Buongiorno
a tutti. Io non riesco mai a preparare un intervento. Al mattino
poi… Vedo chi siamo, chi c’è… non amo le prediche, al contrario,
mi piace chiacchierare con la gente… ecco perché quello che
dico potrebbe anche essere scoordinato: lo sto pensando mentre vi
guardo…
Il gruppo citato prima da Franco Argento si chiama Cuncordu Bolothanesu.
Questa è la pronuncia esatta… Ecco… possiamo partire proprio
da qui.
Nel ’96 ho cominciato a lavorare su progetti culturali usando un’etichetta,
si può dire etichetta… o simbolo piuttosto… che ha nome Minores.
‘Sos minores’ in sardo dell’interno… quello che parlo io… significa
i piccoli, quelli piccoli. Quindi gli altri, i diversi dai grandi.
Altri nel senso di alterità rispetto ai modelli dominanti.
Nacque per una scommessa, una scommessa bella, culturale, ma non
in senso stretto, con Antonio Are, che, insieme a su Cuncordu Bolothanesu,
è un grande interprete della nostra poesia tradizionale,
del canto poetico dell’interno della Sardegna: quello cosiddetto
«a tenore».
È un canto rituale, con i quattro elementi che, stando in
cerchio, si fronteggiano, e sono, forse, la raffigurazione metaforica
dei quattro elementi del cosmo: terra, aria, acqua e fuoco.
È un canto millenario, con le due voci percussive gutturali
che potrebbero rappresentare, da un certo punto di vista, due aspetti
del Dionisiaco. Mostrandovi la disposizione cerco di non dilungarmi
troppo. Si vede il basso che rappresenta la terra, il punto fermo,
il toro, un animale di cui troviamo moltissimi richiami nelle tradizioni
della ritualità dionisiaca. Al suo fianco sa contra, il capro,
che è invece il fuoco. Pensiamo alle simbologie: dal Prometeo
al Dioniso catturato e reso servo dagli uomini. Ancora da noi sono
presenti rituali che, forse poco consapevolmente ma in maniera chiara,
ripercorrono questo mito. Proseguendo nel cerchio, alla sinistra
del basso, sta sa mesaoghe. È l’aria, la voce androgina che
si mescola alle due voci percussive fluttuando e legandone il ritmo.
Infine, di fronte al basso, sta la voce umana, sa ‘oghe, l’unica
che intona le parole, l’acqua e che trasporta il senso del poema.
Ecco… spesso parlavo con Antonio di questo canto, della sua ritualità,
della sua circolarità, dato che viene eseguito in cerchio,
con tutte le simbologie richiamate da questa disposizione, e della
sua capacità di arrivare ad essere un canto estatico…
Una volta, in una discussione più accalorata delle altre
gli dissi: ‘Vedi, questo canto una volta aveva un senso, ma oggi
non ne ha più. E’ stato svuotato di senso quando è
stato folklorizzato.’
Cosa volevo dire? …
La folklorizzazione di una cultura non avviene mai da parte di chi
la detiene, ma da parte di chi, arrivando dall’esterno comincia
col chiamare questa cultura col termine etnia. E quelli che vengono,
portano con sé la presunzione oppressiva di un’altra cultura,
autorizzata a chiamarsi tale, perché ha il potere ed è
armata …
Armata di danaro, armata di potere delle multinazionali, armata
in senso esteso della parola, non solo di armi offensive, visibili
fisicamente, anche di quelle… ma anche armata di supponenza, senso
di superiorità, potere economico. Ogni cultura che sovrasta
guarda alle altre culture in modo paternalistico e, in sintesi,
è come se dicesse: ‘Eh, sì, siete bravi. Ciò
che fate è interessante… Amo il vostro folklore adoro la
musica etnica…’ E non usa mai la parola cultura per indicare quello
che, secondo loro, secondo questa cultura dominante, è invece
espressione altra, differente.
Dunque dicevo ad Antonio: ‘Vi state folklorizzando. Praticamente
tra un po’ sarete solo dei buoni selvaggi che, quando arriveranno
i turisti, serviranno a far loro passare loro allegramente un po’
di tempo, a rendere più gradevole la vacanza!’ La colonizzazione
si avverte prima di tutto osservando il fenomeno dell’invasione
brutale e cieca delle masse di persone che arrivano lì con
gli occhi chiusi, non si guardano attorno e non sanno, né
si pongono il problema, che stanno calpestando una terra millenaria,
ricca di complessità, ricca di cultura. ‘Vengono i turisti
e voi li divertite. Così loro sono contenti e, quando tornano
a casa, possono dire anche di aver visto i selvaggi!’ Addirittura
organizzano gite ad Orgosolo, in Barbagia, con i finti assalti dei
banditi al pullman. E’ già successo un paio di volte, non
me lo sto inventando. Per emozionare i turisti!
Ma poi chi sono i turisti? Siamo noi, siete voi, siamo tutti noi,
cioè quelli che vivono nella natura altra. Confesso… ma sapete
già che succede, che ovunque i turisti vengano considerati
un po’ imbecilli.
Ovviamente questa è una stupida generalizzazione, ma sappiatelo:
normalmente, quando andate in vacanza in paesi ‘altri’, quelli del
posto vi considerano stupidi perché pensano, grazie agli
elementi acquisiti con l’esperienza, che chi arriva in quel posto
non veda, non tocchi, non entri, non sappia… Vengono lì,
bisogna spremergli i pochi soldi che gli si riesce a spremere. Perché
i soldi, se fossero molti, sarebbero comunque gestiti e organizzati
dai colonizzatori che hanno preso le terre e che sono della stessa
cultura e della stessa provenienza di quelli che arrivano come turisti:
i villaggi turistici non sono di gente del posto. Da noi sono milanesi,
bolognesi, tedeschi… che penso facciano come in Senegal, nel Maghreb.
Ho visto chi fa i villaggi turistici: la gente del posto non ha
questa dimensione né questa mentalità! Per cui i soldi
che vengono spremuti son pochi. Si tenta. Ed è una profonda
umiliazione per ogni cultura millenaria: la mia, in particolare,
che ha circa duecento metriche per cantare la poesia. Per fare letteratura.
Circa duecento fra metriche e formule di canto… è una dimensione
differente della poesia. Ovviamente quelle usate sono solo una trentina,
una quarantina al massimo. Non se ne usano più duecento,
però la raffinatezza, l’estensione, la complessità
di questo patrimonio è talmente grande che, senza presunzione,
credo non abbia uguali in questo mondo occidentale. Penso che se
volessimo trovare una tale complessità dovremmo andare in
Maghreb… a vedere… a misurare come cantano. O, in generale, dovremmo
andare in tutti quelli che sono considerati i margini del mondo.
Il primo elemento di presunzione della cultura che folklorizza,
cioè che chiama folklore le altre culture, è appunto,
come ho già detto, la cecità, la mancanza di sguardo,
di analisi, di conoscenza della storia, di tutto. Di tutto.
Torniamo ad Antonio. Gli dissi: ‘Senti, qui è inutile che
cantiate. Smettete di cantare!’ Perché da noi cantare e fare
poesia è la stessa parola. Dico questo per non creare malintesi.
Non esistono canzoni, esiste l’interpretazione, il canto dei poemi,
che vengono trasmessi in modo orale. Non esistono le canzonette
preconfezionate. Sono un fenomeno nato dopo gli anni ’60. La musichetta
così, la musica leggera, viene abbastanza disprezzata da
chi veramente canta. La sua maestria starebbe infatti nel saper
improvvisare o almeno citare un verso ‘leggero’, ironico, comico,
d’amore, ecc… e darne un’interpretazione musicale.
Dunque esistono i poemi, i versi, e la voce li interpreta, cioè
li canta, li riscrive, ne modifica anche le parole a seconda della
lingua che sta utilizzando (poiché abbiamo tre lingue fondamentali
e tutti i dialetti). Modifica le parole, dicevo, e le rende ritmicamente
strumentabili, a volte è obbligato a riscriverne anche la
metrica. Quindi c’è anche questa dissoluzione, dispersione,
modificazione della creazione poetica nell’interpretazione orale
di chi la porge alla gente.
Ho detto: ‘Perché cantate? Non cantate più niente…
vi limitate a ricantare cose trite e ritrite, non avete niente di
nuovo!’
E lui, con aria di sfida: ‘Se sei capace, scrivile tu!’.
Io, che venivo da tutt’altre esperienze, l’avanguardia, l’arte immateriale,
gli ultimi Fluxus, o i beat, la beat generation, accettai la sfida.
In quel periodo fui invitato ad un festival che si svolgeva tutto
in radio. Un festival mondiale. Partecipavano dall’Australia al
Canada, dall’Italia alla Spagna, dalla Francia agli Stati Uniti,
dal Brasile… Molte radio nazionali da ogni paese, come la RAI italiana,
avevano aderito a questo progetto che veniva coordinato a Linz,
in Austria. Lì c’era un grande mixer che per tre forme di
emissione, telematica, digitale – cioè onde satellitari –
e hertziana - cioè onde sonore della radio - emetteva, apriva
e chiudeva, creava i collegamenti tra le varie radio. In ogni paese
c’erano gruppi di artisti invitati, alcuni molto conosciuti. Di
questa esperienza esistono i CD. Durava ventiquattro ore. Il titolo
era Horizontal Radio, Radio Orizzontale. Senza regia. Per esempio
si sapeva che Berlino, alle 8,30, avrebbe preso Parigi, che avrebbe
rilanciato su Sidney. Intanto Mosca stava aprendo sul Canada, il
Canada stava rilanciando in Brasile. C’erano tutti questi intrecci
di emissioni… concerti, canti, letture di testi…
Era una cosa molto bella, prestigiosa, ma, proprio per questo, non
ci pagavano, non ci davano una lira.
‘Va bene - io dissi - vivo di questo e non mi pagate… Però
una cosa almeno vi chiedo: decidere io il mio quarto d’ora e dove
spenderlo’ Mi risposero che non c’era alcun problema. Allora io:
‘Sarajevo, Mosca e Ankara. Voglio la direttrice balcano-russa.’
‘Nessun problema.’ Chiamai Anton Roca – che verrà qui domani
a parlare… Anton è catalano… Altro popolo dell’Europa. Popolo,
non stato, non nazione. Popolo…
Anton costruì una grande stanza di rame che conteneva agevolmente
quattro persone. Era come una campana rovesciata e intitolò
l’opera, in catalano, Espai de la cancel-laciò, lo spazio
della rimozione, della cancellazione. Io scrissi in sardo un testo
di dignità, di saluto e di fratellanza, per i popoli, le
culture a cui mi volevo rivolgere, per chi avrebbe aperto la radio
in quel momento.
Su Cuncordu Bolothanesu, dentro la stanza di rame, lo cantò.
Contemporaneamente Fabiola Ledda, dal vivo, diceva il testo in tedesco.
Io in italiano. Quindi si intrecciavano le lingue, ma in modo che
tutto fosse comprensibile. Il canto che ho scritto si intitola Minores,
cioè i piccoli, gli altri, le altre culture… sos minores,
ed era rivolto a curdi, bosniaci e ceceni. Era il ’96, e quell’anno
noi riuscimmo a mandare un messaggio di fratellanza ai popoli curdo,
bosniaco e ceceno. Immaginate Radio Mosca, che, quando apre un’emissione,
si ritrova un canto di solidarietà per i ceceni, ben tradotto,
comprensibile… La cosa fece rumore perché era un evento che
destabilizzava anche la gestione convenzionale dell’arte. Io trovo
che il gesto artistico debba modificare i punti di vista, altrimenti
non ha senso che ci sia, che esista. E che abbia un compito nel
sociale.
Quindi dicevo… a curdi, bosniaci e ceceni… un messaggio di solidarietà.
A Radio Berlino lo sentono, piace, lo rilanciano ancora… è
andato in giro altre due o tre volte in ventiquattr’ore. Una parte
di questo canto c’è anche nel CD. Dice: ‘Non sentitevi soli.
Con le bandiere ci stanno schiacciando…’ e ancora: ‘il vento non
si può seppellire… se spegni il fuoco, nasce in un altro
punto… se vai incontro all’acqua e ti sfugge di fianco… per questo
continuiamo a cantare…’ Questo era il messaggio poetico che mandavamo.
La RAI aveva messo i microfoni sopra la stanza di rame e i quattro,
in cerchio, cantavano chiusi dentro. Quindi erano invisibili. La
stanza risuonava producendo un’acustica davvero emozionante. E c’era
anche il pubblico, molto pubblico, ma invisibile ai quattro che
cantavano.
La metafora era: ‘Se un popolo canta, fa poesia, scrive, se un popolo
si esprime, anche se lo rinchiudi, anche se lo soffochi, la sua
voce uscirà comunque, più forte e più vibrante…’
… inoltre io sono anarchico… c’era un discorso sugli stati, sulle
barriere… quindi… ma questi sono fatti miei… non voglio qui… lo
dico con orgoglio… ma senza farne una grande questione…
Da lì cominciammo a lavorare: un catalano, un gruppo sardo
di canto a tenore, Fabiola Ledda, sarda, Serge Pey, occitano, figlio
di profughi catalani scappati dalla guerra di Spagna e rifugiato
in Francia, prima nei campi di concentramento, poi nei campi profughi,
e Hawad, tuareg, andato via dal deserto, dove aveva anche problemi
perché gli algerini a Tamanrasset gli sparavano addosso.
Volevano rinchiuderli e tenerli fermi in un posto. Si sa come trattano
i tuareg, hanno la doppia oppressione: quella occidentale e l’oppressione
araba. Doppia come i Sarawi, un popolo nobilissimo… oppresso due
volte, da due stratificazioni. E poi Walking-budger, Tasso-che-cammina,
poeta cheyenne, all’anagrafe statunitense detto Lance Henson, il
primo laureato in letteratura della storia del suo popolo, rappresentante
all’ONU ed a Ginevra per la conferenza dei popoli nativi. Poi è
arrivato Abdeslam Raji, derviscio gnawa del Marocco, e poi… potrei
elencare altri nomi di intellettuali, di artisti, di gente di cultura
che ha lavorato e continua a lavorare con noi.
Minores non esiste: è un’etichetta effimera, che sta nell’aria
e quando c’è qualcosa da fare ricompare, si ricompone… ci
si contatta con le mail, ci si telefona… si vede chi è disponibile
e può venire. E lì si formano le situazioni. Andiamo
e facciamo. Così funziona Minores… una piccola cosa ma che
sta lavorando sulla dignità.
Come lo fa un libro che, in fondo, è solo un libro… una cosa
piccola, ma grande come questa antologia. Parole di Sabbia è
il primo segnale, in Italia, di riconoscimento di dignità
alle altre culture in arrivo. Niente paternalismi. No. Il problema
è un altro: avere consapevolezza che chi viene qui ci stia
portando cultura e complessità ed abbia tutta la dignità
di questa condizione. Se il paternalismo dell’occidente, che crede
di avere la chiave della cultura, non si rende conto di questo fenomeno,
con la sua misera autoreferenzialità diventerà anzi,
sta già diventando… una cultura… una piccola cultura… inespressiva,
incapace di narrare, incapace di trasportare bellezza, di trasportare
complessità, cromíe.
A me, sinceramente, non preoccupa tanto che questo dramma si verifichi.
Sono anzi contento che ci sia uno smascheramento del re, che è
ancora una volta nudo, non sa più narrare, è rimasto
nel suo occidente civilizzato.
Vedete: questo è il primo passaggio in Italia della letteratura
di migranti, chiamiamoli migranti… intellettuali, artisti, scrittori,
che vengono da altre parti del mondo. E che sta già diventando
cultura.
Guardatevi attorno: la Francia, l’Inghilterra, gli stessi Stati
Uniti… con alle spalle quanti anni di oppressione, di colonizzazione,
di immigrazione forzata?
Tanti… tante stratificazioni.
Guardiamo chi oggi scrive in Francia, chi sa narrare… se diciamo
un po’ di nomi, come un gioco, se dico i nomi di chi secondo me
sa narrare e poi cerchiamo un altro nome francese… vediamo che è
più immediato trovare nomi di scrittori immigrati. Come Tahar
Ben Jalloun, Adonis, Salman Rushdi in Inghilterra… non so… potremmo
continuare questo gioco all’infinito dicendo i nomi dei Nuyoricans
di New York, dei Chicanos della California, o di tutti i margini
del mondo… Brasile, Egitto, India… e le periferie delle città
occidentali… il mondo dove vive la differenza… lì dove ancora
il fuoco davanti a cui si narrava, non è stato completamente
spento, sostituito da uno schermo che ti dice tutto e ti appiattisce…
appiattisce verso il basso… omologa… annulla. Si dice che la globalizzazione
annulli le differenze. Sì, ma in basso, non in alto dove
tutti siamo uguali. Le annulla in basso dove siamo tutti cretini.
E’ questo che si vuole.
Il più grande pericolo che io riconosco riguardo alla letteratura
dei migranti - non so se è offensivo chiamarla così…
ditemi voi... anch’io sono un migrante, sono sardo… parlo logudorese…
- il pericolo, dicevo, è che questa ricchezza in arrivo si
annulli nella sterile imitazione di ciò che qui è
già letteratura…
Ecco, perché credo che il confronto, per rivelarsi utile
e produttivo, deve saper conservare le differenze originarie e sapersi
contaminare nello scambio. Non si impongano regole… arriverei a
dire: nemmeno grammaticali, o sintattiche, o grafiche… Come in Gran
Bretagna e Stati Uniti, dove abbiamo begli esempi di riscrittura
dell’inglese… scrittori giamaicani… portoricani…
Un atteggiamento questo che può restituirci, come dicevo
prima, complessità e differenze, e arricchire la forma letteraria
dell’italiano, altrimenti destinata a confrontarsi, prima o poi,
con lo spettro della propria sterilità. È già
successo cinquant’anni fa nel cinema.
Tutto ciò non vuol dire che in Italia, o fra gli italiani,
non ci sia chi sa scrivere, chi è aperto, chi ha cultura,
ed ha anche luminosità di sguardo… c’è, ma sono solo
le eccezioni. Fortunatamente ci sono ancora, tra gli scrittori italiani…
anche gli scrittori italiani… Con i miei discorsi di prima non sto
rinnegando niente né voglio commettere lo stesso errore,
rovesciato, dei colonizzatori. Ho il massimo rispetto e amore intellettuale
per chi si pone questioni, per chi indaga sulle complessità.
Né sto emettendo giudizi. Però, guardiamoci in faccia:
l’occidente non sa più narrare perché nessuno qui,
già da tanto tempo, ha più narrato niente. Solo chi
sa cos’è un popolo, una gente, chi sa ancora stare intorno
a un fuoco, chi ha ascoltato un nonno narrare, sa narrare a sua
volta, e potrà anche narrare. Gli altri, schiacciati dall’ovvietà
del loro panorama televisivo, sono destinati ad un’espressione che
si estingue senza nobiltà, evoluzione interiore, spiritualità…
Penso che la letteratura migrante sia il fenomeno che, finalmente,
darà un po’ di respiro alla nostra presuntuosa e stitica
cultura da occidentali.
E penso di essere stato chiaro. Dopo, se vogliamo, possiamo ancora
chiacchierare di queste cose.
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