Da
qualche anno va molto di moda tra gli autori pubblicare libri in cui spiegano
ai figli un po’ di tutto. I temi sono i più disparati, basta
fare una piccola ricerca e si scopre che i padri (chissà perché
non le madri) si sono presi la briga di spiegare ai figli: il tennis,
Gesù, il calcio, il razzismo, l’Islam, il sesso.
Può accadere quindi di avvicinarsi alla nuova opera di Milton Fernàndez
con “stupore e diffidenza”. E lasciarsene spogliare, pagina
dopo pagina. E scoprire che l’autore non ha alcuna intenzione di
consegnare insegnamenti a suo figlio, ma solo una parte di sé e
della sua storia.
Questo libro ha il sapore di un epistolario d’amore, dove si alternano
pagine gravi a passaggi molto divertenti, prosa a poesia. Ci sono leggende
familiari, quelle che si tramandano da sempre e di cui ognuno di noi possiede
la propria dose, storie a volte buffe altre drammatiche, ma che vorremmo
non andassero perse. E magari tentiamo di narrarle ai nostri ragazzi,
che sono così distratti e che, mentre noi raccontiamo, già
guardano fuori, e non ci ascoltano. Ecco, Fernàndez le ha salvate
raccogliendole in un libro, come dono di un’eredità preziosa.
Ma Fernàndez è uno scrittore, anzi, uno straordinario scrittore,
e quindi questo diventa un pretesto, perché al di là inizia
la letteratura. E così viaggiamo tra pinguini adottati, notti di
Natale dalle solitudini affollate, “urgenze di distanza”,
il mitico Negro Jefe, el Viejo Soria, e tanti altri personaggi che, ve
lo assicuro, vi resteranno a farvi compagnia per un bel po’. Di
tanto in tanto, in punta di piedi, qualche indicazione al figlio, come
quando a proposito delle frontiere dice: “Sarà perché
siamo ancora molto animali. E tra questi, di quelli territoriali. Ma noi
uomini non ci accontentiamo di segnare il territorio, come fanno i cani.
L’uomo è uno specialista nel costruire muri. Alcuni di questi
fanno parte già di una storia che un giorno studierai sui libri.
Altri saranno ancora presenti quando arriverà quel momento, e saranno
forse persino più alti e più resistenti”. Nel corso
della lettura, ci si scopre ad ascoltare queste storie con crescente emozione,
come se venissero raccontate proprio per noi, in questo momento, e allora
ci lasciamo rapire da passaggi come questo: “Non credo negli angeli,
è chiaro. Non almeno in quelli dipinti sugli altari, o nei libri
di culto, dai capelli dorati e le alette di organza. Se esistessero, per
me, avrebbero la faccia sporca e la testa piena di ruggine, a furia di
rovistare tra le scartoffie di un mondo che cercano incessantemente di
redimere e che li prende per pazzi. (…) Come mi disse una volta
uno molto anziano, quando io ero molto giovane: Ricordati che se ti hanno
dato un paio di ali, è per alzarti in volo”. Poi, quando
meno te lo aspetti, tra un aneddoto e l’altro, la commozione prende
alla gola, in una morsa prepotente: è la struggente lettera d’amore
alla madre, sono i versi per il figlio che, per dirlo fernandezianamente,
ti scuotono “con la violenza di uno starnuto colossale”. Non
so se i personaggi viventi di cui parla l’autore saranno mai al
corrente dell’esistenza di questo libro, ma sarebbe bello che qualcuno
dicesse loro che qui viene loro offerto un omaggio forte, emozionato.
In alcuni passaggi “le lacrime si aggrappano alle risate”,
e ci si lascia trascinare da Milano a Montevideo, da un “tran-tran
quotidiano/che impatacca le dita” alle telefonate a casa, al di
là dell’oceano, per riannodare i fili di un’esistenza
interrotta e riavviata. “Il mondo non è più com’era
ai miei tempi, dicono i vecchi. Come io sognavo che fosse in quel quaderno
della mia infanzia. È cambiato lui e, soprattutto, sono cambiato
io”.
Un appunto sulle poesie: sono semplicemente superlative. Quella di chiusura
è sublime. Lo strazio della distanza, che inizia dentro di noi
ed è quindi incolmabile, quasi una maledizione, la gioia dolorosa
di ritrovare la propria casa, lontano, “dove lasciarmi amare non
sembra un’eresia”, perché è quello l’unico
luogo dove si possa “sfidare febbraio a piedi nudi”, dove
cercare Sebastiano “ai quattro canti/in italiano/trovarti in ogni
cosa/in uruguayo”.
Storie narrate per non dimenticare. Per non farci dimenticare. Quasi un
testamento spirituale. Un testimone da passare. Senza ruggine.
Poi chiudere il libro e sentirsi a un tratto disorientati, un pezzo a
Minas e uno a Como, e lasciarsi avvolgere dal pensiero che tutto questo
sia un po’ loco, “loco como un Fernàndez”.
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