Yasmine Roberta Catalano

Recensione a Sapessi Sebastiano… di Milton Fernàndez,

(Rayuela Edizioni, Milano 2010)

 

Da qualche anno va molto di moda tra gli autori pubblicare libri in cui spiegano ai figli un po’ di tutto. I temi sono i più disparati, basta fare una piccola ricerca e si scopre che i padri (chissà perché non le madri) si sono presi la briga di spiegare ai figli: il tennis, Gesù, il calcio, il razzismo, l’Islam, il sesso.
Può accadere quindi di avvicinarsi alla nuova opera di Milton Fernàndez con “stupore e diffidenza”. E lasciarsene spogliare, pagina dopo pagina. E scoprire che l’autore non ha alcuna intenzione di consegnare insegnamenti a suo figlio, ma solo una parte di sé e della sua storia.
Questo libro ha il sapore di un epistolario d’amore, dove si alternano pagine gravi a passaggi molto divertenti, prosa a poesia. Ci sono leggende familiari, quelle che si tramandano da sempre e di cui ognuno di noi possiede la propria dose, storie a volte buffe altre drammatiche, ma che vorremmo non andassero perse. E magari tentiamo di narrarle ai nostri ragazzi, che sono così distratti e che, mentre noi raccontiamo, già guardano fuori, e non ci ascoltano. Ecco, Fernàndez le ha salvate raccogliendole in un libro, come dono di un’eredità preziosa. Ma Fernàndez è uno scrittore, anzi, uno straordinario scrittore, e quindi questo diventa un pretesto, perché al di là inizia la letteratura. E così viaggiamo tra pinguini adottati, notti di Natale dalle solitudini affollate, “urgenze di distanza”, il mitico Negro Jefe, el Viejo Soria, e tanti altri personaggi che, ve lo assicuro, vi resteranno a farvi compagnia per un bel po’. Di tanto in tanto, in punta di piedi, qualche indicazione al figlio, come quando a proposito delle frontiere dice: “Sarà perché siamo ancora molto animali. E tra questi, di quelli territoriali. Ma noi uomini non ci accontentiamo di segnare il territorio, come fanno i cani. L’uomo è uno specialista nel costruire muri. Alcuni di questi fanno parte già di una storia che un giorno studierai sui libri. Altri saranno ancora presenti quando arriverà quel momento, e saranno forse persino più alti e più resistenti”. Nel corso della lettura, ci si scopre ad ascoltare queste storie con crescente emozione, come se venissero raccontate proprio per noi, in questo momento, e allora ci lasciamo rapire da passaggi come questo: “Non credo negli angeli, è chiaro. Non almeno in quelli dipinti sugli altari, o nei libri di culto, dai capelli dorati e le alette di organza. Se esistessero, per me, avrebbero la faccia sporca e la testa piena di ruggine, a furia di rovistare tra le scartoffie di un mondo che cercano incessantemente di redimere e che li prende per pazzi. (…) Come mi disse una volta uno molto anziano, quando io ero molto giovane: Ricordati che se ti hanno dato un paio di ali, è per alzarti in volo”. Poi, quando meno te lo aspetti, tra un aneddoto e l’altro, la commozione prende alla gola, in una morsa prepotente: è la struggente lettera d’amore alla madre, sono i versi per il figlio che, per dirlo fernandezianamente, ti scuotono “con la violenza di uno starnuto colossale”. Non so se i personaggi viventi di cui parla l’autore saranno mai al corrente dell’esistenza di questo libro, ma sarebbe bello che qualcuno dicesse loro che qui viene loro offerto un omaggio forte, emozionato. In alcuni passaggi “le lacrime si aggrappano alle risate”, e ci si lascia trascinare da Milano a Montevideo, da un “tran-tran quotidiano/che impatacca le dita” alle telefonate a casa, al di là dell’oceano, per riannodare i fili di un’esistenza interrotta e riavviata. “Il mondo non è più com’era ai miei tempi, dicono i vecchi. Come io sognavo che fosse in quel quaderno della mia infanzia. È cambiato lui e, soprattutto, sono cambiato io”.
Un appunto sulle poesie: sono semplicemente superlative. Quella di chiusura è sublime. Lo strazio della distanza, che inizia dentro di noi ed è quindi incolmabile, quasi una maledizione, la gioia dolorosa di ritrovare la propria casa, lontano, “dove lasciarmi amare non sembra un’eresia”, perché è quello l’unico luogo dove si possa “sfidare febbraio a piedi nudi”, dove cercare Sebastiano “ai quattro canti/in italiano/trovarti in ogni cosa/in uruguayo”.
Storie narrate per non dimenticare. Per non farci dimenticare. Quasi un testamento spirituale. Un testimone da passare. Senza ruggine.
Poi chiudere il libro e sentirsi a un tratto disorientati, un pezzo a Minas e uno a Como, e lasciarsi avvolgere dal pensiero che tutto questo sia un po’ loco, “loco como un Fernàndez”.


 


L'autrice:

Yasmine Roberta Catalano è nata nel 1975 a Roma. Di origine libanese, è maghrebina nell’anima. Ha vissuto quindici anni in Marocco ed è poi tornata a Roma dove si è laureata in Letterature Comparate. Collabora con diverse case editrici. Ha tradotto testi, pubblicato recensioni e saggi su numerose riviste letterarie. Ha vinto tre premi letterari giovanili. “Schegge di memoria. Gli italiani in Marocco”, (edizioni Senso Unico), è il suo primo libro.

Approfondimenti su Vocidalsilenzio:

Yasmine Roberta Catalano:

Schegge di memoria (scgeda bibliografica)

Recensione a 500 temporali, di Christiana de Caldas Brito

Recensione a Viviscrivi, di Christiana de Caldas Brito

 

 


 

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