Un giovane uomo torna
nella sua Africa a Taagh dopo sette anni di assenza. Ritrova una moglie
dimenticata, un figlio mai conosciuto, una madre amatissima, i ricordi
dell'infanzia. Ma anche un mondo di cui non conosce più i meccanismi.
Ormai, né il senso religioso né la dimensione magica
gli appartengono più, così come non si sente a suo agio
negli abiti tradizionali. Come se tutto ciò non bastasse, gli
viene mossa un'accusa gravissima che spinge l'autore a pizzicare con
maestria le corde del giallo. Sullo sfondo, le vicende politiche di
un Paese africano sempre sull'orlo della guerra e dell'ennesima ribellione
e accanto al protagonista un gruppo di giovani amici, anch'essi disorientati,
l'anima divisa tra la necessità di rimanere mostrandosi forti,
la possibilità di guadagnare qualcosa arruolandosi tra i ribelli
e il desiderio di mollare tutto e andarsene via. Le donne, invece,
madri, mogli, sorelle, sono animate da una grande energia che traggono
dalla magia, dalla fede religiosa e dalla consapevolezza del loro
antico potere femminino che dà loro una forza tale da spingerle
a mettere in atto una insolita ribellione anti-maschio. Un'Africa
- reale o immaginata - raccontata dall'autore con i toni appassionati
di un griot capace di farci partecipare con vivido realismo sia alla
dolce atmosfera di una spiaggia al tramonto, sia al caos di un incrocio
nell'ora di punta.
«Sei raffreddato, figliolo?» chiede il tassista. «Oh,
mi dispiace, te l'hanno attaccato i toubab! Non hanno una salute di
ferro come noi. Ils sont fragiles les toubabs. Qui si ammalano appena
cambia il vento. Fatti preparare dalla moglie, dalla mamma o da tua
sorella oppure da una vicina di casa un bollito di ossa di ginocchia
di manzo con tanta cipolla, senza olio, tanto pepe mi raccomando,
il pepe è il segreto. Beviti d'un fiato il brodo caldo, farai
una gran sudata e vedrai come il naso ti si libera? Il faut le faire
demain, le ossa di ginocchia di manzo bollite col pepe sono un afrodisiaco.
Farai felice tua moglie, figliolo.»
(dalla nota
editoriale)
Pap Khouma nel suo nuovo romanzo torna in Africa
di Zita Dazzi
(da http://www.ilpassaporto.kataweb.it)
MILANO - Al suo arrivo in Italia, 15 anni fa, Pap Khouma pubblicò
“Io venditore di elefanti”, un libro che divenne un piccolo
best seller, e che aprì la stagione dei romanzi scritti dagli
immigrati nel nostro paese. Da pochi giorni è in libreria la
seconda opera dello scrittore senegalese - “Nonno Dio e gli
spiriti danzanti” - ancora una volta edita da Baldini Castaldi
Dalai. Un’opera molto diversa dalla prima, che raccontava le
fatiche di un “vucumprà” - come li chiamavano allora
- un africano clandestino sbarcato a Milano dopo una lunga trafila
di disavventure.
Oggi Pap è un uomo maturo, ha sposato una donna italiana e
ha un figlio, Khadim, di ormai nove anni. E’ diventato cittadino
italiano, tiene seminari e conferenze in tutto il mondo – è
in partenza per gli Stati Uniti - anche se, normalmente, lavora in
una grande libreria del centro. Tutto il giorno in mezzo ai libri
e ai lettori, che lo riconoscono e vanno a cercarlo per avere consigli.
Di cosa parla questo secondo romanzo, che comincia su un
aereo in partenza da Milano verso l’Africa e termina su un altro
aereo, che percorre la rotta inversa?
“Protagonisti sono due immigrati che vivono in Italia e che
decidono di far ritorno nella loro patria, un luogo immaginario che
ho chiamato Sahael, situato in un punto imprecisato dell’Africa
occidentale, un po’ Senegal, un po’ Mali. I due tornano
e non trovano più la vita che avevano lasciato, eventualità
quasi banale per chi è stato via per tanto tempo. Questa avventura
è anche un escamotage per parlare di cose africane, rivolte,
politici corrotti, mancanza di democrazia”.
Niente di autobiografico, quindi?
“Gli emigranti sognano sempre di tornare a casa un giorno. Io
ho deciso di rimanere in Italia, ma qualche anno fa anch’io
avevo pensato di tornare a casa”.
E come è andata?
“Non ho retto. Ho provato e ho resistito solo nove mesi. Tornare
in patria significa ricominciare tutto da capo, cercare di integrarsi
in una realtà che è cambiata nel frattempo, significa
sentirsi diverso, anche se parli la lingua del posto, anche se hai
lo stesso colore di pelle dei locali. Non trovi più gli amici,
i punti di riferimento, devi ricominciare tutto da capo”.
Un po’ come emigrare di nuovo.
“Già. E poi in Africa nessuno ti regala niente. Là
tutti sognano di scappare, e chi torna viene visto come una persona
che vuole rubare ad altri qualche possibilità. Inoltre non
puoi permetterti di tornare, se non sei diventato molto ricco. Verresti
visto come un fallito, uno che non ha avuto successo”.
Ma lei, Pap Khouma, di successo ne ha avuto.
“In effetti ho fatto molta strada da quando ero un venditore
di elefanti. Appena arrivato, come tutti gli immigrati ho dovuto combattere,
fare fatica per sopravvivere, per avere casa, lavoro, documenti, rispetto.
Ed è una battaglia che va avanti tutti i giorni, anche per
chi, come me, ha trovato il suo posto, un lavoro, un certo successo,
una famiglia”.
Adesso, quindi, si sente “integrato”?
Dopo aver riflettuto per qualche minuto, Pap Khouma risponde meditabondo:
“Diciamo di sì, anche se la strada è ancora in
salita. Le discriminazioni ci sono sempre, anche per chi come me è
in qualche modo è 'arrivato'. Diciamo che l’inferno iniziale
per me è superato, ma di strada da fare ce n’è
ancora tanta. Non è possibile che gli immigrati debbano attendere
nove mesi per avere il rinnovo del permesso di soggiorno e che debbano
fare giorni di coda fuori dai commissariati per avere un semplice
documento. Questa non è democrazia”.
Come mai ha sentito l’esigenza di scrivere un romanzo
così africano se la sua vita oggi è ormai italiana?
“Volevo scrivere da tempo queste cose. Volevo raccontare come
il destino dell’Africa sia monopolizzato dagli occidentali.
Tutte le guerre africane prima erano lette come scontri tribali, ora
invece tutto viene letto in chiave islamica. Ho cercato di parlare
di queste cose attraverso un personaggio che si trasforma, a volte
è africano, a volte è un toubab, bianco, come li chiamiamo
noi africani. Lui è una metafora, una persona capace di rubare
corpo e anima altrui, come dicono certe credenze africane”.
In questo libro ci sono molti aspetti poco comprensibili dalla
cultura occidentale.
“In effetti, c’è in questo romanzo una dimensione
magica, legata all’Africa nera, ai riti e alle superstizioni
della mia cultura d’origine. Io rivendico le mie radici pagane.
Descrivo riti wudu, ai quali ho assistito da bambino. Pratiche che
da noi sono comuni per risolvere problemi esistenziali come in occidente
sono comuni le sedute di psicoterapia. Racconto strade e quartieri
dove ho vissuto da bambino. Racconto soprattutto, una vicenda nella
quale gli uomini non fanno una gran figura, perché loro hanno
il potere e lo gestiscono malissimo. Si salvano solo le donne, che
tengono in piedi tutto, che lottano per cambiare la situazione. Ma
la loro è una battaglia molto dura e non solo in Africa".
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