Yasmine Roberta Catalano

Recensione a Di qui e d’altrove di Angel Luis Galzerano

(Compagnia delle Lettere, Roma 2010)

 

Se pensate che questo sia l’ennesimo libro sull’emigrazione, non temete: non è così. È la storia di un viaggio. Alla rovescia. Un viaggio di ritorno a cui manca l’andata. E non è un particolare da niente. Si conoscono molte storie di emigrazione, ma poco o nulla si sa sulla strada del ritorno, laddove il rientro può avvenire per obbligo, per desiderio, per destino. Conosciamo lo spaesamento di chi arriva in terra straniera. Ma chi parla di ciò che si prova a tornare in una madrepatria che in realtà non si conosce? Finalmente lo fa qui Angel Luis Galzerano, quarto figlio di emigranti italiani trapiantati in Uruguay (l’unico dei fratelli a portare un nome spagnolo, anzi due, quasi che il destino volesse ricordargli a quale terra appartenga), che un giorno sceglie di tornare a casa. Una casa di cui non conosce la lingua, se non quel delizioso intreccio di dialetto e idioma locale che per molti italiani all’estero è la lingua madre. Una terra d’origine che fino a quel momento ha conosciuto attraverso il volto e i racconti dei suoi, le foto di famiglia, le valigie di cartone riposte ma non nascoste. Chi ha provato sulla propria pelle quest’esperienza, chi sa cosa significhi lasciare la propria casa e andare verso la madrepatria, si riconoscerà immediatamente in alcuni passaggi di questo libro. Come nel ricordo del paesino natale, “Comunque il nostro barrio è rimasto là, cristallizzato nella mente, quasi come se aspettasse il nostro ritorno… E ogni volta che possiamo tornare è un ritorno felice; le strade sono un po’ più piccole di come le ricordavamo, ma ogni angolo sembra riconoscerci e ogni volta rivederlo è rivivere la nostra storia, è sognare per un po’ che quelle feste da bambini, al nostro arrivo, possano riprendere e farci dimenticare per un momento che anche lì, dove il nostro destino di emigranti ci porterà, noi cercheremo senza saperlo il barrio dalle larghe strade alberate che guardano verso il mare.” È esattamente così. Come quando si torna e in un attimo si riconquista la città percorrendola in lungo e in largo, come a dirle sono io, sono di nuovo qui.
Non manca un doveroso tributo alle donne, cui l’autore rende omaggio così: “Per ogni uomo che parte c’è una donna che resta, che lo aspetta o che lo segue. Le donne: migliaia di storie, piccole grandi eroine silenziose che, nell’Italia del prima e dopo guerra, diventavano emigranti quasi mai per loro scelta”. Nelle storie delle migrazioni, questo è un aspetto mai abbastanza sottolineato: sono le donne le prime a risentire dello sradicamento, loro a cui spesso nessuno chiedeva se fossero d’accordo, se fossero felici o meno di mollare una vita, affetti, oggetti e andare verso un luogo lontano con un’altra lingua e una vita da ricominciare, magari portandosi dietro qualche figlio, e con qualche altro da mettere in conto. Tra queste figure, Galzerano dedica un ritratto delicato e quasi in punta di piedi ad Angelina Guida, sua madre, e allo straziante destino di una donna che, come spesso accadeva all’epoca, dovette calpestare un sentiero che altri avevano già disegnato per lei, senza chiederle il parere. A lei è dedicato il libro, e “a tutto ciò che non è stato”.
Difficile inoltre non ritrovarsi nei paesaggi malinconici di un’Italia del nord, mentre “cammino e come altre volte ritorno a pensare che la vita, in questo momento, sta passando da qualche altra parte”. Del resto, se è vero che “Si parte quasi sempre con l’idea del ritorno”, è anche vero che “lo scontrarsi con la dura realtà dell’esilio, dell’integrazione e della nostalgia, ci separa dalle persone come se vivessimo in una storia non scritta per noi, ci fa restare ai margini e indifferenti alle nuove realtà”. Ma l’esilio di cui parla l’autore è subdolo, un esilio in una terra che in realtà è sua, la stessa da cui erano partiti i suoi genitori, e allora perché tanto spaesamento? Perché la propria terra è quella dove ci si sente a casa, l’unico luogo dove si può abdicare a se stessi. Così, “ci ritroviamo a fare il tifo per le squadre dove giocano i nostri connazionali anche se non ci piace il calcio. Appendiamo la bandiera e la foto della nostra città alle pareti”. Piccoli grandi rituali di un copione a cui non si sfugge. Anche perché dentro sappiamo bene che “Quando si parte lo si fa per sempre. Anche se dovessimo tornare, un altro è colui che torna e un’altra è la nostra terra”.
Una postilla sull’autore. Se c’è una cosa che colpisce oggigiorno è l’umiltà, dà quasi un senso di vertigine, circondati come siamo da persone che indossano pomposamente la qualifica di scrittori, spesso senza possederla. Qui invece, Galzerano esordisce avvertendo: “Sono un cantautore, cioè compongo canzoni. Lo dico per farvi sapere da subito che non sono uno scrittore”. È una modestia che gli rende onore. Perché invece questa storia è scritta in modo scorrevole e coinvolgente. Però è vero, non è propriamente un romanzo. È un album di fotografie, immagini, luoghi, tra Campora e Montevideo, tra donne e personaggi destinati a diventare leggenda. A tratti il musicista prende il sopravvento sullo scrittore e compaiono versi che sembrano (e spesso sono) canzoni.
Resta, a fine libro, un’impressione lieve, come di ninnananna; resta in mente un motivo, e un racconto da canticchiare.

 


 


L'autrice:

Yasmine Roberta Catalano è nata nel 1975 a Roma. Di origine libanese, è maghrebina nell’anima. Ha vissuto quindici anni in Marocco ed è poi tornata a Roma dove si è laureata in Letterature Comparate. Collabora con diverse case editrici. Ha tradotto testi, pubblicato recensioni e saggi su numerose riviste letterarie. Ha vinto tre premi letterari giovanili. “Schegge di memoria. Gli italiani in Marocco”, (edizioni Senso Unico), è il suo primo libro.

Approfondimenti su Vocidalsilenzio:

Yasmine Roberta Catalano:

Schegge di memoria (scgeda bibliografica)

Recensione a 500 temporali, di Christiana de Caldas Brito

Recensione a Viviscrivi, di Christiana de Caldas Brito

 

 


 

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