Il re è nudo...e non sa più narrare
Di Alberto Masala

 

Buongiorno a tutti. Io non riesco mai a preparare un intervento. Al mattino poi… Vedo chi siamo, chi c’è… non amo le prediche, al contrario, mi piace chiacchierare con la gente… ecco perché quello che dico potrebbe anche essere scoordinato: lo sto pensando mentre vi guardo…
Il gruppo citato prima da Franco Argento si chiama Cuncordu Bolothanesu. Questa è la pronuncia esatta… Ecco… possiamo partire proprio da qui.
Nel ’96 ho cominciato a lavorare su progetti culturali usando un’etichetta, si può dire etichetta… o simbolo piuttosto… che ha nome Minores. ‘Sos minores’ in sardo dell’interno… quello che parlo io… significa i piccoli, quelli piccoli. Quindi gli altri, i diversi dai grandi. Altri nel senso di alterità rispetto ai modelli dominanti. Nacque per una scommessa, una scommessa bella, culturale, ma non in senso stretto, con Antonio Are, che, insieme a su Cuncordu Bolothanesu, è un grande interprete della nostra poesia tradizionale, del canto poetico dell’interno della Sardegna: quello cosiddetto «a tenore».
È un canto rituale, con i quattro elementi che, stando in cerchio, si fronteggiano, e sono, forse, la raffigurazione metaforica dei quattro elementi del cosmo: terra, aria, acqua e fuoco.
È un canto millenario, con le due voci percussive gutturali che potrebbero rappresentare, da un certo punto di vista, due aspetti del Dionisiaco. Mostrandovi la disposizione cerco di non dilungarmi troppo. Si vede il basso che rappresenta la terra, il punto fermo, il toro, un animale di cui troviamo moltissimi richiami nelle tradizioni della ritualità dionisiaca. Al suo fianco sa contra, il capro, che è invece il fuoco. Pensiamo alle simbologie: dal Prometeo al Dioniso catturato e reso servo dagli uomini. Ancora da noi sono presenti rituali che, forse poco consapevolmente ma in maniera chiara, ripercorrono questo mito. Proseguendo nel cerchio, alla sinistra del basso, sta sa mesaoghe. È l’aria, la voce androgina che si mescola alle due voci percussive fluttuando e legandone il ritmo. Infine, di fronte al basso, sta la voce umana, sa ‘oghe, l’unica che intona le parole, l’acqua e che trasporta il senso del poema.
Ecco… spesso parlavo con Antonio di questo canto, della sua ritualità, della sua circolarità, dato che viene eseguito in cerchio, con tutte le simbologie richiamate da questa disposizione, e della sua capacità di arrivare ad essere un canto estatico…
Una volta, in una discussione più accalorata delle altre gli dissi: ‘Vedi, questo canto una volta aveva un senso, ma oggi non ne ha più. E’ stato svuotato di senso quando è stato folklorizzato.’
Cosa volevo dire? …
La folklorizzazione di una cultura non avviene mai da parte di chi la detiene, ma da parte di chi, arrivando dall’esterno comincia col chiamare questa cultura col termine etnia. E quelli che vengono, portano con sé la presunzione oppressiva di un’altra cultura, autorizzata a chiamarsi tale, perché ha il potere ed è armata …
Armata di danaro, armata di potere delle multinazionali, armata in senso esteso della parola, non solo di armi offensive, visibili fisicamente, anche di quelle… ma anche armata di supponenza, senso di superiorità, potere economico. Ogni cultura che sovrasta guarda alle altre culture in modo paternalistico e, in sintesi, è come se dicesse: ‘Eh, sì, siete bravi. Ciò che fate è interessante… Amo il vostro folklore adoro la musica etnica…’ E non usa mai la parola cultura per indicare quello che, secondo loro, secondo questa cultura dominante, è invece espressione altra, differente.
Dunque dicevo ad Antonio: ‘Vi state folklorizzando. Praticamente tra un po’ sarete solo dei buoni selvaggi che, quando arriveranno i turisti, serviranno a far loro passare loro allegramente un po’ di tempo, a rendere più gradevole la vacanza!’ La colonizzazione si avverte prima di tutto osservando il fenomeno dell’invasione brutale e cieca delle masse di persone che arrivano lì con gli occhi chiusi, non si guardano attorno e non sanno, né si pongono il problema, che stanno calpestando una terra millenaria, ricca di complessità, ricca di cultura. ‘Vengono i turisti e voi li divertite. Così loro sono contenti e, quando tornano a casa, possono dire anche di aver visto i selvaggi!’ Addirittura organizzano gite ad Orgosolo, in Barbagia, con i finti assalti dei banditi al pullman. E’ già successo un paio di volte, non me lo sto inventando. Per emozionare i turisti!
Ma poi chi sono i turisti? Siamo noi, siete voi, siamo tutti noi, cioè quelli che vivono nella natura altra. Confesso… ma sapete già che succede, che ovunque i turisti vengano considerati un po’ imbecilli.
Ovviamente questa è una stupida generalizzazione, ma sappiatelo: normalmente, quando andate in vacanza in paesi ‘altri’, quelli del posto vi considerano stupidi perché pensano, grazie agli elementi acquisiti con l’esperienza, che chi arriva in quel posto non veda, non tocchi, non entri, non sappia… Vengono lì, bisogna spremergli i pochi soldi che gli si riesce a spremere. Perché i soldi, se fossero molti, sarebbero comunque gestiti e organizzati dai colonizzatori che hanno preso le terre e che sono della stessa cultura e della stessa provenienza di quelli che arrivano come turisti: i villaggi turistici non sono di gente del posto. Da noi sono milanesi, bolognesi, tedeschi… che penso facciano come in Senegal, nel Maghreb. Ho visto chi fa i villaggi turistici: la gente del posto non ha questa dimensione né questa mentalità! Per cui i soldi che vengono spremuti son pochi. Si tenta. Ed è una profonda umiliazione per ogni cultura millenaria: la mia, in particolare, che ha circa duecento metriche per cantare la poesia. Per fare letteratura. Circa duecento fra metriche e formule di canto… è una dimensione differente della poesia. Ovviamente quelle usate sono solo una trentina, una quarantina al massimo. Non se ne usano più duecento, però la raffinatezza, l’estensione, la complessità di questo patrimonio è talmente grande che, senza presunzione, credo non abbia uguali in questo mondo occidentale. Penso che se volessimo trovare una tale complessità dovremmo andare in Maghreb… a vedere… a misurare come cantano. O, in generale, dovremmo andare in tutti quelli che sono considerati i margini del mondo.
Il primo elemento di presunzione della cultura che folklorizza, cioè che chiama folklore le altre culture, è appunto, come ho già detto, la cecità, la mancanza di sguardo, di analisi, di conoscenza della storia, di tutto. Di tutto.
Torniamo ad Antonio. Gli dissi: ‘Senti, qui è inutile che cantiate. Smettete di cantare!’ Perché da noi cantare e fare poesia è la stessa parola. Dico questo per non creare malintesi. Non esistono canzoni, esiste l’interpretazione, il canto dei poemi, che vengono trasmessi in modo orale. Non esistono le canzonette preconfezionate. Sono un fenomeno nato dopo gli anni ’60. La musichetta così, la musica leggera, viene abbastanza disprezzata da chi veramente canta. La sua maestria starebbe infatti nel saper improvvisare o almeno citare un verso ‘leggero’, ironico, comico, d’amore, ecc… e darne un’interpretazione musicale.
Dunque esistono i poemi, i versi, e la voce li interpreta, cioè li canta, li riscrive, ne modifica anche le parole a seconda della lingua che sta utilizzando (poiché abbiamo tre lingue fondamentali e tutti i dialetti). Modifica le parole, dicevo, e le rende ritmicamente strumentabili, a volte è obbligato a riscriverne anche la metrica. Quindi c’è anche questa dissoluzione, dispersione, modificazione della creazione poetica nell’interpretazione orale di chi la porge alla gente.
Ho detto: ‘Perché cantate? Non cantate più niente… vi limitate a ricantare cose trite e ritrite, non avete niente di nuovo!’
E lui, con aria di sfida: ‘Se sei capace, scrivile tu!’.
Io, che venivo da tutt’altre esperienze, l’avanguardia, l’arte immateriale, gli ultimi Fluxus, o i beat, la beat generation, accettai la sfida.
In quel periodo fui invitato ad un festival che si svolgeva tutto in radio. Un festival mondiale. Partecipavano dall’Australia al Canada, dall’Italia alla Spagna, dalla Francia agli Stati Uniti, dal Brasile… Molte radio nazionali da ogni paese, come la RAI italiana, avevano aderito a questo progetto che veniva coordinato a Linz, in Austria. Lì c’era un grande mixer che per tre forme di emissione, telematica, digitale – cioè onde satellitari – e hertziana - cioè onde sonore della radio - emetteva, apriva e chiudeva, creava i collegamenti tra le varie radio. In ogni paese c’erano gruppi di artisti invitati, alcuni molto conosciuti. Di questa esperienza esistono i CD. Durava ventiquattro ore. Il titolo era Horizontal Radio, Radio Orizzontale. Senza regia. Per esempio si sapeva che Berlino, alle 8,30, avrebbe preso Parigi, che avrebbe rilanciato su Sidney. Intanto Mosca stava aprendo sul Canada, il Canada stava rilanciando in Brasile. C’erano tutti questi intrecci di emissioni… concerti, canti, letture di testi…
Era una cosa molto bella, prestigiosa, ma, proprio per questo, non ci pagavano, non ci davano una lira.
‘Va bene - io dissi - vivo di questo e non mi pagate… Però una cosa almeno vi chiedo: decidere io il mio quarto d’ora e dove spenderlo’ Mi risposero che non c’era alcun problema. Allora io: ‘Sarajevo, Mosca e Ankara. Voglio la direttrice balcano-russa.’ ‘Nessun problema.’ Chiamai Anton Roca – che verrà qui domani a parlare… Anton è catalano… Altro popolo dell’Europa. Popolo, non stato, non nazione. Popolo…
Anton costruì una grande stanza di rame che conteneva agevolmente quattro persone. Era come una campana rovesciata e intitolò l’opera, in catalano, Espai de la cancel-laciò, lo spazio della rimozione, della cancellazione. Io scrissi in sardo un testo di dignità, di saluto e di fratellanza, per i popoli, le culture a cui mi volevo rivolgere, per chi avrebbe aperto la radio in quel momento.
Su Cuncordu Bolothanesu, dentro la stanza di rame, lo cantò. Contemporaneamente Fabiola Ledda, dal vivo, diceva il testo in tedesco. Io in italiano. Quindi si intrecciavano le lingue, ma in modo che tutto fosse comprensibile. Il canto che ho scritto si intitola Minores, cioè i piccoli, gli altri, le altre culture… sos minores, ed era rivolto a curdi, bosniaci e ceceni. Era il ’96, e quell’anno noi riuscimmo a mandare un messaggio di fratellanza ai popoli curdo, bosniaco e ceceno. Immaginate Radio Mosca, che, quando apre un’emissione, si ritrova un canto di solidarietà per i ceceni, ben tradotto, comprensibile… La cosa fece rumore perché era un evento che destabilizzava anche la gestione convenzionale dell’arte. Io trovo che il gesto artistico debba modificare i punti di vista, altrimenti non ha senso che ci sia, che esista. E che abbia un compito nel sociale.
Quindi dicevo… a curdi, bosniaci e ceceni… un messaggio di solidarietà. A Radio Berlino lo sentono, piace, lo rilanciano ancora… è andato in giro altre due o tre volte in ventiquattr’ore. Una parte di questo canto c’è anche nel CD. Dice: ‘Non sentitevi soli. Con le bandiere ci stanno schiacciando…’ e ancora: ‘il vento non si può seppellire… se spegni il fuoco, nasce in un altro punto… se vai incontro all’acqua e ti sfugge di fianco… per questo continuiamo a cantare…’ Questo era il messaggio poetico che mandavamo.
La RAI aveva messo i microfoni sopra la stanza di rame e i quattro, in cerchio, cantavano chiusi dentro. Quindi erano invisibili. La stanza risuonava producendo un’acustica davvero emozionante. E c’era anche il pubblico, molto pubblico, ma invisibile ai quattro che cantavano.
La metafora era: ‘Se un popolo canta, fa poesia, scrive, se un popolo si esprime, anche se lo rinchiudi, anche se lo soffochi, la sua voce uscirà comunque, più forte e più vibrante…’
… inoltre io sono anarchico… c’era un discorso sugli stati, sulle barriere… quindi… ma questi sono fatti miei… non voglio qui… lo dico con orgoglio… ma senza farne una grande questione…
Da lì cominciammo a lavorare: un catalano, un gruppo sardo di canto a tenore, Fabiola Ledda, sarda, Serge Pey, occitano, figlio di profughi catalani scappati dalla guerra di Spagna e rifugiato in Francia, prima nei campi di concentramento, poi nei campi profughi, e Hawad, tuareg, andato via dal deserto, dove aveva anche problemi perché gli algerini a Tamanrasset gli sparavano addosso. Volevano rinchiuderli e tenerli fermi in un posto. Si sa come trattano i tuareg, hanno la doppia oppressione: quella occidentale e l’oppressione araba. Doppia come i Sarawi, un popolo nobilissimo… oppresso due volte, da due stratificazioni. E poi Walking-budger, Tasso-che-cammina, poeta cheyenne, all’anagrafe statunitense detto Lance Henson, il primo laureato in letteratura della storia del suo popolo, rappresentante all’ONU ed a Ginevra per la conferenza dei popoli nativi. Poi è arrivato Abdeslam Raji, derviscio gnawa del Marocco, e poi… potrei elencare altri nomi di intellettuali, di artisti, di gente di cultura che ha lavorato e continua a lavorare con noi.
Minores non esiste: è un’etichetta effimera, che sta nell’aria e quando c’è qualcosa da fare ricompare, si ricompone… ci si contatta con le mail, ci si telefona… si vede chi è disponibile e può venire. E lì si formano le situazioni. Andiamo e facciamo. Così funziona Minores… una piccola cosa ma che sta lavorando sulla dignità.
Come lo fa un libro che, in fondo, è solo un libro… una cosa piccola, ma grande come questa antologia. Parole di Sabbia è il primo segnale, in Italia, di riconoscimento di dignità alle altre culture in arrivo. Niente paternalismi. No. Il problema è un altro: avere consapevolezza che chi viene qui ci stia portando cultura e complessità ed abbia tutta la dignità di questa condizione. Se il paternalismo dell’occidente, che crede di avere la chiave della cultura, non si rende conto di questo fenomeno, con la sua misera autoreferenzialità diventerà anzi, sta già diventando… una cultura… una piccola cultura… inespressiva, incapace di narrare, incapace di trasportare bellezza, di trasportare complessità, cromíe.
A me, sinceramente, non preoccupa tanto che questo dramma si verifichi.
Sono anzi contento che ci sia uno smascheramento del re, che è ancora una volta nudo, non sa più narrare, è rimasto nel suo occidente civilizzato.
Vedete: questo è il primo passaggio in Italia della letteratura di migranti, chiamiamoli migranti… intellettuali, artisti, scrittori, che vengono da altre parti del mondo. E che sta già diventando cultura.
Guardatevi attorno: la Francia, l’Inghilterra, gli stessi Stati Uniti… con alle spalle quanti anni di oppressione, di colonizzazione, di immigrazione forzata?
Tanti… tante stratificazioni.
Guardiamo chi oggi scrive in Francia, chi sa narrare… se diciamo un po’ di nomi, come un gioco, se dico i nomi di chi secondo me sa narrare e poi cerchiamo un altro nome francese… vediamo che è più immediato trovare nomi di scrittori immigrati. Come Tahar Ben Jalloun, Adonis, Salman Rushdi in Inghilterra… non so… potremmo continuare questo gioco all’infinito dicendo i nomi dei Nuyoricans di New York, dei Chicanos della California, o di tutti i margini del mondo… Brasile, Egitto, India… e le periferie delle città occidentali… il mondo dove vive la differenza… lì dove ancora il fuoco davanti a cui si narrava, non è stato completamente spento, sostituito da uno schermo che ti dice tutto e ti appiattisce… appiattisce verso il basso… omologa… annulla. Si dice che la globalizzazione annulli le differenze. Sì, ma in basso, non in alto dove tutti siamo uguali. Le annulla in basso dove siamo tutti cretini. E’ questo che si vuole.
Il più grande pericolo che io riconosco riguardo alla letteratura dei migranti - non so se è offensivo chiamarla così… ditemi voi... anch’io sono un migrante, sono sardo… parlo logudorese… - il pericolo, dicevo, è che questa ricchezza in arrivo si annulli nella sterile imitazione di ciò che qui è già letteratura…
Ecco, perché credo che il confronto, per rivelarsi utile e produttivo, deve saper conservare le differenze originarie e sapersi contaminare nello scambio. Non si impongano regole… arriverei a dire: nemmeno grammaticali, o sintattiche, o grafiche… Come in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove abbiamo begli esempi di riscrittura dell’inglese… scrittori giamaicani… portoricani…
Un atteggiamento questo che può restituirci, come dicevo prima, complessità e differenze, e arricchire la forma letteraria dell’italiano, altrimenti destinata a confrontarsi, prima o poi, con lo spettro della propria sterilità. È già successo cinquant’anni fa nel cinema.
Tutto ciò non vuol dire che in Italia, o fra gli italiani, non ci sia chi sa scrivere, chi è aperto, chi ha cultura, ed ha anche luminosità di sguardo… c’è, ma sono solo le eccezioni. Fortunatamente ci sono ancora, tra gli scrittori italiani… anche gli scrittori italiani… Con i miei discorsi di prima non sto rinnegando niente né voglio commettere lo stesso errore, rovesciato, dei colonizzatori. Ho il massimo rispetto e amore intellettuale per chi si pone questioni, per chi indaga sulle complessità.
Né sto emettendo giudizi. Però, guardiamoci in faccia: l’occidente non sa più narrare perché nessuno qui, già da tanto tempo, ha più narrato niente. Solo chi sa cos’è un popolo, una gente, chi sa ancora stare intorno a un fuoco, chi ha ascoltato un nonno narrare, sa narrare a sua volta, e potrà anche narrare. Gli altri, schiacciati dall’ovvietà del loro panorama televisivo, sono destinati ad un’espressione che si estingue senza nobiltà, evoluzione interiore, spiritualità…
Penso che la letteratura migrante sia il fenomeno che, finalmente, darà un po’ di respiro alla nostra presuntuosa e stitica cultura da occidentali.
E penso di essere stato chiaro. Dopo, se vogliamo, possiamo ancora chiacchierare di queste cose.


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