di sotto non lo scalfiscano, sorride alla piccola Myra e alla formichina smarrita che, entrando dentro di lui, lo ha preso per mano per condurlo alla verità.

Como, 2002

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

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